* * * * * NOTA DEL TRASCRITTORE: L'uso degli accenti non è uniforme nel testo. Minimi errori tipografici di punteggiatura sono stati corretti senza annotazione. * * * * * DELLO STESSO AUTORE PRIMO VERE--Prima edizione, 1878. (Esaurita). PRIMO VERE--Edizione ampliata, 1879. (Esaurita). IN MEMORIAM--(100 esemplari), 1879. (Esauriti). TERRA VERGINE--Sesta edizione, 1881. (Esaurita). CANTO NOVO--Sesta edizione, 1881. (Esaurita). INTERMEZZO DI RIME--Ottava edizione, 1883. (Esaurita). IL LIBRO DELLE VERGINI--Seconda edizione, 1884. (Esaurita). SAN PANTALEONE--G. Barbèra, editore, 1886--Prezzo L. 4. _Prezzo del presente volume_: LIRE QUINDICI. ISAOTTA GUTTADÀURO Il biondo Astíoco e Brisenna reína.... BALLATA D'ASTÍOCO E DI BRISENNA. Disegno di G. A. SARTORIO. [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_] GABRIELE D'ANNUNZIO ISAOTTA GUTTADÀURO ED ALTRE POESIE CON DISEGNI DI VINCENZO CABIANCA--ONORATO CARLANDI--GIUSEPPE CELLINI ENRICO COLEMAN--MARIO DE MARIA--CESARE FORMILLI ALESSANDRO MORANI--ALFREDO RICCI--G. A. SARTORIO ROMA NEL DÌ NATALE DEL MDCCCLXXXVI Editrice LA TRIBUNA. PROPRIETÀ LETTERARIA PROLOGO Mentre Lucrezia Borgia, in nuziale pompa, venìa con piano incedere (la veste lilïale risplendea di lontano) tra i cardinali principi in vermiglia cappa, che con ambigui sorrisi riguardavano la figlia de 'l papa,--ne' contigui atrj i coppieri, adolescenti flavi che rispondeano a un nome sonoro ed arrossian come soavi fanciulle ed avean chiome lunghe, i coppieri d'Alessandro sesto tenean coppe d'argento entro la man levata, e con un gesto d'umiltà grave e lento offeriano a le molte inclite dame le rose ed i rinfreschi. Allettati correan pieni di brame i veltri barbareschi traendo fra le zampe il guinzal d'oro che mal ressero i paggi. Gioivano le dame inclite in coro ai gran salti selvaggi, e disperdendo in copia su 'l lucente musaico a piene mani cibi e rose, blandían trepidamente i belli atroci cani. Allor Giulia Farnese, un suo lascivo balen da li occhi fuora mettendo (a 'l riso il corpo agile e vivo fremea come sonora cetra), il sen nudo porse; e in tra le poppe bianche rotonde e dure un fante a lei da le papali coppe versò le confetture. Or non così, mie belle, o voi che tanto amai e celebrai e incoronai del mio lucido canto ne' boschi e ne' rosai, or non così venite al mio festino ove l'Amor v'aduna? I vostri baci, più dolci de 'l vino, a 'l sole ed a la luna io colsi un tempo; e, come entro una rara coppa di fin lavoro, mentre i nuovi desii cercanvi a gara --veltri da 'l guinzal d'oro,-- la profonda dolcezza entro la rima sottilemente infusa io vi rendo. Gioite voi. Ma, prima, Isaotta, la Musa, quella ch'io più cantai, con un baleno tra i cigli e con protese le bellissime braccia, offre il suo seno, come Giulia Farnese. IL LIBRO D'ISAOTTA Ella apparve.--Buon dì, messer cantore!-- disse ridendo con gentile volto. IL DOLCE GRAPPOLO, II. Disegno di ALFREDO RICCI. [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_] SONETTO LIMINARE PALAGIO D'ORO, nobile magione de la Speme, de 'l Riso e de' Piaceri, ove sotto i belli archi alti e leggeri danzano i Sogni cinti di corone; SELVA D'ORO ove Amor, nudo garzone, con i Desiri, cupidi sparvieri, con i Peccati, veltri agili e neri, attende a la sua dolce cacciagione; FONTE D'ORO ove candidi e tranquilli vanno i cigni di Venere per torme facendo a 'l dorso calice de l'ale; O MIO LIBRO, convien che più sfavilli sonante il verso e più ridan le forme quando Isaotta Guttadàuro sale. I. IL DOLCE GRAPPOLO I. --O madonna Isaotta, il sole è nato vermiglio in cima a 'l bel colle d'Orlando: ei su' vostri balconi ha ravvivato le rose che morìan trascolorando. Sorga da l'ampio letto di broccato or la vostra beltà lume raggiando. O madonna Isaotta, il sol che v'ama con un lucido cantico vi chiama; e gridano i paoni a quando a quando. Udite voi salir nostre preghiere o ancor vi tiene il Sonno in tra le braccia? Dolce sarebbe a' nostri occhi vedere i primi raggi su la vostra faccia ove il trapunto lin de l'origliere ne la notte lasciò sua rosea traccia. Palpita il vostro sen con più veloce ansia a' richiami de la nostra voce, mentre la fante il busto alto v'allaccia? «Levasi a lo mattin la donna mia ch'è vie più chiara che l'alba del giorno, e vestesi di seta Caturìa, la qual fu lavorata in gran soggiorno a la nobile guisa di Surìa», canta l'Antico nel poema adorno. «Il su' colore è fior di fina grana, ed è ornato a la guisa indiana; tinsesi per un mastro in Romanìa». Levasi da 'l gran letto in su l'aurora la mia donna; e la sua forma ninfale tra le diffuse chiome a l'aria odora e a 'l sol risplende più bianca del sale. Tutta di gocce tremule s'irrora ne 'l lavacro di marmo orientale. Miran le statue a torno quella pura forma e tessuta ad arte in su le mura ride la greca favola d'Onfale. Ridono i fatti di Venere dia su 'l cofano di cedro, alto lavoro d'artefici maestri di tarsìa, che sta ne 'l mezzo d'un bacile d'oro; ove con signorile atto la mia donna gitta incurante il suo tesoro di smeraldi, rubini e perle buone che piovon come per incantagione sovra il metallo nitido e sonoro. Ella, composta in vago atteggiamento, a mezzo de la rara conca emerge; e la fante con anfore d'argento pianamente d'ambrate acque l'asperge. Al diletto ella freme, e con un lento gesto la chioma rorida si terge. Come tondi i ginocchi e come bianchi! Han dal respiro un dolce moto i fianchi e il petto ad ogni brivido s'aderge. O madonna Isaotta, è dura cosa ir le beltà non viste imaginando. A voi conviene omai d'esser pietosa poi che da tempo in van prego e dimando. La bocca picciolella ed aulorosa, la gola fresca e bianca in fine quando concederete al bacio disiato? O madonna Isaotta, il sole è nato vermiglio in cima a 'l bel colle d'Orlando.-- II. Così chiamai l'amata in nona rima, sotto il grande balcon di tiburtino ov'han lo scudo i Guttadàuro-Alima con gocce d'oro in campo oltremarino. Dormìa la villa ne 'l silenzio: in cima a li aranci de 'l nobile giardino aprivano i paoni le gemmanti piume verso la luce, e de' lor canti striduli salutavano il mattino. Ella apparve.--Buon dì, messer cantore!-- disse ridendo con gentile volto. --Non questo è il tempo gaio de 'l pascore, ma voi siete di ver loquace molto. Or seguite a trovar rime d'amore, chè con benigno orecchio, ecco, v'ascolto.-- Io le dissi:--Madonna, io son già fioco. Or voi di sì salutevole loco scendete a me che son di pene avvolto!-- Ella tacque; ed il capo inchinò mite: ne li occhi le ridea novo pensiere. Tutta quanta di porpora una vite saliva da l'inferïor verziere, e le bacchiche foglie colorite mesceansi con le rose a le ringhiere. Avean piegato un dì li aspri sermenti a la copia de' grappoli rubenti che il padre Autunno infranse nel bicchiere. Ella disse ridendo:--Io pongo un patto, vago sire, a la mia dedizïone. --Il vago sire--io dissi--accoglie al tratto quel ch'Isaotta Guttadàuro pone. Ed ella:--Quando un sol grappolo intatto ne' vigneti che bagna il Latamone lungh'esso il chiaro colle solatìo troveremo, io sarò pronta al disìo vostro e sarete voi di me padrone.-- III. Ella discese allora: un giuramento fece sicuro il gran patto d'amore. E prendemmo la china. Senza vento era l'aria; ne 'l placido candore erano i campi senza ondeggiamento, brevi selve di canne erano in fiore. Quasi una gratitudine beata al sole offrìa la terra bene amata: era novembre, il tempo de 'l sopore. D'innanzi, il Latamon, fiume regale, lambiva in suo lunante arco i vigneti ove l'ebro clamor vendemmiale ed i carmi de' rustici poeti salutato avean già l'almo natale de 'l vino autor di gioia, ora quieti. Disse Madonna:--Siate accorto e saggio: quivi incomincia il pio pellegrinaggio.-- D'in torno s'inchinarono i canneti. Io dissi:--Non mi giova la fortuna, o madonna Isaotta, ne 'l trovare.-- Ed ella a me:--Non ha virtude alcuna il fino Amore per v'illuminare? Il grappolo tardìo dove s'aduna da lungo tempo, come in alveare, la dolcezza del miele a 'l lento foco de 'l sole, aspetta noi per qualche loco.-- Io dissi:--Non mi stanco di cercare.-- Noi camminammo giù per la vermiglia china che discendeva all'acque d'oro. Da lungi a quando a quando una famiglia di villici sorgendo da 'l lavoro ci guardava con alta maraviglia; e le fanciulle interrompeano il coro. Venendo innanzi con giulivo ardire una gridò:--Che mai cerchi, o bel sire?-- Ed io risposi a lei:--Cerco un tesoro.-- Noi così camminammo: ella men lesta, poi che non concedeami anco la mano. In guardare tenea china la testa, bella come la bella Blanzesmano allor che cavalcò per la foresta a fianco a 'l suo Lancialotto sovrano. Le fronde sotto i pie' stridevan forte; ma a quelle viti ignude aspre e contorte li occhi chiedevan la dolce esca in vano. Disse Madonna:--Riposiamo al fine.-- Era lungi un trar d'arco il bel rivaggio. L'alta erba mareggiava in su 'l confine placidamente, come biada a maggio; or sì or no giungea da le colline di citisi e di timi odor selvaggio. Pareva il sol d'autunno per le chiare vie de 'l cielo un novello orbe lunare: i vapori facean mite il suo raggio. Ella disse. Non mai le sue parole ebber soavità così profonda: cadevan come languide viole da l'arco de la sua bocca rotonda. E quel sorriso fievole de 'l sole ancor la testa le facea più bionda. Era, d'intorno, un grande incantamento. Era il diletto mio qual d'uom che, lento, in giaciglio di fiori ampio s'affonda. Tacque. Uno stuol d'augelli, d'improvviso, attraversò con ilari saluti. Noi trasalimmo, come ad un avviso misterioso de la terra; e, muti, impallidendo ci guardammo in viso. Poi prendemmo sentieri sconosciuti. I pioppi nudi e senza movimento parevan candelabri alti d'argento; ed i lauri fremean come leuti. IV. Oh ne la valle concava d'Orlando inaspettata vista del tesoro! Giacea la bella vigna fiammeggiando con tralci di rubino e foglie d'oro; e uno stuolo d'augelli roteando facea ne 'l mezzo de la vigna un coro, --O madonna Isaotta, ecco la vita!-- io le gridai, con l'anima rapita. Ed in alto gridò lo stuol canoro. Io la trassi a quel loco: ella più lesta venìa, chè forte io la tenea per mano. Tutta rosea volgea da me la testa, bella come la bella Blanzesmano allor che la baciò per la foresta l'amato suo Lancialotto sovrano. E le dissi:--O Madonna, io tengo il patto. Per voi colgo il fatal grappolo intatto.-- Ella mi diede il bacio sovrumano. II. BALLATA D'ASTÍOCO E DI BRISENNA Amor, quando fiorìan ne 'l bel paese il biondo Astíoco e Brisenna reina, da 'l colle a 'l pian, da 'l fiume a la marina sonavan alto le tue chiare imprese. La terra di Brolangia era un verziere, in figura d'un sistro, ismisurante. Il verde paradiso due riviere cingeano, come braccia d'un amante. Il suol crescea meravigliose piante, nudrito da le pingui alluvïoni. Quivi tennero lieti eptameroni il dotto Astíoco e Brisenna cortese. La bontà che venìa da' lor costumi era sì dolce, o Amore, e sì profonda che il suolo si coprìa di rose e i fiumi volgean oro smeraldi ambra ne l'onda; e, come ne la Tavola Ritonda, ragionavano i tronchi e le fontane, potea la Luna su le menti umane, munían gl'incanti ai prodi elmo e pavese. Su la cima del bel colle d'Orlando sorgevano i palagi, aperti a 'l giorno. Diecimila colonne scintillando ricorrevan per l'alte moli a torno. Vi saliva una scala, in doppio corno, ampia, coperta di fanti e d'arcieri, di messi, di valletti e di levrieri, di dame e di donzelle in ricco arnese. Convenivan le donne de' poeti ivi, in un luogo detto Galaora; e sedeano in su' fulgidi tappeti, ove li amor di Cefalo e d'Aurora, illustri opere d'ago, uscieno fuora qua e là di tra le vesti ricoprenti. Sedean le donne, in bei componimenti di grazia, ad ascoltar la serventese. Oh fontana d'Elai, per molti getti ricadente ne 'l vaso di porfíro, che dieci ninfe e dieci satiretti reggean, piegati ad una danza, in giro! Immergeavi una coppa di zaffiro Brisenna, e la porgeva a 'l rimatore. Celava l'acqua in sè virtù d'amore che in cor mortale si facea palese. Ma le belle traevansi in disparte. Venivan quindi per eguali torme di sette; e digradando in lungo ad arte imitare volean l'ímpari forme de 'l flauto che il dio Pan seguendo l'orme di Siringa construsse in su 'l Ladone. Come le canne, l'agili persone tutte vibravano, a la danza intese. Ogni torma correa verso l'eletto. Ad una ad una le bocche fragranti, le bocche dolci più che miel d'Imetto, egli baciava, splendido in sembianti. Fuggia la torma, ed ecco l'altra avanti. E svolgeasi così, lungo i roseti, la danza; mentre li èmuli poeti a tal vista fremean nuove contese. Oh fontana d'Elai, dove son l'acque che un dì fluiron per sì larga vena? Dov'è il murmure tuo che tanto piacque a 'l mite Astíoco e a Brisenna serena? Cadde una notte ne 'l tuo sen la piena Luna, divelta per forza di carmi. S'infransero a 'l tremore orrido i marmi, e fumaron stridendo l'acque incese. III. ISAOTTA NEL BOSCO «Eranmi schiavi li astri in lunghe torme; «e in tal regno le feste ho celebrate «de' suoni de' colori e de le forme.» BALLATA VI. Disegno di G. A. SARTORIO. [Illustrazione] BALLATA I. Pur jeri (uscían da la recente piova i cieli, tersi più che vetri schietti) andavam co' ginnetti pe' boschi de la valle cavalcando. Ella, dritta in arcioni, agile e franca, reggea ne 'l pugno i freni e moveali con varia maestría. Piegava ad arco il ginnetto la bianca chioma e fervea con leni giochi, sommesso a quella tirannía; e la sua leggiadría e la beltà d'Isotta e il bosco intento e li albori sereni, che di velari penduli d'argento adornavano il bosco in tutti i seni, facean così gentil componimento ch'io mi chiesi:--Non forse in lor balía hannomi i Sogni?