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La notte del Commendatore By: Anton Giulio Barrili (1836-1908) |
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Racconto di ANTON GIULIO BARRILI
CAPITOLO PRIMO. Nel quale si vede che il diavolo non è brutto quanto si dipinge.
Signora Zita! Signor padrone, comandi. Il mio tè. La servo subito. Questo era il breve dialogo che ricorreva ogni sera, intorno alle
dieci, e da anni parecchi, tra il signor Commendatore e la sua
governante; quegli dalla sua camera da letto, dove stava terminando di
leggere i giornali, questa da una saletta vicina, dove stava
aspettando i cenni del padrone. Per solito, quando scoccavano le dieci al pendolo dell'anticamera, il
signor Commendatore avea finito, o stava per finire, il suo pasto
intellettuale; e in questo caso, studiava il passo, si fermava un po'
meno in Russia, o in Baviera, o in Costantinopoli, o al Cairo, e
volgeva a grandi giornate verso le beate regioni dove fiorisce
spontanea la carota recentissima e dove s'adagia la firma del gerente
all'ombra d'un telegramma apocrifo. Intanto, dimandava il suo tè,
altro sonnifero schietto. La signora Zita si alzava allora dal suo
seggiolone, su cui stava biascicando una terza parte di rosario, tanto
per mettersi un po' di bene alla cassa di risparmio de' cieli; andava
pel bricco dell'acqua calda in cucina; la versava nel vaso d'argento,
su d'un pugnello di foglie della preziosa pianta cinese, e, portato il
vassoio con tutti gli annessi e connessi, lo deponeva sul tavolino,
mentre il padrone aveva già avuto il tempo di dare un'occhiata, ai
miracoli della tintura americana, ed anche alla notizia del capitano
Franklin, morto di fame coi suoi vent'otto compagni, vicino a molti
sacchi di cioccolatta, certo per mancanza di frullo. E lì, cascava un altro dialoghetto di questa conformità: Signor padrone, ecco il tè. Grazie; è fatto? Sì, se non lo vuol troppo carico. Sa che il medico ha detto... Sta bene, lo prendo subito. Comanda altro? No, grazie. Felice notte, signor padrone. Notte felice, signora Zita. Come vede il lettore, questi dialoghi non si distinguevano per troppa
varietà. E da parecchi anni, l'ho detto, erano sempre gli stessi ogni
sera, salvo quando il signor Commendatore era guasto e mandava pel
medico. I suoi acciacchi li aveva e i suoi cinquantacinque non li
aspettava già più. Egli versava adunque il suo tè nella chicchera; vi faceva struggere
per entro due pezzettini di zucchero; centellava la sua bevanda con
religiosa cura; indi, tra sospirando e ansimando, si toglieva dal suo
cantuccio presso il sofà, e andava a dar fondo in una poltrona ai
piedi del letto, per ispogliarsi con suo comodo. Il letto era a sopraccielo, colle cortine di un bel colore d'amaranto
a fiorami, come i riquadri delle pareti e le coperte dei mobili, fatti
all'antica, nella foggia del Cinquecento, ma imbottiti, se Dio vuole,
alla moderna. Era un uomo di buon gusto, il signor Commendatore; in
altri tempi quel suo nido aveva meritato invidiabili elogi. Ora, a dir
vero, non era più del tutto quello di prima. Certi canapè colle
spalliere imbottite e foderate di raso, certe scranne maritate a forma
di èsse, ed altri elegantissimi nonnulla, su cui s'erano esercitati
tanti aghi pazienti, avevano preso la loro giubilazione in un salotto
deserto, insieme coi pastelli, le miniature, le mani, ritratte in
marmo, e simili reliquie, già così care al padrone sotto i cessati
governi. Perfino la vecchia poltrona, ai piedi del letto, si era
vedovata di un leggiadro cuscino di seta ricamata in oro, per
coronarsi di una prosaica ciambella enfiata, che all'ingrato
gentiluomo doveva parere più soffice. E là si adagiava, lentamente
spogliandosi, come un uomo che ha tempo e sa di non aver a trovar
altro nelle molli piume, fuorchè due ore d'insonnia e quattro di
dormiveglia. Adesso che lo conosciamo quanto bisogna, pigliamolo caldo. La signora
Zita aveva posato sul tavolino il vassoio del tè ed augurato una
felicissima notte al padrone. Ma quella sera il signor Commendatore
non sapeva spicciarsi dal suo giornale e il tè fumava indarno nel
vaso... Continue reading book >>
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