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Tiranni minimi By: Gerolamo Rovetta (1854-1910) |
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BABY e TIRANNI MINIMI MILANO CASA EDITRICE BALDINI & CASTOLDI Galleria Vittorio Emanuele, 17 80 1913 PROPRIETÀ LETTERARIA MILANO TIP. PIROLA & CELLA DI A. CELLA TIRANNI MINIMI I. «Sta ferma, brutta saetta!» strillò la contessa Orsolina alzando con una mano, in aria di minaccia, un pettine d'osso giallo e sdentato, e coll'altra dando una tirata rabbiosa alla grossa coda di capelli castagni della piccola Agnese. La fanciulletta in piedi, dritta dinanzi alla padrona che la pettinava, non si era mossa fino allora, ma traballò per quella strappata forte, improvvisa, e le si empirono di lacrime gli occhioni grandi, infossati nel visino smorto. Tuttavia rimase sbalordita, senza mettere un grido: era tanta la soggezione e la paura, che non osava fiatare. «Sta ferma, brutta saetta!» ripetè la Contessa, e questa volta, dopo avere scaraventato il pettine sulla seggiola vicina, accompagnò la tirata con uno scappellotto. «Le fo anche da serva, a quella monella... E lei, invece di essermene grata, le inventa tutte per farmi scappar la pazienza!» La sera, prima che la famiglia uscisse in gala per recarsi al Caffè d'Europa , la piccola Agnese, che serviva in casa da sguattera, da cuoca, da cameriera e da bambinaia, veniva sempre lisciata e vestita di tutto punto dalle mani stesse della contessa Orsolina, che si assoggettava, non senza dispetto, a quella disgustosa operazione, pur di tener alto il decoro della casa. È da sapersi poi che la Contessa la chiamavano tutti Orsolina, col diminutivo, soltanto perchè ciò le faceva piacere; ma, in verità, era invece un pezzo di donna alta e tarchiata, coi capelli rossicci arruffati che pareano un enorme parruccone, e colla faccia tonda, colorita, tutta sparsa di lentiggini e di bitorzoli giallognoli, che la Contessa chiamava nei, reputandoli una delle sue tante bellezze. La bimba, nel frattempo, sotto le sfuriate della padrona aveva sempre taciuto, e per non muoversi punto, non si asciugava nemmeno le lacrime che le colavano chete giù dalle guance pallide e smunte, sul grembiule bianco. «Piange, quella smorfiosa. Piange!» continuò a brontolare la signora, che aveva incominciato a far la treccia, movendo in fretta le dita grosse, coperte dagli anelli d'oro, con un moto che pareva meccanico. «Piange, povera vittima!» e per ischernire Agnese prese a farle il verso, sforzando la voce aspra, fessa, a una cantilena piagnucolosa. Ma poi, quel dolore muto, quel pianto silenzioso finì per irritarla maggiormente e «Bada» tornò a gridare infuriata, «bada che se non ismetti di frignare, ti concio io pel dì delle feste». La bimba, allora, si sforzò di trattenere le lacrime e si asciugò gli occhi colle manine ruvide e annerite, già sformate dalle fatiche grossolane e screpolate dal rigovernare. La Contessa, terminata la treccia, la legò in fondo stretta stretta coi capelli che tolse via dal pettine; prese le forcine che aveva preparate sulla seggiola (era in cucina, dove abbigliava l'Agnese), le riunì tutte in un mazzetto e se le mise fra le labbra per averle più sotto mano; poi levandosele ad una ad una appuntò con esse la freccia che rigirò intorno al cocuzzolo, aggiustandovela in fine con un colpo secco della palma della mano. «Ecco fatto: adesso voltati marmotta!» La bimba ubbidì subito; si voltò, tenendo la testa bassa; ma sul grembiulino bianco, inamidato, si vedevano qua e là le tracce delle lacrime cadute. La Contessa, a quella vista, strillò come una indemoniata, agitandosi, smaniando, che pareva presa dalle convulsioni: buttò fuori improperi e parolacce, e siccome la piccina spaventata proruppe in singhiozzi, le allungò un manrovescio così forte che le fe' rossa tutta una guancia... Continue reading book >>
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