--E stetti dubitando. BALLATA II. Non m'avevano i Sogni in lor balía; chè mi disse la Bella, ad un radore: --Senti soave odore di viole, che giunge a quando a quando!-- Su' freschi venti odore di viole giungea, soave e forte; trepidavano li alberi novelli, in torno; e aprivan loro gemme a 'l sole le rame ésili e torte; e verzicavan fitti li arboscelli, come verdi capelli ondeggiando ne l'aria ad ogni fiato. E parevan le morte ninfe rivivere, e parea rinato Pane al mondo, ed alfin parean risorte tutte le deità del tempo andato, ma quali un dì le vide il Botticelli in su' poggi di Fiesole vagando. BALLATA III. Ella disse:--Cerchiamo le viole tra l'erbe, chè non son lungi nascoste.-- (O fiori, che a me foste cagion di gaudio, vostro pregio io spando.) Balzai a terra; ed ella, anche d'un salto, vennemi sovra il petto, ridendo. Propagaronsi per l'òra le freschissime risa, in mezzo a l'alto silenzio; ed il ginnetto anitrì ver la dolce sua signora. Noi ci mettemmo allora su l'odorosa traccia a ricercare ne 'l bosco giovinetto. Chini su 'l suol pratío, senza parlare, noi eravamo intesi a quel diletto. S'udivano i cavalli pascolare da presso e impazienti ad ora ad ora scuoter li arcioni, forte respirando. BALLATA IV. Piovea su 'l verde il sol di marzo, infranto, però che avea co' rami allegra lotta. E le man d'Isaotta sparivano in tra 'l verde, a quando a quando. Oh mani belle, oh mani bianche e pure come ostie in sacramento, dolci a li afflitti, prodighe, regali meglio che a' tempi gai de l'avventure! Oh mani che il cruento cuor nostro ignavo e le piaghe mortali e tutti i nostri mali con infinita carità guariste, ed a 'l nostro tormento le porte d'oro de' bei sogni apriste, e a 'l nostro ardore cieco e vïolento in coppa d'oro un vin sereno offriste! Oh bianche mani, oh gigli spiritali tra le viole, ne 'l chiarore blando! BALLATA V. Riprendemmo la via, con i ginnetti ch'eran più vivi e più giocondi. Al corso anelavano; e il morso tingean di calda bava, scalpitando. Ora la selva, innanzi a li occhi nostri, misteriosa e grave, ergeva i tronchi e i rami a 'l ciel maggiori; e, lunga componendo ala di chiostri, volgeasi in ampia nave, qual dòmo, o spaziava in alti fòri. Avea cupi romori. Ella disse:--Non dunque tal sentiere mena a 'l loco soave u' la Bella, aspettando il Cavaliere, dorme sepolta in tra le chiome flave che crebbero per mille primavere?-- Ond'io sorrisi. Ed ella:--Or quali amori sogna colei ne l'animo, aspettando?-- BALLATA VI. --Non sogna--io dissi. Ed ella:--Io so che un giorno venne il sire a fugar da que' cari occhi l'incanto, ed a ginocchi baciò la rara mano, supplicando. Ei parlò di tesori e di castella, di terre ismisurate, d'omaggi e di diletti senza nome. Lucidamente arrisegli la Bella, dicendo: «Voi mi fate «onor grande, o mio sire. Ma pur, come «sorga l'alba, le some «voi leverete, a ritrovare l'orme. «Altre plaghe ho regnate! «Eranmi schiavi li astri in lunghe torme; «e in tal regno le feste ho celebrate «de' suoni de' colori e de le forme.» Disse; e di nuovo arrise, ne le chiome ampie, come in un gorgo, profondando.-- BALLATA VII. Il mister favoloso in cui la selva era sommersa, e quella voce umana che dava ad una vana ombra la vita, e quel chiarore blando, il senso mi cingean di tal malía ch'io mi credeva udire suono di corni in lontananza ròco e veder cervi a mezzo de la via, grandi e candidi, escire con in fronte una croce alta di fuoco. Strano li alberi gioco facean di luci. L'un parea, tra' rai, smeraldi partorire; l'altro balzar da li orridi prunai come serpente, in mal attorte spire. Disse Madonna:--Si convenne Elai un tempo con Astíoco in questo loco, il qual re meriggiava poetando. BALLATA VIII. Meriggiava quel re, sotto il pomario che splendeva a' suoi dì come un tesoro. Cadeano i frutti d'oro gravi su 'l suolo in torno, a quando a quando. Rendean per l'aria in torno una fragranza di miel, così gioconda che al cuor giungeva quale un vin di rose. E il buono Astíoco, in mezzo a l'abondanza de' frutti, di profonda dolcezza pieno l'anima, si pose a laudare le ascose virtuti de la terra in un poema. Giunto era a la seconda canzone quando, senz'alcuna tema, ei scorse Elai. Qual re di Trebisonda, il capo cinto avea d'un dïadema ed il petto di pietre preziose che vincevano il dì riscintillando. BALLATA IX. Chiesegli Elai: «Vuoi tu, sir di Brolangia, «sopra tutta la terra alzar tuo soglio?» Ed il sir: «Ben io voglio! «Or tu dammi, che 'l segua, il tuo comando.» «Sorgi dunque da l'ombra e t'incammina «pe 'l sentier ch'io t'addito, «fin che tu giunga in riva de 'l ruscello, «ove un giorno la fata Vigorina «adagiò ne 'l fiorito «letto de l'erbe il corpo agile e bello; «ed il magico anello «che fiammeggiava più che foco vivo «mise, come in un dito, «ne 'l verde stel d'un giglio ancor captivo; «e sognò, me' che in letto di sciamito, «a 'l murmure de l'acque fuggitivo. «Or trarre ti convien da 'l gambo snello «il fin tesoro, là dov'io ti mando.» BALLATA X. Surse pronto il re musico; ed il lesto piè mosse in cerca de 'l beato giglio. E a l'antico giaciglio di Vigorina giunse trepidando. Vide lo stelo e vide anche l'anello; e lo stel ne 'l cerchietto pareva il dito fragile e mortale d'una ninfa cangiata in arboscello. Ma il sire, a tal conspetto, non osò porre la sua man regale su l'anello fatale; poichè, da quando l'erbe a Vigorina furon fiorito letto, il giglio erasi aperto a la divina luce, non più da 'l calice constretto; e Astíoco, in tòr la pietra alabandina, infranto avrebbe il giglio verginale che a 'l sol ridea, sì dolce palpitando.-- BALLATA XI. Questo narrò la mia favolatrice. Ed a me parve che un incantamento fluisse da quel lento eloquio, tutti i boschi affascinando. Com'ella tacque, il fremito de 'l suono mi tremolò sì viva-- mente a' precordi ch'io rimasi assorto nel mio diletto ripensando a 'l buono Astíoco.--E se a la riva d'oro il giglio d'Elai non anche è morto? E se ancora a diporto la fata Vigorina è pe' sentieri?-- ella chiese, chè udiva non lungi mormorii rochi e leggeri d'acque, correnti giù per la nativa ombra, e vedeva crescere i misteri entro i seni de 'l valico ritorto. Onde spronammo, innanzi trapassando. BALLATA XII. Era la fonte in una lene altura coronata d'opachi elci e di mirti. Rompevano li spirti de la fonte tra' sassi palpitando. Non mai dolce suonò bistonia lira come le fronde a 'l vento su la natività de le bell'acque; nè fu sì chiaro il talamo d'Argira e nè pur l'arïento u' con la ninfa, poi che a Giove piacque, Ermafrodito giacque. Partìasi l'onda in rìvoli tra' massi de 'l clivo, in più di cento rìvoli che brillavano, pe' sassi fini e politi, con varïamento di carbonchi topazi e crisoprassi. Attoniti mirammo; ed in noi nacque desìo di bere...--O fonte, io t'inghirlando! BALLATA XIII. Io t'inghirlando, o fonte ove quel giorno parvemi bere in coppa jacintea il sangue d'una dea, che a 'l cuore mi fluì letificando!-- Scendemmo il piano margine; e commise in sì dolce atto Isotta il fior de la sua bocca ad una vena e sì fresco e vermiglio e vivo rise quel fiore in tra la rotta onda e s'aperse, ch'io ritenni a pena un grido e in su la piena bocca più baci e più, cupido, impressi. Ella rideva... Oh lotta di baci che cadean sonanti e spessi e mescevansi a l'acque! Oh ne la grotta ampia e ninfale mormorii sommessi d'acque e le risa de la mia serèna! Bevemmo e ci baciammo, ivi indugiando. BALLATA XIV. Or quale io bevvi ignoto filtro, inconscio? Era ne la sua bocca, era ne l'acque la virtù cui soggiacque ogni mio senso, amor rilampeggiando? Non so. Ma come uscimmo da la chiostra in su' paschi feudali ove il bel fiume suoi tesori aduna, parvemi cavalcare ad una giostra, e che da que' fatali occhi mi sorridesse la fortuna e fusser ne la luna in urna d'adamante custodite le mie sorti regali. Onde, felici, a 'l Sol candido e mite e a l'ardor de' cavalli ed ai natali venti ci abbandonammo; e le due vite nostre mescemmo e rinnovammo in una vita più forte, che s'aprì raggiando. IV. SONETTO D'APRILE .... a 'l cuor giunge il freddo del serpente. MELUSINA. Disegno di GIUSEPPE CELLINI. [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_] Aprile, il giovinetto uccellatore, a cui nitido il fiore de le chiome pe' belli omeri cade, ne 'l cavo de la man, come un pastore, in su le prime aurore ha bevuto le gelide rugiade. Aprile, il giovinetto trovadore, su le canne sonore dice l'augurio a le nascenti biade: i solchi irrigui fuman ne 'l tepore, un non so che tremore le verdi cime de la messe invade. Ecco la Bella! Ecco Isotta la blonda! China, de la sua porta a 'l limitare, ella stringe il calzare a 'l piè che sanno i boschi. E il dì la inonda. Toccan la terra, a l'atto de 'l piegare, i suoi capelli, in copia d'or profonda. Oh, la faccia gioconda che a pena da quel dolce oro traspare! V. BALLATA DELLE DONNE SUL FIUME A torme a torme candidi paoni, lenti, silenti come neve in aria, discendono su l'agili ringhiere. ELIANA. Disegno di MARIO DE MARIA. [Illustrazione] I nitidi mercanti alessandrini, profumati di cìnnamo e d'issopo, bevean su la riviera di Canopo ne' calici de 'l loto i rosei vini. Noi lungo il fiume, ove sì dolci istanti indugiammo cercando per la via il grappolo tardivo, navighiamo a diletto, in compagnia di musici che il lido empion di canti. Tutto s'accende il lido fuggitivo a lo splendor vermiglio. Tu, ridendo, co 'l calice d'un giglio attingi le bell'acque scintillanti. La man tua lieve crea schietti rubini. Le gentildonne, che fan gaia corte a te con gran sollazzo, in su' minori legni, rapidamente seguon l'esempio e con i bianchi fiori attingon l'acque d'or, ridendo forte. Tutte, in un tempo, bevono a 'l lucente vespero, inebriate, quasi Bacco le linfe abbia cangiate in vin di Scìo, da' regni de la morte. Suonano a torno i lieti ribechini. Così tu vai, piacente Primavera, navigando ne 'l vespero, per l'almo fiume onde Amore sorse; e i gigli tratti dietro il paliscalmo vestono forme, ne la dubbia sera. Non calano da' rotti argini forse le ninfe a 'l Latamone? Questa, piena di donne e di canzone, non è l'isola bella di Citera? Non sei tu dunque iddia ne' tuoi domíni? Questa è l'isola bella: non la tiene però Venere. Isotta ha signoria, Isotta Biancamano, su la verde Brolangia solatìa ove reìne clementi e serene vissero a lungo, in tempo assai lontano, e amaron poetare. Qui non s'ode Bacchilide cantare, non Saffo, non Alceo di Mitilene. Ma s'odono i leuti fiorentini. O musici, toccate li strumenti con più dolcezza, poi che a' lauri in cima è la luna novella. Cantate, o gentildonne, a cui la rima fiorisce in amorosi allettamenti a sommo de la bocca picciolella. Sicchè di su l'altura udendo suoni e canti a la ventura, veggendo faci, dicano le genti: --Torna forse Brisenna a' suoi festini? VI. BALLATA E SESTINA DI COMMIATO .... su da la tenebra crescea per l'arti de la maga tessala, porgendo la man nivea. DIANA INERME. Disegno di GIUSEPPE CELLINI. [Illustrazione] BALLATA. Ora è muto il selvaggio paradiso già costumato a la tua signoria. Dov'è la voce onde l'anima mia e la selva tremavan d'improvviso? Pavidi, in tra la selva umida e fresca, correano a quella voce i cavriuoli. Splendean miti ed umani li occhi a l'ombra in guardarti; ed i figliuoli, alti e biondetti, sen venìano a l'esca de 'l cibo, come a 'l pan giovini cani. Forte ridevi tu quando a le mani i lor teneri denti ti mordevan con piani incitamenti. Tra la fronda eran queti li usignuoli ed i frassini intenti ascoltavan salire il dolce riso. SESTINA. Quando più ne' profondi orti le rose aulivano per l'aria de la sera e mesceasi a quel lor tepido fiato sapor di miele da' pomari d'oro, venne Isaotta un tempo a le mie braccia, candida e mite quale a maggio luna. Non sì dolce chinò li occhi la Luna su 'l suo vago sopito in tra le rose Endimïon, tendendo ambo le braccia, (splendeva il Latmo a la vermiglia sera, cui bagnano i ruscelli in vene d'oro: sol de' veltri s'udia l'ansante fiato) com'ella sovra me. Caldo il suo fiato io sentìa su 'l mio volto, ed a la luna vedea brillare la cesarie d'oro cui cingevano i miei sogni e le rose. Fulgida aurora a me parve la sera, ne 'l cerchio de le sue morbide braccia. Dolce cosa languir tra le sue braccia! Dolce, languendo, bevere il suo fiato! Voci correan d'amor per l'alta sera; e bramire s'udian cervi a la luna da' chiusi, e Agosto a l'ombra de le rose cantar soletto in su la tibia d'oro, e a quando a quando, come in vaso d'oro pioggia di perle, da le verdi braccia de li alberi che misti eran di rose le odorifere gomme ad ogni fiato d'aura cader su' fonti ove la luna piovea gl'incanti de l'estiva sera. O donna ch'anzi vespro a me fai sera, cui Laura è suora ne le rime d'oro, deh foss'io, come il vago de la Luna, addormentato, e alfin tra le tue braccia mi risvegliassi e bevere il tuo fiato potessi ancora, in letto alto di rose! Tu la Bella vedrai diman da sera e a lei ricingerai le chiome d'oro, canzon, nata di notte senza luna. QUI FINISCE IL LIBRO D'ISAOTTA. SONETTI DELLE FATE E su tal corda l'anima sospira. GRASINDA. Disegno di GIUSEPPE CELLINI. [Illustrazione] A GIUSEPPE CELLINI Lino ai boschi de l'isola di Creta udía le ninfe correre tra i rami e Teocrito udía lunge i richiami di Lyda a riva e i canti di Dameta. Tu ne li orti d'Italia odi, o poeta, rider le fate come in lor reami. Ti chiede Urganda:--O mio sire, tu m'ami?-- e ti trae ne la sua reggia segreta. Agile, ardente quale fiamma, Urganda t'intesse a torno con rapidi voli una danza di perfida virtù. Ma non anche tu dormi in Broceglianda tra i mirti intonsi, a' lai de' rosignoli, poi ch'io suono il fatal corno d'Artù. ELIANA Dorme a notte il palagio d'Elïana, simile a un dòmo gotico d'argento. Or, ne la luce senza mutamento, pare un fragile incanto di Morgana. Armoniosa come uno stromento apresi a torno l'alta ombra silvana; ed a piè de la scala una fontana singhiozza in ritmo ne 'l silenzio intento. A torme a torme candidi paoni, lenti, silenti come neve in aria, discendono su l'agili ringhiere. Sono le spose morte di piacere, che tentan la dimora solitaria. E il bosco è pieno d'implorazïoni. MIRINDA Mirinda e il fido, ne l'occulta stanza, adagiati su' troni orientali, dilettansi a gittar lucidi strali sotto i piè d'un fanciul nudo che danza. Un grande e bianco augello, a passi eguali, carico d'otri, sparge in abondanza acque d'ambra d'insolita fragranza su i marmi che dan lume ai penetrali. --Vedrem fiori, com'ampie urne, fiorire; berremo un vin ne' puri alvi de' frutti; e guarderemo entro smeraldi il sole.-- Dice Mirinda. E il tremulo nitrire de' liocorni e il murmure de' flutti si mescono a le sue lente parole. MELUSINA Guarda, assisa, la vaga Melusina, tenendo il capo tra le ceree mani, la Luna in arco da' boschi lontani salir vermiglia il ciel di Palestina. Da l'alto de la torre saracina, ella sogna il destin de' Lusignani; e innanzi a 'l tristo rosseggiar de' piani, sente de 'l suo finir l'ora vicina. Già già, viscida e lunga, ella le braccia vede coprirsi di pallida squama, le braccia che fiorían sì dolcemente. Scintilla inrigidita la sua faccia e bilingue la sua bocca in van chiama poi che a 'l cuor giunge il freddo de 'l serpente. GRASINDA Dorme Grasinda in mezzo a' suoi tesori, ove l'incanto un sonno alto le impose. E l'intima dolcezza de le cose ver lei migra in assai vaghi romori. Fremono a torno li alberi canori, da la grande armonía piovendo rose quasi che per virtù misteriose si rispandano i suoni in rari fiori. Lento il corpo ne 'l sonno a 'l ritmo cede: compongonsi le membra agili in arco e prendon forma di lunata lira. Si tendono le chiome argute al piede facendo strano a' due pollici incarco; e su tal corda l'anima sospira. MORGANA Or tremule, su i mari e su le arene, crescon ne la lunare alba le imagi: materïati d'oro alti palagi e torri ingenti assai più che Pirene. Salgono scale in luminose ambagi con inteste di fior lunghe catene. Come navi in balía de le sirene, ondeggiano le pendule compagi; poi che Morgana, in dolce atto giacente ne 'l letto de la nube solitaria, quasi ebra di quel suo divin lavoro, ama, seguendo un carme ne la mente, cullare de le man languide a l'aria la città da le mille scale d'oro. ORIANA Orïana tenea l'incantamento. Giacean, ebri d'assai dolci veleni, ne l'antro i prodi; e larga di sereni sogni la Luna era a l'umano armento. Pascean su 'l limitare i palafreni meravigliosi, li émuli de 'l vento: battean la lunga coda in moto lento a la coscia, e nitrían per li alti fieni. Giunse Amadigi a l'antro solitario, tutto de l'armi splendide vestito; e tre volte suonò, ne 'l muto orrore. Quindi, rompendo il magico velario che l'edera tessea, con quell'ardito gesto egli prese ad Orïana il cuore. ORIANA INFEDELE Quando Amadigi con l'eterna amante giunse a l'isola Ferma (auree ne 'l giorno lucean le mura ed i verzieri in torno aulívano), le porte d'adamante s'apriron mute e gravi, a 'l suon de 'l corno; ma, lasciando Orïana a Floridante, il Donzello del mare, almo e raggiante, penetrò solo ne 'l divin soggiorno. Disse a la donna il bel sir di Castiglia: --Ahi che troppo di te m'arse il desio! Or tu m'odi!--E la trasse ai labirinti. Mago ne l'aria odore di jacinti vinse Orïana de 'l soave oblio. Ridea Lurchetto in sua faccia vermiglia. SONETTI D'EBE .... Morgana, in dolce atto giacente ne 'l letto de la nube solitaria.... MORGANA. Disegno di VINCENZO CABIANCA. [Illustrazione] IL CAVALIERE DELLA MORTE In un'antica stampa de 'l Durero va contro maghi e draghi a la battaglia tutto chiuso ne l'arme un Cavaliero su 'l gran cavallo coperto di scaglia: a 'l fianco l'accompagna da scudiero la Morte senza piastra e senza maglia, dietro gli segue da valletto il nero Peccato; e fosca innanzi è la boscaglia. Io così, nuovamente, a la conquista de l'Arte e de l'Amor, salgo la vita; ma il mio bieco scudier non mi rattrista, ma il valletto ridendo alto m'incita ed incanto non v'ha che mi resista, poi che già in groppa, o Bella, io t'ho rapita. IL FIUME I. Quando lungo il selvaggio fiume la mia signora navigava, a l'aurora, con pomposo equipaggio, si faceva canora la riva a 'l suo passaggio e li uccelli di maggio volavan su la prora. Scendevano i tappeti, di color rosso e giallo, ne l'acqua di turchese. E i galanti roseti salutavano il gallo dipinto su 'l palvese. II. Per virtù de' miei canti emergevan da l'onda amorosa e feconda mille fiori odoranti; e la signora bionda da' grandi occhi stellanti arrideva alli incanti, con voluttà profonda. Prendeano singolare forma ne 'l dubbio lume alti i pioppi d'argento e parean s'abbracciare giù ne 'l letto de 'l fiume, co 'l favore de 'l vento. III. Sorgean quindi, nutrite da 'l padre fiume, vive selve lungo le rive e s'aprian ne 'l ciel mite. Da le sedi native le ninfe sbigottite correvano inseguite, candide fuggitive. E pe' i recessi impervi de i divini soggiorni, ne 'l silenzio divino, bramivan come cervi li egìpani, bicorni iddii da 'l piè caprino. IV. La bianca dama il ciglio con la man, dolcemente, schermìa da la nascente forza de 'l sol vermiglio e l'altra man pendente, simile a un molle giglio, tenea fuor de 'l naviglio entro l'acqua corrente. E nulla era più bello e leggiadro de l'atto ch'ella facea, tra i raggi, cogliendo un ramoscello o un gran fiore scarlatto da li argini selvaggi. V. Quando a terra posava ella il suo piè ducale, la selva fluviale tutta in fiore cantava. Saliva il nuziale inno a l'ospite flava; e a 'l tuono era la cava selva una catedrale. Io, piegando i ginocchi, dicea:--Bionda signora, un servo, ecco, si prostra. Ella chinava li occhi, bella come l'aurora, e dicea:--Sono vostra. IL CANTO Un giorno ella cantò, su la galea, ad alleggiar la mia grave fatica. E il mare a noi, spirante ancor l'antica divinità, propizio sorridea. Al riso innumerevole, l'aprica riva non lungi in breve arco splendea, polita e bianca, qual ne l'Odissea la riva de la dolce Näusìca. Or così, mentre io ripensava Ulisse, guardando pe 'l seren grembo de l'acque palpitar l'ombra de l'amata chioma, parvemi, Omero, il dáttilo fiorisse in sommo de 'l gentil labbro, che nacque a favellar ne 'l tuo puro idïoma. SIMILITUDINE Pascono in ozio su le mura erbose i cavalli asïatici d'Erode, mirabili cavalli; e tra le rose il fluttuare de le lunghe code mollemente si perde. Accidiose dormon le palme a torno in su le prode, e or sì or no ne 'l sonno de le cose il vivente de 'l mar fremito s'ode. Ma se Jacìm con rauco grido appare, balza correndo a lui lo stuol disperso, a lui guardando da li occhi inquieti. Amo così, mia bella, io figurare i desideri miei per te ne 'l verso, cavalli pascolati in tra i roseti. SOGNO D'UNA NOTTE DI PRIMAVERA Tu discendi con pompa orientale giù pe' i lucidi gradi; ed una schiera di femmine ti segue, per la nera scala raggiando la beltà nivale. Verso la terra, in atto di preghiera, tu protendi le braccia; ed a 'l segnale da le bocche mulièbri agile sale il cantico a la nuova primavera. Si muovono con lento ondeggiamento le teste a 'l ritmo, e su per l'aria aperta in lontananza il pio cantico spira. Odesi, poi che il gran clamore è spento, la lunga scala d'ebano, coperta di femmine, vibrar come una lira. L'ADORAZIONE Pallidi ne li azzurri jacintèi stan li oleandri lungo il mar giocondo, quali Tádema, il dolce pittor biondo, già vide ne li idilli di Pompei. Biancheggiano in quadrùplo ordine a tondo su le insigni colonne i propilei; e da l'ombra felice ove tu sei, Ebe, ne l'aria sale odor profondo. L'aroma de 'l divin fiore, che intatto ne 'l tuo misterioso essere chiudi, per una lenta ebrïetà m'attira. De le trepide braccia, umile in atto, io ricingo i tuoi piè candidi e nudi. Suona l'anima mia, come una lira. RURALI Siede una donna, bianca e taciturna, tenendo l'arpa da le molte chiavi, su 'l solio, ne la sacra ora notturna. VAS SPIRITUALE. Disegno di G. A. SARTORIO. [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_] VIA SACRA Io te porto su 'l plaustro alto, Maraja, istorïato d'angeli e di santi, su 'l plaustro di trionfo a quattro paja di bovi da le corna erte e lunanti. Ondeggia in ritmo ai passi ogni giogaja bianca splendendo; il can fulvo davanti gioiosamente a i gravi passi abbaja; e a 'l salïente amor s'alzano i canti. Oh per il colle olivi in rare file sopiti, in un pallor dubbio di argento su 'l dolce azzurro pomeridiano! Oh tra li olivi il coro feminile svolgentesi ne l'aria senza vento, come un ampio cantar gregoriano! PER LA MESSE I. Quando il tuo corpo d'Ebe, alto, ridente ancor d'infanzia e già schiuso nel fiore de la prima bellezza adolescente, sorse avanti improvviso (era l'odore pe' i ricolti sereno), la vivente ubertà de' capelli a 'l fulvo ardore de le spighe così naturalmente si giunse e così vergine il candore del sol ne l'innocenza del mattino arrise, ch'io tremai. Non forse tu, risorta da la terra genitrice, eri un'iddia de 'l buon tempo latino? E non venivi ai popoli datrice d'una nuova più forte gioventù? II. Sia con l'uomo la pace e la giustizia. Tace, inerte nel sonno, la pianura sazia di luce e pingue di dovizia oppressa da l'immensa genitura. Argentëi de' venti a la blandizia li olivi custodiscon la matura copia. Fáusto il ciel brilla; e un coro inizia i gravi offici de l'agricultura. E si svolge così, ne la profonda serenità de la tua luna estiva, l'inno del pane, o madre terra esperia; come quando per Cerere feconda il mite canto arvalico saliva, regnando Numa con la ninfa Egeria. III. Or falcian diecimila braccia umane la messe del frumento. Come antiche are sacrate a deità pagane, su i rasi campi sorgono le biche; e lietamente l'uomo a le fatiche piega la forza de le membra sane, però che ride in cima de le spiche a l'uom l'augurio de 'l futuro pane. Guarda da l'alto su la rusticale opera il Sole, dio benigno e grande a cui sacro è ne' solchi ogni covone. E ne la pia letizia cereale per me la tua geòrgica si spande, o Publïo Vergilïo Marone. LA MADRE Vigile, all'alba, sta su 'l limitare della casa la Madre ottagenaria, da poi che alla fatica frumentaria i molti figli attendono. E cantare ode la Madre i figli alto nell'aria concordemente l'inno salutare che prega il Sole di beneficare la santità dell'opra alimentaria. Alla dolcezza del compatimento materno in cuor de' figli la nativa pazienza risorge. Or, tra i sudori e la sete e la polvere ed il vento, la pazienza è il lene olio d'oliva che conforta le membra ai lottatori. I SEMINATORI Van per il campo i validi garzoni guidando i buoi da la pacata faccia; e, dietro quelli, fumiga la traccia del ferro aperta alle seminagioni. Poi, con un largo gesto delle braccia, spargon li adulti la semenza; e i buoni vecchi, levando al ciel le orazïoni, pensan frutti opulenti, se a Dio piaccia. Quasi una pia riconoscenza umana oggi onora la terra. Nel modesto lume del sole, al vespero, il nivale tempio de' monti inalzasi: una piana canzon levano li uomini, e nel gesto hanno una maestà sacerdotale. IL POMO Pendono i frutti, maturati a 'l roseo calor de 'l sole, e tremano: intatti ancora, poi che ad Ebe l'intima dolcezza lor consacrano. Vermigli sono e de 'l lor peso aggravano i rami e de 'l lor numero; e tale effluvio spargono aulentissimo onde mi ride l'anima tutta e ne 'l capo assai giocondi nasconmi pensieri e vaghe imagini di amore sì che in vero tutta ridemi, come ne 'l vino, l'anima. Sopraggiunge ne li orti Ebe, con subita gioia; e ridendo gridami: --O tu, o tu che siedi sotto l'albero de 'l pomo, un frutto coglimi!-- --Non io te 'l coglierò, ma te medesima leverò, fino a giugnere il ramo, su le mie braccia, o dolcissima Ebe.--Ed ella:--Or tu lévami su le tue braccia.--Ed io la levo, a giugnere il buon frutto che penzola ed alletta, sì come ne la favola antica del re Tantalo. Ergesi il corpo d'Ebe, quale un'anfora, da la mia stretta; e l'avide mani ella tende a 'l ramo, in attitudine bellissima; ed ai cúbiti nudati le sorridono due rosei cavi, due nidi rosei, ove, meglio che a 'l frutto, io vorrei mordere, me' che a l'inarrivabile frutto.--Ancora!--ella grida--Ancora! Un ultimo sforzo, ed ha vinto Tantalo!-- Ond'io più l'alzo; e più ne 'l desiderio ardo, sentendo il palpito de le sue membra. Grida ella:--Vittoria!-- E, d'un salto, si libera da le mie braccia e fugge, abbandonandomi. --Vittoria!--li orti echeggiano. Poi ella torna, perocchè ne l'animo sia pïetosa. Offrendomi la cara bocca, ancora tutta rorida de 'l succo, d'onde l'alito esce fragrante come su da 'l calice d'un fiore, dice:--Baciami!-- Ed a lungo io la bacio; e tutti fremono, parmi, d'invidia li alberi. LA VENDEMMIA Prema co 'l pié gagliardo un giovinetto, entro il tino di quercia, le capaci sacca ricolme d'uva succulenta; ed all'urto gli scorra il mosto in rivi. Poggiato ad una verde asta silvana, ei moderi co 'l suo canto l'alterno salto de' piedi; e sia composto, quale è Dïonigi nel buon marmo acheo. Gli ridano le membra, temperate di grazia e di vigore, agili in ritmo. Appariscano a fior del suo torace adolescente i fieri archi dell'ossa, come a studio segnati da preclaro artefice; e le braccia al busto inserte nitidamente sieno e nerborose come d'atleta al disco esercitato; e le gambe in lor moti abbian la maschia venustà della forma e la lunghezza quasi fluente, che alli Antichi nostri in tele e in marmi assai furono care. Vengan d'in torno le fanciulle al tino da le prossime vigne, con canestri di grappoli in su 'l capo; e faccian coro, quali un dì le canéfore in Atene. Fluiscano, di sotto alle calcagna imporporate del vendemmiatore, larghi rivi di mosto; e liberale sia di gioia a l'umana opera il Sole. LA NEVE Scende la neve su la Terra madre, placidamente. E lei bianca riceve la Terra ne' suoi giusti ozi, da poi che all'uom copia di frutti ha partorito. Guarda il bifolco splendere a' sudati campi la neve, mentre siede al desco; e a lui dal cuor la speme e dal bicchiere sorride la primizïa del vino. --Scendi con pace, o neve; e le radici difendi e i germi, che daranno ancora erba molta alli armenti, all'uomo il pane. Scendi con pace; sì che al novel tempo da te nudriti, lungo il pian ridesto, corran qual greggia obedïenti i fiumi. BOOZ ADDORMENTATO Ella cavalca, lungo il reo padule; e dietro; a paro, su due bianche mule seguon due vecchi, gravi e taciturni. L'ALUNNA. Disegno di MARIO DE MARIA. [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_] DA VICTOR HUGO. I. Ora Booz giaceva, stanco le braccia e il petto, però che faticato avea molto su l'aja. Ed or giaceva alfine Booz, presso le staia ricolme di fromento, ne 'l consueto letto. Possedea grandi il vecchio campi d'orzo e di grano al sole; e prosperavano i suoi campi in dovizia. Se ben dovizioso, era mite ed umano il vecchio; e incline avea l'animo a la giustizia. Quando a sera tornavano da le agresti fatiche carichi di manipoli i mietitori a torme, ei, vedendo una femmina china cercar ne l'orme, dicea:--Lasciate, o uomini probi, cader le spiche. Così, candidamente, lungi da oblique strade, di probità vestito e di lino, incedeva. Parean publiche fonti le sue sacca di biade, però che vi attingeano quanti la fame urgeva. D'argento era la barba, come rivo d'aprile. Le femmine guardavano, più che l'ésili e blande forme di un uomo giovine, quella forma senile; però che l'uomo giovine bello è, ma il vecchio è grande. Il vecchio, risagliente a le origini prime, entra nelli anni eterni, esce dai dì malcerti. Al giovine una fiamma brilla ne li occhi aperti, ma ne li occhi de 'l vecchio è una luce sublime. II. Ora Booz dormiva ne la notte tra i suoi. Presso le mole simili ne l'ombra a monumenti, i mietitori stavano distesi, come armenti stanchi. E questo era in tempi lontanissimi a noi. Le tribù d'Israello avean per capo un saggio. La terra, esercitata da una gente errabonda che ignote orme giganti scoprìa ne 'l suo passaggio, tutta era molle ed umida pe 'l diluvio e feconda. III. Come Jacob e Judith, con le pálpebre chiuse Booz giacea ne 'l grave sonno patriarcale. Or la porta de 'l cielo su 'l suo capo si schiuse e ne discese un sogno. Ed il sogno fu tale: Booz vide una quercia fuor de 'l suo ventre in piena vita sorgere e lenta giugner l'ultimo lume. Una stirpe di umani vi s'ergea, qual catena: un re cantava a 'l piede, moriva in alto un nume. E mormorava Booz, sotto le verdi foglie: --Come può mai, Signore, questo dunque accadere? Su 'l mio capo fiorirono ottanta primavere: ed io non ho figliuoli, ed io non ho più moglie. Da gran tempo colei che meco ebbi giacente ha lasciato il mio letto pe 'l tuo letto, Signore; e noi siam l'una all'altro ancor misti d'amore, ella pur semiviva ed io quasi morente. Una progenie nuova da me sorgere a gloria? Or come posso io dunque aver prole, o Signore? La prima giovinezza ha trionfanti aurore: esce il dì da la notte come da una vittoria; ma la vecchiezza è tremula, quale ai venti alberello. Io son vedovo, solo, ne 'l vespero, su 'l monte; come un bove assetato piega all'acqua la fronte, io l'anima reclino, mio Dio, verso l'avello.-- Così Booz parlava, ne la misteriosa notte, e a Dio volgea l'occhio inerte; però che l'alto cedro non sente a 'l suo piede una rosa e non sentiva Booz una donna a 'l suo piè. IV. Mentre Booz dormiva, Ruth, una moabita, s'era distesa ai piedi de 'l vecchio, nuda il seno, sperando un qualche ignoto raggio o ignoto baleno se venìa co 'l risveglio la luce de la vita. Ora Booz inconscio dormiva sotto i cieli; Ruth inconscia attendea, con pia serenità. Una fresca fragranza salìa da li asfodeli, e i soffi de la notte languìan su Galgalà. Era l'ombra solenne, augusta e nuziale. Volavan forse, innanzi a li occhi stupefatti de li umani, erranti angeli; però che in alto a tratti apparivano azzurri lembi simili ad ale. Il largo respirare di Booz dormïente mesceasi de' ruscelli a 'l romor roco e grave. Era nel tempo quando la natura è soave: i colli avevano gigli su la cima fiorente. Ruth pensava; dormiva Booz. L'erbe alte e nere ondeggiavano; in pace respiravan li armenti; una immensa dolcezza scendea da i firmamenti. Era l'ora in cui placidi vanno i leoni a bere. Ogni cosa taceva in Ur e in Jerimàde. Li astri riscintillavano su pe 'l cielo profondo; il mite arco lunare, tra il giardino giocondo de' fiori de la luce, risplendea su le biade; e Ruth, immota, li occhi socchiudendo tra i veli, chiedea:--Qual mietitore dio de l'eterna estate, poi che le sue stellanti ariste ebbe tagliate, gittò la falce d'oro ne 'l gran campo dei cieli? IDILLII .... i cervi, a cui ne li occhi il fascino sta de le solitudini natie, sazî de 'l pascolo, su 'l limite scendono in torme a bevere. DIANA INERME. Disegno di ALESSANDRO MORANI. [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_] L'ANDRÒGINE Ermafrodito, il semidio procace, sta ne la fonte immerso come in un letto d'oro; ed il ben terso corpo dona a l'abbraccio di Salmace. Tremano i fiori su la calda linfa i calici schiudendo, mentre si compie l'imeneo stupendo de 'l figliuol di Mercurio con la ninfa. A la marina, a 'l bosco, a 'l piano, a 'l monte una immensa letizia muove da 'l padre Sole: arde propizia la voluttà su l'amorosa fonte. E sal con deità di giovinezza ne 'l favore di Giove il gentil mostro che le forme nuove ha temprate di forza e di bellezza. L'ESPERIMENTO Ne la stanza regale, ampia e rotonda, ove brillano scritti a le pareti i versetti de' saggi e de' poeti in bei carbonchi di Palesimonda, il Re si chiude in suoi pensier segreti: la barba il petto eröico gl'inonda. Lo sguardo ei tien su 'l cofanetto assiro che in dieci lune l'orafo compose. Giunge da li orti il soffio de le rose, quasi con metro egual, come un respiro. Il veltro de le cacce avventurose dorme, composto il lungo dorso in giro. Sta ritto in piè con tutta la figura l'unico Erede, figlio di Ieéna. Ei tace. Una lanugin fulva a pena gli ombra la faccia imperiosa e dura. Bella è la bocca; e l'occhio gli balena di desiderj enormi d'avventura. Troppo il padre ha regnato, ei pensa. E, piano, scegliendo ne la cintola uno stile cui di recente un suo velen sottile ha fatto azzurro, avanza; e con la mano, già invitta nel frenar l'impeto ostile, punge le nari a 'l veltro persiano. «HYLA! HYLA!» De la placida selva entro li abissi, ove s'odon li egìpani bramire, Ila di Misia, il giovinetto sire a cui cingon la fronte i bei narcissi, prono su la cerulëa sorgente tutte le membra, in atto di ristoro, v'immerge una sua grande anfora d'oro con tardo gesto, dilettosamente. Piegano a 'l peso de 'l metallo cavo i calici de 'l loto; e treman l'acque poi che l'efébo, ignudo come nacque, in chinarsi v'intinge il suo crin flavo. Ma da la man ch'è presa di languore sfugge l'anfora e lenta si sprofonda: ne 'l glauco vel la sua forma rotonda appare qual meraviglioso fiore. L'Asïatico già tende le braccia trepidamente verso l'imo ignoto: attonito, fra i calici de 'l loto ei vede arguta ridere una faccia. Insidiose, in lunghi allacciamenti, ondeggiano le najadi lascive: balenano di riso ne le vive bocche le chiostre nivëe dei denti. Sogguardan elle con languida brama Ila, si torcon elle in fra le piante. --O figliuolo del re Teodamante, non così dolce mai Ercole t'ama!-- --O tu, de li Argonäuti diletto, a cui cingon la fronte i bei narcissi!-- Discopron elle in tra' capei prolissi, ridendo a sommo, il ventre bianco e il petto. Or, prono a la soave riva, il lene Ila sente vanir sua conoscenza, quasi di bocca la divina essenza d'un frutto gli si strugga per le vene. E le najadi in lunga teorìa sorgon, gli avvincon de le braccia il collo. --Ila chiomato, oh simile ad Apollo!-- Ei beve, ei beve; e il caro Ercole oblìa. VAS SPIRITUALE Siede una donna, bianca e taciturna, tenendo l'arpa da le molte chiavi, su 'l solio, ne la sacra ora notturna. Angeli immensi reggon li architravi; e fra simboli oscuri, in su gl'incisi cuoj, regine con mitra ésili e gravi stanno cogliendo rossi fiordalisi. Raggian come pianeti i bronzei dischi su le porte di cedro; e ne li adorni velari i liofanti e i liocorni mesconsi a le giraffe e ai basilischi. Ella, rigida e pura entro la stola, pensa una verità teologale. Chiari i segni de 'l ciel zodiacale a lei giran la chioma di viola. Li smeraldi e le piume de li uccelli brillano su 'l suo largo vestimento onde le mani cariche di anelli si riposano lungo l'istrumento. E a piè de 'l solio il vescovo latino move in ritmo un turibolo d'argento ov'arde con la mirra il belzuino. L'ALUNNA Sotto i propizïati albor notturni ella cavalca, lungo il reo padule; e dietro, a paro, su due bianche mule seguon due vecchi, gravi e taciturni. In fondo all'acque cupe di tristizia si muovono talor vaghe figure. Ella rafforza contro le paure il cavallo, con placida blandizia. Il suo corpo, che intriso fu lung'ora nel lago d'olio all'isola Junonia, dolce come le pelli d'Issedonia a 'l tatto e fresco assai più che l'Aurora, or chiuso in armatura di gioielli molto riluce. È bionda come il miele; e, come li occhi de la fata Urgele, li occhi suoi brillan verdi in tra' capelli. Sale dubbio vapor su da li stagni, che in alto a l'aria forme truci assume; a fior de l'acque bollono le schiume; or sì or no da 'l limo escono lagni. Ma balzan, di desir tutte vermiglie, le rose in tra le zampe a 'l palafreno e baciano a la bella dama il seno o la mano che tien salda le briglie. E la Luna talor, nuda le spalle, a l'aereo veron d'oro s'affaccia e graziosa a lei mostra la traccia segnando cerchi magici su 'l calle. Ella cavalca. E, poi ch'è giunta a 'l loco, lascia d'un salto il ben gemmato arcione. A lei li arnesi de l'incantagione porgono i vecchi. Ell'è trepida un poco. Or prima, i quattro venti a richiamare, battendo ad arte con le lunghe dita sovra una spera concava e polita, fa la rossa mandrágora cantare. Quindi, girando in ritmo agile a danza tre volte su 'l sinistro piè leggiere, coglie al fine, con risa di piacere, l'unico fior de la dimenticanza, che, misto a 'l succo de' giusquìami bianchi, rende a le donne la beltà nativa e alli uomini il già freddo cuor ravviva e cinge di valore inclito i fianchi. DIANA INERME Quando a 'l mattino il Sol gode tra li alberi con aurea bocca attingere il fior de l'acque, ridono i miracoli de la luce ne 'l mobile specchio. Ed i cervi, a cui ne li occhi il fascino sta de le solitudini natie, sazi de 'l pascolo, su 'l limite scendono in torme a bevere. Or le cervine imagini e le arboree tremano a 'l fondo in pendula corona: s'ode ne la pace il crépito de le lingue che lambono. E, poi che lievi l'aure sopra giungono, i mammiferi timidi ergono il muso ne l'inquietudine, grondanti da le fauci. Passano lievi per la selva l'aure. Sospiran come cetere li alberi a torno, e ne 'l divin silenzio più gran dolcezza piovono. Oh de le antiche iddie presente spirito! Non quivi un giorno, in libero d'erbe e di fior profondo letto, giacquero donne possenti e amarono? Biancheggia entro le chete acque una statua, sommersa; le marmoree forme de 'l petto resupino, simili a chiusi fiori, emergono. È Diana: così dorme da secoli. Ma pur, quando a le tiepide lunazïoni estive i boschi odorano, si sveglia ella; ed il lucido corpo piegando in arco alzasi. Tremano l'acque raggiate; e, attoniti in conspetto di tal forma, su' margini non han li alberi fremito. Alzasi lenta; e cresce come nuvola, come su da la tenebra crescea per l'arti de la maga tessala, porgendo la man nivea. Da quel divino gesto attratti, vengono i cervi a lei con docile bramire, ed una siepe alta compongono. Gioisce a lo spettacolo di tanta preda il cuore de la vergine cacciatrice.--Oh lietissime stragi sonanti lungo i fiumi patrii!-- ripensa ella; e sommergesi. INTERMEZZO MELICO TITANIA: _Music, ho! music; such as charmeth sleep._ A MIDSUMMER-NIGHT'S DREAM AC. II. SC. II. Ne la man con gesto lieve da i virgulti accoglie l'onda. ROMANZA. Disegno di ALESSANDRO MORANI. [Illustrazione] ROMANZA Quale un dio lieto che gode in sua via sparger viole e salire ode la lode da la sua terrena prole, su la selva alta, che tace, dolcemente guarda il Sole. Roco il vento, ne la pace, mette sue rare parole. Stanno li alberi aspettando, con monili di rugiade. Sopra l'erbe a quando a quando una gemmea stilla cade. Hanno li alberi stupore de la forza che li invade; ma non anche vive un fiore su le braccia lunghe e rade. Pianamente viene l'Ora. Ella, come l'Ebe, è bionda; e de' baci de l'Aurora ella ancora è rubiconda. Ne la man con gesto lieve da i virgulti accoglie l'onda. Guarda e ride. Quindi beve, con felicità profonda. E la selva a poco a poco cede al fascino de 'l Sole. Ne la pace, il vento roco mette sue dolci parole. ROMANZA Ondeggiano i letti di rose ne li orti specchiati da 'l mare. In coro le spose con lento cantare ne 'l talamo d'oro sopiscono il sir. Da l'alto scintillan profonde le stelle su 'l capo immortale; ne 'l vento si effonde quel cantico e sale pe 'l gran firmamento che incurvasi a udir. Ignudo, le nobili forme consparso d'un olio d'aroma, l'amato s'addorme: la sua dolce chioma par tutta di neri giacinti fiorir. Discende da' cieli stellanti un fiume soave d'oblio. Le spose, pieganti su 'l bel semidio, ne bevon con lungo piacere il respir. ROMANZA Sotto l'acqua diffuse verdeggiano le piante; e in rigido adamante paion constrette e chiuse. Le coppe ampie de 'l loto splendono ivi, non tocche: su 'l loro stelo immoto paiono aperte bocche. Ancora il vaso d'oro che a l'acqua Ila protese, la vasta urna cretese da 'l bel fianco sonoro, fa co 'l suo grave pondo le foglie ancor piegare. Ma non s'odono a 'l fondo le najadi cantare. Le najadi procaci, che il giovinetto sire ad Ercole rapire osarono co' baci, giacciono a 'l fondo estinte da gran tempo ne 'l gelo; e le lor membra avvinte che splendean senza velo, quelle membra ove i lievi fiori de 'l sangue allora uscían brillando fuora come rose tra nevi, e li occhi ove saette avea certe il disío, e le bocche perfette ove più d'un bel dio trapassando per Colco piacquesi a lungo bere, e le chiome leggere che segnavan d'un solco aureo l'acque ne 'l nuoto involgendo e portando i calici de 'l loto con un murmure blando, or tutto è inerte e informe ne l'ime sedi algenti. In biechi atteggiamenti di morte, il coro dorme. Dorme per sempre il coro de le ninfe sommerse; ma brilla il vaso d'oro ch'Ila ne 'l fonte immerse. ROMANZA Lungo il bel fiume, taciti muovono i cigni a schiera. Nobili e puri, splendono quali forme di luce. Un desío, ne la torbida notte di primavera, li aduna; e li conduce a lidi più lontani. Desío d'amori umani forse li accende ancora. A 'l lor remeggio s'aprono l'acque in raggianti anelli, e fan soave crepito come innanzi a una prora; cui rispondon con lento murmure li arboscelli, cui talvolta rispondono ne 'l gran silenzio intento con iterati suoni, come d'un riso, li echi. Ai lidi i cigni muovono, dove in profondi spechi donne misteriose da gran tempo prigioni vivono, inconsce d'ogni diletto de l'amore. Come Leda Tindaride a 'l dio Giove soppose il bellissimo fiore di sue membra (e ne' sogni de' poeti, miracolo di gioia, Elena sorse), così le occulte najadi, ch'entro l'adamantino gelo de l'acque il Sole non mai baciò nè scorse, offriranno il lor vergine seno. Ed un'alma prole nascerà da' connubii, poi che il cigno è divino. ROMANZA Prono, su 'l mar natale cui nasconde la duna, ride il sole autunnale, dolce come la luna. S'ode il mare pe 'l lido gemere, lento e grave. S'ode talora il grido fievole d'una nave che faticosa in vano lotta co 'l vento avverso, o il richiamo lontano d'un uccello disperso, o l'improvviso tuono d'un'onda più gagliarda. Ride il sole, già prono, e dolcemente guarda. ROMANZA Il porto ampio s'addorme, stanco d'uman lavoro: chiude un molle tesoro entro il suo seno enorme. Par che ne l'aria salga un suo possente fiato: è caldo e profumato come di frutti e d'alga. Arde qualche fanale, raro tra la nebbietta: il chiaror torbo getta lunghe e péndule scale. Ad ora ad or si leva un flutto, e su le prore fa trepido romore qual d'un gregge che beva. Come crescono i vènti de la terra, più gravi li odori e più soavi e più sottili e ardenti salgon da' vasti legni carchi di spezie rare. E ne l'alba lunare a noi s'aprono i regni meravigliosi, i liti cari a 'l Sole, ove amando vivono e poetando uomini forti e miti. Da 'l soffio a l'aria effusi per lunghe onde i profumi, come celesti fiumi in un solo confusi, ondeggian su la bruna congerie de le antenne. Ed ecco, ne 'l solenne silenzio de la luna, alzasi un lento coro da quella selva informe. Il porto ampio s'addorme, stanco d'uman lavoro. ROMANZA Ne la coppa elegante ove il sole ha fulgori tremuli e gai colori come in un diamante, non anche dà un sospiro il giglio morituro. Piega, mistico e puro, in suo dolce martíro. Cade, su l'acqua accolta ne la carcere breve, mite come la neve qualche foglia disciolta; e li stami che ardenti quali raggi da un serto rompeano da l'aperto seno a tentare i vènti, i vivi agili stami cui d'un volo sonoro cingean gl'insetti d'oro laboriosi a sciami, entro il calice infranto paiono irrigiditi verso Dio, come i diti lunghi e scarni d'un Santo. Un odore assai fioco, odor quasi d'incenso che per un tempio immenso vanisca a poco a poco, da 'l giglio umile sale divotamente a 'l cielo. Trema il languido stelo. _O Vas spirituale!_ ROMANZA Ne le sue nubi avvolta la Luna si riposa, come in profondo letto. Ridendo, a volta a volta, sorge come una sposa ignuda a mezzo il petto. Ancor su l'acqua splende trepidamente in arco il solco de 'l naviglio; e lungi si protende la fresca ombra de 'l parco entro il chiaror vermiglio. Ne l'aria de la notte il fior d'arancio effonde odor più dolce e pieno, misto a 'l fior d'oleandro. Su la scala, ove rotte hanno gemiti l'onde, Rosalinda vien meno tra le braccia a Silvandro. RONDÒ PASTORALE A 'l gran Maggio i vènti aulenti per le selve hanno lamenti vaghi e assai lontani cori; e, recando ampi tesori d'acque, suonan le correnti. Oh bei colli, sorridenti ne' rosati albeggiamenti, d'onde salgon mille odori a' l gran Maggio! Siede in mezzo i bianchi armenti Gallo e trae novi concenti da' l suo flauto a sette fori; e i richiami ode Licori da le siepi rifiorenti a' l gran Maggio. Su la scala, ove rotte hanno gemiti l'onde, Rosalinda vien meno tra le braccia a Silvandro. ROMANZA. Disegno di VINCENZO CABIANCA. [Illustrazione] RONDÒ Come sorga la luna da le cime selvose e grave su le cose sia l'oblio de la luna, amica, tu verrai furtiva ne 'l verziere. Hanno i consci rosai ombre profonde e nere. O amica, senz'alcuna tema verrai: le rose avran latébre ascose per lor sorella bruna, come sorga la luna. ROMANZA Ella tremando venne alfine, ove a me piacque. Che mai dicevan l'acque ne 'l silenzio solenne? Palpitavan le stelle ne la conca profonda; come fiori, più belle splendeano in tra la fronda. Parevano i roseti ne l'ombra alte compagi di neve: in loro ambagi avean cari segreti. Ella con le due braccia il mio collo ricinse, e mi porse la faccia, e tutta a me s'avvinse. Con sì lungo piacere io la baciai d'amore che parvemi ne 'l cuore tutte le rose avere. Ben or, se l'aulorose labbra onde il miel trabocca bacio, sapor di rose mi si diffonde in bocca. RONDÒ Entro i boschi alti e soli (era la luna piena) fluiva in larga vena canto di rosignoli. Da 'l triste inno corale pendeva ella, in ascolto. Chino su 'l davanzale, io pendea da 'l suo volto. Non i miei lunghi duoli, non de 'l suo cor la pena a la notte serena diceano i rosignoli entro i boschi alti e soli? RONDÒ Lungi i boschi alti e sonori dove l'Austro avea gran lite e da mille verdi vite salían canti a' nostri amori! Eran tristi i bei cantori a le nostre dipartite. Ma pur oggi, o amica, dite: non udite i nuovi cori? Ne' religïosi albori sorge Roma, augusta e mite; e le sue cupole ardite prende il sole e i vasti fòri, augurando a' nostri amori. ROMANZA Dolcemente muor Febbraio in un biondo suo colore. Tutta a 'l sol, come un rosaio, la gran piazza aulisce in fiore. Dai novelli fochi accesa, tutta a 'l sol, la Trinità su la tripla scala ride ne la pia serenità. L'obelisco pur fiorito pare, quale un roseo stelo; in sue vene di granito ei gioisce, a mezzo il cielo. Ode a piè de l'alta scala la fontana mormorar, vede a 'l sol l'acque croscianti ne la barca scintillar. In sua gloria la Madonna sorridendo benedice di su l'agile colonna lo spettacolo felice. Cresce il sole per la piazza dilagando in copia d'or. È passata la mia bella e con ella va il mio cuor. RONDÒ Quante volte, in su' mattini chiari e tiepidi, io l'aspetto! Ella ancora ne 'l suo letto ride ai sogni matutini. Su la piazza Barberini s'apre il ciel, zaffiro schietto. Il Tritone de 'l Bernini leva il candido suo getto. I nudi olmi a' Cappuccini metton già qualche rametto: senton giugnere il diletto de' meriggi marzolini. Come il cuor balzami in petto se colei vedo, che aspetto, in su' tiepidi mattini! ROMANZA Vi sovviene? Fu il convegno sotto l'Arco dei Pantani. Voi, saltando giù da 'l legno, mi porgeste ambo le mani. Ridean l'agili colonne, tutte argento buono, a 'l sol; ed i passeri loquaci le cingean d'allegro vol. Sotto l'Arco il cavalcante attendea con i due bai. Con sì pronto atto elegante voi balzaste, ch'io pensai: --Quante volte ne' selvaggi parchi il cervo ella inseguì? Dolce cosa al fianco suo galoppar tra gli allalì!-- Voi chiedeste, con un riso ne' belli occhi:--Dunque andiamo!-- Era bianco il vostro viso, bianco assai. Risposi:--Andiamo.-- Ma facean altre parole gran tumulti in fondo a me. Le contenni: il cuor ne 'l petto con che furia mi battè! Era il fòro taciturno da una grave ombra occupato. Sopra il tempio di Saturno indugiava il dì, pacato. Un non so che senso augusto si spargea, di deità, su da quella morta pietra ne la gran vacuità. Un istante voi fermaste il cavallo in su 'l confine. Ne l'eguale ombra più vaste digradavan le ruine. Ma s'apría più vasto ancora e profondo il mio desir. Io sentìa l'impeto forte a la mia bocca salir. Voi diceste:--Or dunque il vostro bel San Giorgio? È ancor lontano?-- In silenzio alto di chiostro era il fòro. Con che strano sentimento di tristezza ne 'l silenzio risonò quella voce, e ne 'l mio cuore la speranza ravvivò! A San Giorgio io vi guidai, a la chiesa erma e gentile che fiorito a' novi rai leva il roseo campanile. Da la prossima Cloaca, che de 'l maggio a la virtù pur fioría, di femminette gran cantar veniva su. I mattoni bisantini rilucean vermigli a 'l sole, come fosser pietre fini, carboncelli o cornïole. Oh San Giorgio benedetto! Ivi alfin l'amor s'aprì. Dolci cose io vi parlai. Piano, voi diceste sì. ROMANZA Dolce ne la memoria quella vista si leva. Su l'Aventino ardeva lento il giorno: una gloria come di bianche rose versava il ciel su 'l colle e copría de la molle neve tutte le cose. A 'l pian nebbie leggere si spandeano da 'l fiume: parean, ne 'l dubbio lume, volubili riviere traenti in loro ambagi favolosi navigli. Dietro, grandi e vermigli tra i cipressi i palagi su 'l colle imperiale parean arsi da chiusi fochi. In un sol confusi romor profondo eguale, suoni d'opere umane salían da la vicina ripa; a Santa Sabina squillavan le campane. Una pace serena, la pia pace che amavi ne' tuoi cieli soavi, o Claudio di Lorena, si spandea ne l'occaso, piovea su' cuori oblío. Vinto l'essere mio da quel fascino e invaso, tutto de la recente voluttà pieno ancora (come, o dolce signora, la tua bocca era ardente!), all'alto all'alto, anélo, tendea, spenta ogni guerra. E parea che la terra illuminasse il cielo. OUTA OCCIDENTALE Guarda la Luna tra li alberi fioriti; e par che inviti ad amar sotto i miti incanti ch'ella aduna. Veggo da i lidi selvagge gru passare con lunghi gridi in vol triangolare su 'l grande occhio lunare. Veggo pe 'l lume le donne entro i burchielli: vanno su 'l fiume, date all'acqua i capelli, tra i gridi delli uccelli. Tende ogni amante all'amante le braccia e a sè l'allaccia entro la bianca traccia de l'astro radiante. Passan li uccelli. Oh chiome feminili, chiome gentili, lunghe reti sottili tratte dietro i burchielli! Oh di roseti profondi laberinti ove i poeti in giacigli segreti stanno alle belle avvinti! La nostra nave, cui non pinse Ki-Tsora, va con soave andare; e su la prora tu ti stendi, o signora. I tuoi capelli sciolti hanno il fresco odore dei ramoscelli che ondeggian lenti, in fiore, con sommesso romore. La tua man breve, passando, i fiori coglie: par tra le foglie, tra i calici di neve una farfalla, lieve. Ma, come pieno è il grembo, ti riposi: palpita il seno, bevono il gran sereno li occhi meravigliosi; e dolcemente stan su i fiori adagiate le mani.--Oh fate, belle mani adorate, il gesto che consente! LAI La Luna diffonde pe' cieli suo latte: a lei, chiuse e intatte, sospiran le selve, profonde. Un murmure, lento, si spande ne 'l piano; e giunge un lontano di cervi bramire su 'l vento. Discende ne l'ode la dea che m'è dolce; e a me i suoni molce de 'l verso. Ma l'altra non ode. Ma quella ch'io amo non ode. I roseti ancora han quieti misteri e fan lungi richiamo; e ancor ne' giacigli rimangono l'orme recenti e le forme recenti tra i fiori vermigli. Ma quella ch'io bramo non meco vi giace... O cuor senza pace, ed occhi miei lassi, moriamo. RONDÒ Com'api armoniose uscenti a 'l novo sole per le felici aiuole de' gigli e de le rose, queste che Amor compose delicate parole, com'api armoniose uscenti a 'l novo sole, su le chiome odorose che Amor cingere suole di sogni e di viole spìrino dolci cose, com'api armoniose. DONNE Per l'antico viale de l'Aurora.... NYMPHA LUDOVISIA. Disegno di ONORATO CARLANDI. [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_] NYMPHA LUDOVISIA Per l'antico viale de l'Aurora, mentre i cipressi dormono al mattino, o nova principessa di Piombino, tu passi; e a te d'intorno il vento odora. Vive d'intorno a te la grande flora ludovisia crescendo a 'l sol latino, bionda Napea di Rafael d'Urbino, ne la beatitudine de l'ora. E le fontane vivono; e l'intensa voluttà de la vita, a 'l tuo passare, urge fino i cipressi alti e quieti; e te brama ed a te canta l'immensa anima de la villa secolare, o diletta ne' sogni dei poeti. VIVIANA O Vivïana May de Penuele, gelida virgo prerafaelita, o voi che compariste un dì, vestita di fino argento, a Dante Gabriele, tenendo un giglio ne le ceree dita, Vivïana, non più forse a la mente il ricordo di me vi torna omai. E pure allora, quando io vi parlai, mi sorrideste a lungo e dolcemente. Fiorían, Villa Farnese, i tuoi rosai ne 'l mattino di maggio e su le antiche mura il sole una veste aurea mettea: tra le liete ghirlande si svolgea la bellissima favola di Psiche; navigava in trionfo Galatea. O Vivïana May de Penuele, or vi sovviene de 'l lontan mattino? Voi sceglieste le rose ne 'l giardino ove un tempo convenne Rafaele, muta, con lento gesto, a capo chino. Non vidi allor la Primavera iddia? Disser la vostra lode a me li uccelli; fiori parvero nascer da' capelli, come ne la divina Allegoria cui pinse in terra Sandro Botticelli. Poi su l'accolta de le vive rose reclinando la testa agile e bionda, avidamente, come sitibonda, tutte beveste l'anime odorose --oh voluttate mistica e profonda! Poi, smarrita in un sogno, alta levaste la faccia ove le azzurre ésili vene languíano, e mi volgeste (or vi sovviene?) le pupille ne 'l sogno umide e caste. Non così pura in cielo è mai Selene. Io sol dissi a la notte alma e felice, solo dissi a le stelle il novo amore. Secreto in me de' vostri occhi il fulgore io custodii, beata Beatrice. Tale un raggio di luna il silfo ha in cuore. Or cantarti m'è dolce, o Vivïana. Splendimi ne la chiara ode, vestita de la tunica verde e redimita d'argentei fiori, in calma sovrumana tenendo un giglio tra le ceree dita! GORGON L'Asïatico già tende le braccia trepidamente verso l'imo ignoto: attonito, fra i calici de 'l loto ei vede arguta ridere una faccia. HYLA! HYLA! Disegno di CESARE FORMILLI. [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_] I. Ella avea diffuso in volto quel pallor cupo che adoro. Le splendea l'alma ne li occhi quale in chiare acque un tesoro. Ne la bocca era il sorriso fulgidissimo e crudele che il divino Leonardo perseguì ne le sue tele. Quel sorriso tristamente combattea con la dolcezza de' lunghi occhi e dava un fascino sovrumano a la bellezza de le teste feminili che il gran Vinci amava. Un fiore doloroso era la bocca, e un misterioso odore esalava ne 'l respiro. I capelli aridi in onde s'accoglieano su le tempie, su la nuca, di profonde voluttà larghi a l'amante che scioglieali ne l'alcova, forse; e avean talor riflessi di viola, come a prova de la fiamma il puro acciaio. II. Questa nobil donna un giorno io conobbi. Era l'estate ampia; e dolce il mare intorno diffondevasi nel sole, come un drappo suntuoso. Templi, portici, obelischi partoria l'imaginoso vespro; e a fior de 'l mare pénsili le sottili architetture si moveano lentamente: emergean lunghe figure fra li intercolonni, a un tratto, mostri umani o bestiali; s'immergeano li edifizi ne le fredde acque natali. Ella, sola, su la loggia, tutta involta da i prestigi de 'l tramonto, in attitudine d'indolenza, li occhi grigi tenea quasi semichiusi. Quando Alberto Delle Some, conducendomi cortese presso a lei, disse il mio nome, ella volse il capo e li occhi grandi aprì su la mia faccia. Poi mi porse ambo le mani sorridendo. Avea le braccia sino al gomito scoperte, bianche, pure, di squisite forme; a' bei polsi rotondi eran finamente unite, come a stel fiori, le mani. Oh divine mani, oh bianche mani ch'io non ho baciate! Si posavan, come stanche, su 'l marmoreo davanzale; e le lunghe ésili dita risplendevano di anelli. Io sentia dolce la vita mia fluire ed i capelli divenir gelidi, quasi per un'ideal carezza, da sottil fremito invasi. III. Ella, semplice, parlava, con la sua voce sonora, lievemente roca a tratti. Una preziosa flora nascea lenta ora da 'l mare, a' nostri occhi. Li edifizi giacean spenti in fondo a l'acque. Pe' i mirabili artifizi de la luce ora sorgevano, come calici di gigli, alte trombe, e si spandevano; e nutrite dai vermigli fumi in cielo prendean tutte forma d'alberi. Viole d'improvviso da le arboree forme piovvero, e ne 'l sole tutto il mare allora parve brulicante di meduse. Ella tacque. Io la guardava. In quell'attimo confuse le nostre anime rimasero. Io non seppi dirle:--V'amo. Ella, forse paventando l'ora, disse:--Rientriamo; è già tardi. Io vi saluto.-- E, tendendo la sicura man, sorrise un'altra volta. Quindi uscì. IV. La sua figura ondeggiava alta ne 'l passo, con un ritmo affascinante. Un pensier dolce mi venne: --Io sarò forse l'amante; io felice le mie notti dormirò sopra il suo cuore!-- Ah, perchè voi mi fuggiste? Ebro, come d'un liquore troppo forte, ebro di voi, de 'l ricordo di voi, sento da quel giorno in tutti i baci, sento in ogni blandimento feminile, sento in ogni voluttà più desiata, o signora, voi, voi sola; voi che tanto avrei amata! ATHENAIS MEDICA Nobili e puri, splendono quali forme di luce. ROMANZA. Disegno di VINCENZO CABIANCA. [Illustrazione] I. Poichè su la campagna salutare era venuta la dolce stagione e un gran disío di vivere e d'amare in me tornava con la guarigione, ella talvolta a le mattine chiare tutta ridente apriva il mio balcone. Il suo riso e la luce in un sol getto m'inondavan di gioia: álacre in petto balzava il cuore. Oh mie memorie buone! Vedea composti in fila li alberelli su 'l cielo azzurro come il fior de 'l lino, dritti, con rare foglie, e lunghi e snelli, quali eran cari a Pietro Perugino; e a quando a quando udia di tra' ramelli gittar suoi trilli dotti un lucherino. Mi veniva ne 'l cuor sì gran diletto da quella vista, ch'io m'ergea su 'l letto alquanto, a riguardar più da vicino. Ben ella avea que' miei palpiti istessi. Talvolta io mi sentia li occhi velare. Le lacrime facean sì ch'io vedessi tutte le forme a l'aria tremolare confusamente, simili a riflessi vani di cose in fondo a un roseo mare. Ella, ne le sue man présomi stretto il capo, susurrava:--Oh mio diletto! Amor mio dolce!--Io mi credea mancare. II. 1. Io ricordo, Atenái. Lungo il sentiere de' pioppi bianchi e de le tamerici, maga possente contro i maleficj, guida voi foste a 'l debil cavaliere. Ilare, accanto a voi, senza temere, io respirava l'aure innovatrici: mi battean ratte ne le cicatrici l'onde de 'l sangue tiepide e leggere. Or co 'l vento giungean quasi a riviere i profumi da l'ultime pendici; e, sentendosi il vento a le narici, i cavalli fremevan di piacere. Su l'argine de i fossi aride e nere, fuor de la terra uscendo, le radici si distendean con lotte ed artificj meravigliosi a l'ime acque per bere. Ma salivan ne' tronchi e ne le intiere membra correvan l'acque avvivatrici; contendeva il germoglio i beneficj de la luce, bramando di godere; e, in alto, a 'l Sole un coro di preghiere mormoravano li alberi felici, espandendo le chiome ai vènti amici, crescendo a le future primavere. 2. Io ricordo, Atenai. Voi, con un mite sorriso di bontà su le fiorenti labbra, i miei gesti e i vari atteggiamenti de 'l mio cavallo seguivate.--Oh dite, maga Atenai, voi che le mie ferite curaste di sì dolci lenimenti; voi che le mani tenere ed aulenti posaste ne le mie piaghe inasprite; voi che le insonni mie notti infinite, piene di mille acuti patimenti, confortaste d'amor co' pazienti balsami de la voce umile, dite, adorata sorella, oh dite, dite la gran soavità di quei momenti, allor che li occhi in lacrime ridenti vi baciai con le labbra impallidite! 3. Noi, muti, a lungo cavalcammo ancora quella terra benigna ove fioriva la pace tra le umane opre. E s'udiva de' cavalli la lenta orma sonora. Poi, ne la grave santità de l'ora, sorse un cantico lungi da la riva de 'l Mar, subitamente. E il sol moriva. Ma quel tramonto a noi parve un'aurora. Io ricordo. Infinito, da le chiare comunïoni de le cose, a 'l giorno emanava non so qual senso umano di dolcezza e di oblìo. Proni d'intorno stavano i poggi e risplendea lontano, non anche sazio de la luce, il Mare. DONNA FRANCESCA Dorme, poggiata il capo a 'l davanzale de 'l balcon fiorentino, la Titania di Shakspeare;.... DONNA FRANCESCA, IV. Disegno di GIUSEPPE CELLINI. [Illustrazione] I. Se dentro i favolosi orti vermigli adunava la Luna i suoi misteri (per lei presi d'amore, alti e leggeri tremolavano in doppio ordine i Gigli), il capo ergeano su da li origlieri le Belle, a tesser rai: lungo i giacigli di rose, propagavansi i bisbigli richiamanti a l'agguato i Cavalieri. In quelle notti, o Bella, de 'l lunare argento una fatal rete voi forse tesseste con le vostre dolci dita? Sentendomi da voi tutto legare, questo ne 'l mio pensier dùbito sorse; e ancor ne trema l'anima smarrita. II. Odor di rose, forse da i giardini chiusi del Re, venìa confusamente; e splendea ne la fredda ora, imminente, la Luna su 'l palazzo Barberini. Mormoravan con voci roche e lente le fontane invisibili tra i pini: or sì or no li stocchi adamantini oltre i rami balzavan di repente. Noi, chinati da l'alta loggia, soli, (ella rabbrividìa) de le fontane ascoltavamo i languidi racconti. Non così dolce cantan li usignuoli! Vago ne l'alba suono di campane giungeva da la Trinità de' Monti. III. Più chiara su 'l palazzo Lorenzana la Luna risplendea, Donna Francesca, quella vostra beltà raffaellesca guardando con dolcezza quasi umana. La fontana di Giacomo, a la fresca serenità, con voce roca e piana mettea parole, come una fontana magica de l'età cavalleresca. Scintillavano l'acque; le figure prendean vive attitudini, a l'albore danzando in tondo con rapide fughe. Per tale ausilio, al fin le vostre pure labbra io baciai; così vinsevi amore... Oh fontanella de le Tartarughe! IV. Dorme, poggiata il capo a 'l davanzale de 'l balcon fiorentino, la Titania di Shakspeare; e un divino sogno da 'l cuor lunatico le sale. Una rete d'argento siderale i suoi capelli accoglie, e luminose fasciano le spoglie, dei colùbri la sua forma ideale. Per lei tramano i ragni, su l'opale de l'aria, le sottili opere in tra li stipiti; ed i fili aurei tremano a l'alito immortale. Così, Donna Francesca, entro il natale albore di Selene, ora dormite; e, in torno a le serene bellezze, io vo tramando il madrigale, mentre spiran le rose l'aromale anima ne' roseti e li usignuoli i fiumi ed i poeti cantan la notte augusta e nuziale. V. Una notte, com'io l'alta portiera sollevai piano co' la man tremante, presso il gran letto la mia dolce amante scorsi a ginocchi in atto di preghiera. Ricorrean ne la stanza ampia e severa, intessute con rara arte, le sante Allegoríe che l'anima pregante traevan forse a più gioconda sfera. Muto io ristetti, come a 'l limitare d'un tempio; ma il disío tutto s'immerse, stridendo, in quel misterioso aroma. Ben, quando (oh notte!) la divina chioma io le disciolsi e vinta ella m'aperse le braccia, il letto parvemi un altare. VI. Entra l'albore gelido, pe' i vetri, ne l'ombra di quel letto ov'ella dorme stanca di voluttà con semichiuse le dolci labbra in cui trema il sorriso. Or la Luna, ferendo ne l'aperto cofano i bei gioielli, gloriate opere di sottili orafi, illustra diamanti, camei, perle e smeraldi. Splendono le collane, come spire d'un favoloso rettile sopito; e paiono viventi occhi i rubini. Langue, da presso, entro la coppa un giglio in sua verginità, nobile e puro quale un vaso liturgico d'argento. VII. O amica dolce, non sapeste mai la verace dottrina che ne 'l mondo il figliuol di Gesù, bello e giocondo adolescente, a l'ombra de 'l Sinái, predicava, nel nome d'Adonai, a le spose ed alli uomini ascoltanti ed ai compagni efébi, in tra' rosai, mentre scendean dal monte i greggi erranti. Ei, come Ciro figlio di Cambise, destro era e forte, generoso e parco, non superato in trarre lancia od arco; e molte fiere la sua mano uccise, la sua man degna d'un regale sire, ben usa a profumar la chioma bionda di rare essenze che facean languire le femmine in soavità profonda. Divino era il suo nome: Eleabani. Ed era come un olio di viola, sereno, che ne 'l suon de la parola si spandesse a lenire i petti umani. In fondo a l'occhio suo puro e crudele eran segrete fascinazïoni. Come il santo profeta Danïele, avrebbe ei vinti a 'l suo giogo i leoni; e con la voce, cantico di lire, mansuefatti avrebbe aspidi in guerra. Or prima, a soggiogar l'anime in terra, trasse i cuor de le donne a 'l suo desire. Tutte, da' bei palagi ove risplende l'oro, e da' templi ove la pace dorme, e da l'umili case, e da le tende nomadi, e da' tuguri, a torme a torme, venivano a 'l figliuol de 'l Nazareno, al bene amato eroe de la fortuna. Lui proseguìano a 'l sole ed a la luna; lui chiedeano, in morir de 'l suo veleno; lui, ne l'alba, torcendosi le braccia, invocavan su 'l tepido origliere, o sognavano, pallide la faccia tra l'ampia chioma, sfatte da 'l piacere. Per l'orrore de' portici silenti a la fonte, assetata, una Maria, come il cervo simbolico, venìa e ne l'acqua immergea le mani ardenti. Quindi, protesa le stillanti mani, e il ventre, bianco qual coppa d'avòro, nudata, mormorava:--Eleabani! Eleabani da la chioma d'oro, o tu per le cui nembra i rai de 'l sole una veste han tessuta, Eleabani, o tu cui ne la bocca come grani di puro incenso odoran le parole, o tu che de 'l tuo corpo hai fatto vase a' balsami celesti ed a' profani, o tu che scendi ne le nostre case qual ne' campi rugiada, Eleabani, m'odi: li astri de 'l ciel com'aurei pomi tremano in tra le foglie a' melograni; io son ebra e languisco, Eleabani, come la damma a 'l colle de li aromi. Come al vento tra le árbori la damma, io trasalgo e sobbalzo ai romor vani. Ad ora ad ora, in ciel vedo una fiamma. Non tu sei che lampeggi, Eleabani? Ed egli, avendo ereditato il Verbo, amò, come Gesù, peregrinare. Le parabole sue, rapide e chiare, pungean le menti con lor senso acerbo. Predilesse i conviti, poi che aperto ne la fraternità convivïale è l'animo de li uomini ed un serto di chiarissima luce il vin spirtale cinge a le fronti; e predilesse i petti feminei, de' lunati omeri il giro, a segnar come in nitido papiro evangelicamente i suoi versetti. Quale un fiume, cui gonfia d'acque il maggio, da le sedi natali alto discende e più cresce in sua gioia e con selvaggio fremito ride e a 'l sol pieno s'accende: odono i boschi giugner la ruina, vasti su le pacifiche pendici; in van lottano; e, presi a le radici, piomban ne 'l gorgo: tal la sua dottrina volgea, passando, le credenze e i culti e risplendea di libertà ne 'l sole. Come il fiume in sua via reca virgulti, pur recava d'amor nuove parole. Egli ammoniva: «O giusto, è breve l'ora. «Ne la tua servitù sii paziente. «La pazienza è l'immortal nepente «che afforza i nervi e l'anima ristora. «Come in un tempio, ne 'l tuo cor ricevi «l'alto Ideale che de l'uomo è figlio. «E sappi in quel che mangi e in quel che bevi «trovar l'ambrosia e il nettare vermiglio.» Ed ammoniva: «O donna, o Vaso insigne «de la dolcezza ed Arca de l'oblìo, «versa a li uomini il vin che già il Desío «cantando ricogliea ne le tue vigne. «Fa che soave il tuo spirito ceda «a l'alitare d'ogni passïone, «come la tibia d'oro ove un'auleda «prova a diletto sua lene canzone. «Ama il tuo sposo ed ama il tuo figliuolo «ma fa che il beneficio tuo si spanda «pur su colui che in carità dimanda «una stilla d'amore, umile e solo. «E tutto diverrà per t'onorare «Mirra, Olibano, Incenso e Belzuino; «e saliranno come ad un altare «i cuori a te, con giubilo divino. «La carne è santa. È l'immortale rosa «che palpita di suo sangue vermiglia. «È la madre de l'uomo ed è la figlia. «Ed è quella che sta sopra ogni cosa. «Ella racchiude, come un'urna aromi, «tutte le voluttà, tutti i dolori. «Ha l'ardente opulenza ella de' pomi, «ha la soavità casta de' fiori. «Quale a notte in un tempio una fontana «mormora ascosa e dà voci di lire, «fa il sangue in lei pe 'l ritmico fluire «una musica assai dolce e lontana. «La carne è santa. Guai a chi non piega «l'anima innanzi a lei; però che tristo «egli l'essere suo nega, e rinnega «il suo divin maestro Gesù Cristo: «Gesù che, fatto carne, in su la croce «morì ne la montagna solitaria, «Gesù che, fatto carne, ebbe in Samaria «verso la donna così mite voce, «Gesù che, fatto carne, arse d'amore «vedendo un giorno in su la via fiorita «la Magdalena, e lei pregò d'amore «e me condusse a questa dolce vita!» Tali cose ammonia, tra la comune giocondità de 'l vino, in su la chiara mensa. E le perle de la sua tiara splendeano vagamente come lune. Il cenacolo avea forma di lira. Quattro colombe d'or con ali tese, in alto, tra le frange di Palmira, a invisibili fili eran sospese. Due dromedari, avendo in su la schiena, otri forati ed una campanella di fino argento sotto la mascella, spargean su' marmi essenza di verbena. In torno, i domitori-di-cavalli efebi, sollevando in tra le mani vasi che rendean suon come timballi, beveano salutando Eleabani. Bevean, coperti di carbonchi, in torno satrapi enormi da la barba d'oro il chalibon, rarissimo tesoro, in un corno sottil di liocorno. I dottori, i grammatici, i salmisti, ed i leviti, i giudici, li scribi, e i mercatanti, e i musici, commisti, disperdean su la mensa i rari cibi. Le vestimenta lor, tinte di fuchi preziosi, brillavan di lontano. Alcuni, taciturni, aveano strano aspetto di carnefici o d'eunuchi. Ma le femmine cinte di ghirlande, con denti bianchi come il gelsomino, rideano tra 'l vapor de le vivande, suggean da coppe di smeraldo il vino. Il lor nitido riso giungea grato ai cuori, come un verso numeroso. Stendean le braccia, con un grazioso gesto, a mostrare il cùbito rosato; e prendean su la mensa i cedri, i fichi, e le mandorle, i datteri, le olive. Ne 'l bacio offrian, con belli atti impudichi, la molle polpa su le lor gencive. --Or mangiate e bevete, e di piacere inebriate il vostro cuor mortale; chè da l'ebrezza a Dio l'inno risale, grato, come l'odor da l'incensiere-- diceva Eleabani. Ed era immune il cuor suo da l'ebrezza ed era chiara la sua voce; e splendeano come lune ferme le perle de la sua tiara. VIII. --Francesca, o amica, o trepida colomba, perchè piegate voi su 'l sen la testa, pallida udendo il tuon de la tempesta, che improvviso ne l'anima rimbomba? Perchè torcete ne 'l dolor le mani, le care mani, i fior gracili e snelli, che pur ieri sapevan, con sì piani blandimenti, solcare i miei capelli? Francesca, o amica mia, perchè piangete? Le vostre membra treman così forte, e così roca su le labbra smorte vi muor la voce, ch'io non ho quiete.-- Ed ella:--Io guardo nel cuor mio; che, ardente come una lampa, è tutto avviluppato da una spoglia di serpe, transparente, su cui l'orrido Inferno è figurato. IX. Come a notte in un tempio una fontana mormora ascosa e dà voci di lire, fa il sangue in noi pe 'l ritmico fluire una musica assai dolce e lontana. Veramente io non so quali parole il buon sangue ne 'l capo mi favelli volgendo sue misteriose ambagi; ma ben io so che mai gighe o viuole ornaron di più vaghi ritornelli serenate d'amor sotto i palagi. Canta, o buon sangue! Ed i pensier malvagi, tutti, qual vin, da l'anima discaccia. Nel mezzo del mio cor ride una faccia, guardando la vendemmia allegra e sana. X. Se pure il verso mio, Francesca, è reo d'aver la vostra natural piacenza ritratta intiera, in un lavacro, senza la casta zona e senza il conopeo, fu tempo già che Fra Bartolomeo, pingendo i Protettori di Fiorenza, la Nostra Donna in sua gentil movenza ritrasse ignuda in mezzo a 'l gran corteo. Or dunque se il buon frate di San Marco, il quale è assunto ne l'eterne stelle, ebbe per l'opra sua cotale ardire, non io potrò ne 'l verso mio scoprire de 'l vostro sen le due beltà gemelle e de le late spalle il candid'arco? XI. Quando su per le scale ampie d'argento la Reina salìa verso l'altare, levata li umidi occhi a 'l Sacramento, pallida e fredda, se volea pregare, dava il bianco metallo un vibramento sonoro in ritmo a li urti de 'l calzare: tutte le scale come uno stromento si mettevano in gloria a risonare. O Francesca, così la vostra bionda bellezza da 'l disìo chiamata ascende or de' miei versi il mistico edifizio. Fremono a i vostri piedi, con un'onda di suoni, i versi; e a 'l culmine vi attende tra i profumi de l'urne il sacrifizio. XII. Aveva un tempo il cardinal Grimani ne 'l breviale suo, fino tesoro, un'image ove molti angeli in coro, ceruli e biondi, da' bei volti umani, su li omeri o su le agili ale d'oro o su l'èsili palme de le mani offrìan cinte de' nimbi cristiani l'anime de li Eletti al Signor loro. Ignude erano l'anime: più bella tra l'altre una figura feminina, ne la sua dolce nudità, salìa. Amo io così raffigurarti, o pia Sposa, lungo l'azzurra erta divina, su l'ali d'una candida angelella. O del Signore ancella, soffuso di pudore il vivo giglio de le tue membra apparirà vermiglio e per tutte le anella fiammeggerà la celebrata chioma simile ad una gran face d'aroma. DONNA CLARA .... il biondo capo sorride da l'origliere. DONNA CLARA, I. Disegno di ALFREDO RICCI. [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_] I. Sta Donna Clara (ne 'l mio pensiere) su 'l damascato letto ampio e profondo: splende la nudità ne l'ombra, e il biondo capo sorride da l'origliere. Erto su l'ésili zampe il levriere blandisce il pié divino a l'Atalanta; e freme, a la blandizia, tutta quanta l'ignuda forma strano piacere. Salgono miti su da 'l verziere a 'l balcone i leandri in rosei fiocchi; un gran paone sta co' suoi cent'occhi vigile in alto da le ringhiere. E mentre il cane, quasi per bere, vibra in ritmo la lingua umida a 'l fiore de 'l niveo pié, gli corron su 'l nitore de 'l dorso lunghe onde leggere, e i fianchi scarni pulsano, e in fiere di serpe anella torcesi la coda, e tremano le zampe in su la proda de l'ampio letto, lucide e nere. II. Con il fior de la bocca umida a bere ella attinge il cristallo. Io lentamente le verso a stille il vin dolce ed ardente entro quel rosso fiore de 'l piacere; e chinato su lei, muto coppiere, guardo le forme dilettosamente: la sua testa d'Ermète adolescente e la sagliente spira de 'l bicchiere. Or, poi che le pupille a l'amorosa concordia de le due forme stupende io solo, io solo, io solo ho dilettate, godo infranger la coppa preziosa; e improvviso un desìo vano mi prende d'infrangere le membra bene amate. III. Splendidi in tra' vapori aurei de 'l vino per lei, come pe' i belli iddii pagani ne la serenità de 'l ciel latino, sorgono li atrj d'Alessandro Albani. In mezzo, un vivo stel dïamantino balza ne 'l sole: tra i fuggenti vani de le colonne adorano il divino Sole i cedri, li aranci e i melograni. Ella posa ne l'ombra, in signorile atto: si stende a 'l niveo piè d'avanti la pelle d'una gran tigre di Giava. Dormono a presso i veltri da 'l sottile muso di luccio, candidi, eleganti, snelli, che Paol Veronese amava. IV. Vive anco, immersa ne 'l natale aroma, lungo il mare una gran selva d'aranci, ove lento il paone apre ne l'ombra la pompa de le sue fulgide piume? Un tempo, allor che in chiari ozi taceva il golfo ed era il sole alto ne' cieli, (sempre dolce il ricordo a me) giacere noi amavamo ne la selva d'oro. Udivam, ne 'l silenzio, a quando a quando cader su l'acqua i frutti, ed i paoni schiamazzare tra i rami a noi su 'l capo; fin che vinceane il Sonno. E de 'l profumo agreste come de 'l calor d'un vino si nutrivano i sogni dilettosi. V. Un dì, come il silenzio alto ne' campi regnava, a mezzo il giorno, e tra le messi cantavano i servili uomini un inno a l'abondanza de 'l rinato pane, ella solea discender le marmoree scale de 'l suo palagio; ed i levrieri d'Africa in torno a lei con prodigiosi balzi urgevan chiedendo d'inseguire. Sorrideami, guardando, ella. Secura, sopra l'ultimo grado, indi blandiva i bei levrieri dalla rosea gola candidi cacciatori, insofferenti d'ozio, che in torno a lei con prodigiosi balzi urgevan chiedendo d'inseguire. VI. Ne 'l cortile marmorëo, tra l'alte colonne a cui s'abbracciano le piante con amorosi vincoli di fiori, tace la Bella Fonte, inanimata? Nè più Bacco fanciullo, in su li opimi grappoli assiso, ride da la tonda faccia e vendemmia, candido tra l'acque riscintillanti a 'l sole ed a la luna? Scendevano i suoi bianchi cani a l'alba latrando; ed ella li seguìa ne 'l corso tenendo entro il gentil pugno i guinzali. E conduceali a dissetarsi. Oh dolce cosa vedere lei presso la fonte, simile a Delia, tra i beventi cani! INVITO ALLA CACCIA Pascean su 'l limitare i palafreni meravigliosi, li émuli de 'l vento.... ORIANA. Disegno di ENRICO COLEMAN. [Illustrazione] Poi che un vel di fino argento copre i cieli a l'albor primo, (ne 'l mattin trepido, cento volpi corrono fra il timo) o voi, Clara, che dormite ne 'l gran letto di damasco; (odor d'erbe inumidite sale su da 'l verde pasco) Clara, alfin da li origlieri sollevando il capo d'oro, (ne 'l canil basso i levrieri gran tumulti hanno fra loro) ascoltate il suon de' corni che voi chiamano a la caccia; (per li ombrosi alti soggiorni lascia il cervo la sua traccia) e, ne l'abito maschile chiuso il dolce fior de 'l petto, (vibran lieti pe 'l cortile i nitriti de 'l ginnetto) o voi, Donna Clara, alfine discendete... Urrà, mia bella! (Rossa in cima a le colline sta l'aurora). In sella! In sella! EPILOGO Sale dubbio vapor su da li stagni, che in alto a l'aria forme truci assume... L'ALUNNA. Disegno di MARIO DE MARIA. [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_] A F. P. MICHETTI O Francesco, le ninfe de 'l Guercino seminude accorrenti ne la caccia ove Diana da le nivee braccia tende a la strage il grande arco divino; e la fatale donna de 'l Vecelli, pallida, a cui ne le perfette mani risplendono le gemme de li anelli arcanamente, come talismani; e il bel vïolinista Rafaele a cui si piega sovra il collo puro, quale un nobile giglio morituro, esangue il capo d'angelo infedele, o Francesco, per che virtù profonda hanno l'anima tua rinnovellata? Sorge l'anima tua, da la gioconda communïone, fulgida ed alata a l'Ideale che non ha tramonti, a la Bellezza che non sa dolori? Quando grida una voce:--In alto i cuori!-- raggiano de' poeti erte le fronti. Oh pomeriggi chiari e dilettosi in cui fiorì la tua nova fatica e dentro i versi miei laboriosi tremò il disìo de la bellezza antica! Mentre ne l'ampia sala gentilizia su i quadrati di marmo il sol fluiva simile ad una lene acqua sorgiva dilagando con placida letizia, tu ne la tela, senza alcuna lotta, l'oro fulvo rapivi a Tizïano, io derivava in gloria d'Isaotta i larghi modi de 'l Polizïano. Una serenità lucida, eguale, noi tenea. Da la tela a quando a quando, me d'un fraterno riso illuminando, tu levavi la faccia giovïale; o, lento, senza volgere lo sguardo da l'opra, amavi un tuo pensier felice ornare, tu che come Leonardo hai la dolce facondia allettatrice. Io, ben uso a 'l gentil freno de l'arte, come un orafo mastro di Fiorenza, eleggea con acuta pazienza le gemmate parole in su le carte; ma, se de 'l mio pacato sofferire il termine supremo era vicino, a 'l cuor sentìa l'ebrïetà salire quasi io bevessi un calice di vino. Fluiva su 'l marmoreo pavimento un lume biondo come l'idromele; e il bel vïolinista Rafaele parea toccar le corde a 'l suo stromento. O Francesco, m'è grato il rammentare! Or n'andremo a la patria, ove più molle per la falcata riva ondeggia il mare e più mite è l'olivo in cima a 'l colle. Ne la tua vasta casa, ad ogni stanza penderanno li arazzi medicéi e, come ne' bianchi atrj di Pompei, discenderà la luce in abondanza. Tu, signor del pennello, io de la rima, fingeremo beltà meravigliose. E riderà de' miei pensieri in cima quella che il suo d'amor giogo m'impose. Su 'l vespro converranno a una tenzone, ne l'orto pien di fonti e di roseti, donne, scultori, musici, poeti, principi, come in un decamerone. E ne 'l convito calici e bicchieri farà vermigli il dio vin de 'l paese: andranno in torno i cani ed i coppieri che amò ne le sue Cene il Veronese; e i servi porgeranno in vasellami d'argento frutti il cui vital sapore da la bocca parrà giungere a 'l cuore dando piacere per ignoti rami. Poi sarà dolce insieme ragionare, lungo i roseti, ne la notte bella; o dormire su l'erbe; o pur vegliare cantando in coro qualche ballatella. EPODO Amo io così raffigurarti, o pia Sposa, lungo l'azzurra erta divina.... DONNA FRANCESCA, XII. Disegno di GIUSEPPE CELLINI. [Illustrazione] A GIUSEPPE CELLINI I. Cellini, erami assai duro ed ingrato il tempo, quando in cieca ira venìa a 'l grand'assedio de la vita mia Amore con suo dardo avvelenato. Ben ora a più gioconda signoría una donna il mio senso ha costumato, risuscitando ne 'l mio cor placato uno spirto amoroso che dormía. Con che mitezza accenna la sua faccia, tra 'l diffuso fiorir de' ricci biondi, in un colore angelico di perla! Ride l'anima mia, solo a vederla; tal serena bontà fuor de' profondi occhi le sgorga, che tutto m'abbraccia. II. Amico, le mie tristi passïoni or s'inchinano a lei, non più ribelli; e volan alto, come lieti augelli, per gran cieli d'amor le mie canzoni. Vennero a lei le Grazie, in lor guarnelli semplici a lei portando i rari doni, come un tempo a Giovanna Tornabuoni ne 'l bel _fresco_ de 'l nostro Botticelli. Vennero a lei le Grazie; ed ella, come Giovanna, porse in atto di piacenza il grembialetto a le visitatrici. Ed esse la chiamarono per nome. E ancora, parmi, de la lor presenza risplendono le mie stanze felici. III. Quando ne la mia casa, ospite caro, io t'avrò, se non sien duri li eventi, in questi di settembre allettamenti che indugiano pe 'l cielo umido e chiaro, tesser vorrem di be' ragionamenti, lungo le vigne camminando a paro, o, ne l'ombra, Tibullo e Fiacco e Maro ornar di sottilissimi comenti. Ampia in torno sarà pace rurale. Ma i nostri orecchi udranno ad ogni poco da la pergola escir suoni di lira. E il sol cadrà su' monti; e il mar natale da lungi arriderà tra 'l roseo foco, sospirando Tibullo da Corcira. RILEGGENDO OMERO A GIULIO SALVADORI I. Son paghi i voti miei. Divin custode ondeggia innanzi a la mia porta il mare. Canta, grave e soave: il suo cantare ha un'ignota virtù su l'uom che l'ode. Qual gregge, con un lento digradare scendon li olivi a le ricurve prode; in su 'l meriggio la pia selva gode le chiome ne la queta onda specchiare. Son paghi, o amico, i voti miei. Conviene Omero ne' giocondi ozi: non cede pur la sua voce a 'l grande equoreo coro. Quale il Sole per l'alte aure serene, fulgido, lungo i liti Achille incede ne la lorica tutta quanta d'oro. II. In vano, in van tra le colonne parie de 'l mio sogno di lusso e di piacere le bellissime forme statuarie ridon pur sempre.--O sacre primavere de l'arte antica, o grandi e solitarie selve di carmi ove raggianti a schiere passan li eroi, ne l'arida barbarie de l'evo or chiedo splendami a 'l pensiere la vostra luce!--Troppo in un malsano artifizio di suoni io perseguii a lungo de l'amor le larve infide. Ora un lucido senso alto ed umano me invade, poi che novamente udii cozzar ne 'l verso l'armi de 'l Pelide. NOTE .... beata Beatrice. VIVIANA. Disegno di G. A. SARTORIO. [Illustrazione: Era venuta nella mente mia La gentil donna, che per suo valore Fu posta dall'altissimo Signore Nel ciel dell'umiltade ov'è Maria _Fototipia Danesi Roma_] RONDÒ PASTORALE, _pagina 168_. Questo rondò è composto, metricamente, sopra un esemplare di Clemente Marot. Li altri quattro sono composti a similitudine di quelli (più propriamente _Rondels_) attribuiti a Francesco Villon, che son meno esatti. L'ultimo segue la regola di Carlo d'Orléans. OUTA OCCIDENTALE, _pagina 186_. Leggendo l'elegantissima traduzione che ultimamente Judith Gautier ha fatta di talune poesie giapponesi, tentai di riprodurre in italiano la struttura di una _outa_; ed aggiunsi le rime. I Giapponesi, pure ammirando i versi chinesi e talvolta imitandoli, si attengono di preferenza alla poesía nazionale che chiamasi _outa_. Due specie di _outa_ vi sono: _l'outayé-outa_, da cantarsi con compagnía di stromenti o senza; e la _yomi-outa_, da leggersi. La prima è più lunga, spesso lasciva ed oscena; la seconda è più corta, si compone di pochissime linee senza rima e senza ritmo, ma d'un determinato numero di sillabe seguentisi in un ordine stabilito. La più elementar forma di poesía giapponese è la strofa di cinque versi, di cui il primo è di cinque piedi, il secondo di sette, il terzo di cinque, e di sette li altri due. In complesso, trentun piedi. Per esempio, ecco una _outa_ della principessa Issé: _Harou goto ni Nagarourou Kawa o Hanato mité Orarénou mizou ni Sodé ya Norénamou._ La quale _outa_ vuol dire: «Per cogliere i fiori di prugno, i cui colori agita l'acqua, io mi son chinata verso l'acqua; ma, ahimè!, io non ho colto i fiori e la mia manica è tutta bagnata.» Nella mia _occidentale_ la frequenza della rima e il ritmo troppo accentuato tolgono alla strofa gran parte del suo carattere primitivo. DONNA FRANCESCA, VIII, _pagina 241_. Alcune particolarità descrittive di questa poesía sono tratte dal _Tentation de Saint Antoine_ di Gustavo Flaubert. E la poesía in sè non ha nemmen l'ombra d'una intenzione antireligiosa; ma è una semplice e pura ed anche, se si vuole, oziosa esercitazione di stile e di metrica. DONNA FRANCESCA, X, _pagina 243_. Fra Bartolomeo Della Porta, domenicano di San Marco, uno dei più singolari artefici del Rinascimento fiorentino, soleva, prima di cercar le pieghe delle vesti per le sue figure sacre, disegnare i corpi nudi dal vero. La pittura di cui si parla è una tavola che gli fu allogata da Piero Soderini per la sala del Consiglio, «nella quale sono tutti e' protettori della città di Fiorenza, e que' Santi che nel giorno loro la città ha aute le sue vittorie», come porta il Vasari. La Galleria delli Uffici possiede alcuni bellissimi disegni che il Frate fece per la detta tavola. Uno di quei disegni (n. 1204), eseguito a penna, rappresenta nude le figure comprese nella parte inferiore della composizione; e tra le figure è la Vergine assisa con su le ginocchia il bambino Gesù. DONNA FRANCESCA, XII, _pagina 245_. La miniatura del _Breviario_ del cardinal Grimani, attribuita al Memling, rappresenta li angeli che offrono a Dio l'anime de' nuovi eletti. È del quattrocento; e si trova a Venezia, nella Biblioteca di San Marco. A GIUSEPPE CELLINI, II, _pagina 277_. Il _fresco_ di Sandro Botticelli, raffigurante Giovanna Tornabuoni e le tre Grazie, si trova ora nel Museo del Louvre, guasto in più parti. È, come quasi tutte le opere di quel meraviglioso pittore, d'una straordinaria bellezza. INDICE PROLOGO pag. 9 IL LIBRO D'ISAOTTA Sonetto liminare » 19 Il dolce grappolo » 21 Ballata d'Astíoco e di Brisenna » 33 Isaotta nel bosco » 39 Sonetto d'aprile » 57 Ballata delle donne sul fiume » 63 Ballata e sestina di commiato » 71 SONETTI DELLE FATE A Giuseppe Cellini » 83 Eliana » 84 Mirinda » 85 Melusina » 86 Grasinda » 87 Morgana » 88 Oriana » 89 Oriana infedele » 90 SONETTI D'EBE Il cavaliere della morte » 95 Il fiume » 96 Il canto » 101 Similitudine » 102 Sogno d'una notte di primavera » 103 L'adorazione » 104 RURALI Via Sacra » 109 Per la messe » 110 La madre » 113 I seminatori » 114 Il pomo » 115 La vendemmia » 118 La neve » 120 BOOZ ADDORMENTATO » 121 IDILLII L'andrógine » 135 L'esperimento » 136 «Hyla! Hyla!» » 138 Vas spirituale » 140 L'alunna » 142 Diana inerme » 145 INTERMEZZO MELICO Romanza » 153 Romanza » 155 Romanza » 156 Romanza » 159 Romanza » 161 Romanza » 162 Romanza » 164 Romanza » 166 Rondò pastorale » 168 Rondò » 173 Romanza » 174 Rondò » 176 Rondò » 177 Romanza » 178 Rondò » 180 Romanza » 181 Romanza » 184 Outa occidentale » 186 Lai » 189 Rondò » 191 DONNE Nympha ludovisia » 197 Viviana » 198 Gorgon » 201 Athenais Medica » 211 Donna Francesca » 221 Donna Clara » 247 Invito alla caccia » 259 EPILOGO A F. P. Michetti » 269 EPODO A Giuseppe Cellini » 277 Rileggendo Omero » 280 NOTE » 283 Compiuto il 23 dicembre 1886, nello Stabilimento tipografico del giornale _LA TRIBUNA_, in edizione di 1500 esemplari numerati a mano. --- Provided by LoyalBooks.com ---