I MISTERI DEL CASTELLO D'UDOLFO DI ANNA RADCLIFFE VOL. I MILANO _Oreste Ferrario_ Sotterranei Galleria Nuova, via Silvio Pellico, 6, scala n. 18 e Santa Margherita [Illustrazione: ... lacerò un fazzoletto per bendargli la piaga... _Cap. IV_] CAPITOLO I Sulle sponde della Garonna, nella provincia di Guienna, esisteva nell'anno 1584 il castello di Sant'Aubert: dalle sue finestre scoprivansi i ricchi e fertili paesi della Guienna, che si estendevano lungo il fiume, coronati da boschi, vigne ed oliveti. A mezzodì, la prospettiva era circoscritta dalla massa imponente dei Pirenei, le cui cime, or celate nelle nubi, ora lasciando scorgere bizzarre forme, si mostravano talvolta, nude e selvagge, in mezzo ai vapori turchinicci dell'orizzonte, e talora scoprivano le loro pendici, lungo le quali dondolavano grandi abeti neri, agitati dai venti. Spaventosi precipizi contrastavano colla ridente verzura de' prati e delle selve circostanti, e lo sguardo affaticato dall'aspetto di quelle voragini, si riposava alla vista degli armenti e delle capanne dei pastori. Le pianure della Linguadoca si estendevano a tiro di occhio a tramontana ed a levante, e l'orizzonte confondevasi a ponente colle acque del golfo di Guascogna. Sant'Aubert, accompagnato dalla sposa e dalla figlia, andava spesso a passeggiare sulle sponde della Garonna; egli si compiaceva di ascoltare il mormorio armonioso delle sue acque. Aveva altre volte conosciuto un altro genere di vivere ben diverso da questa vita semplice e campestre; aveva a lungo vissuto nel vortice del gran mondo, ed il quadro lusinghiero della specie umana, formatosi dal suo giovine cuore, aveva subìto le tristi alterazioni dell'esperienza. Nondimeno, la perdita delle sue illusioni non aveva nè scosso i suoi principii, nè raffreddata la sua benevolenza: aveva abbandonata la società piuttosto con pietà che con collera, e si era limitato per sempre al dolce godimento della natura, ai piaceri innocenti dello studio, ed in fine all'esercizio delle domestiche virtù. Discendeva da un cadetto d'illustre famiglia; ed i suoi genitori avrebbero desiderato che, per riparare alle ingiurie della fortuna, egli avesse ricorso a qualche ricco partito, o tentato d'innalzarsi colle mene dell'intrigo. Per questo ultimo progetto, Sant'Aubert aveva troppo onore e troppa delicatezza; e, quanto al primo, non aveva bastante ambizione per sacrificare all'acquisto delle ricchezze ciò ch'esso chiamava felicità. Dopo la morte del padre sposò una fanciulla amabile, eguale a lui per nascita, non meno che pei beni di fortuna. Il lusso e la generosità di suo padre avevano talmente oberato il patrimonio ricevuto in retaggio, che fu costretto di alienarne porzione. Qualche anno dopo il suo matrimonio, lo vendè a Quesnel, fratello di sua moglie, e si ritirò in una piccola terra di Guascogna, dove la felicità coniugale ed i doveri paterni dividevano il suo tempo colle delizie dello studio e della meditazione. Da lunga pezza questo luogo eragli caro; vi era venuto spesso nella sua infanzia, e conservava ancora l'impressione dei piaceri ivi gustati; non aveva obliato nè il vecchio contadino incaricato allora d'invigilare sopra di lui, nè i suoi frutti, nè la sua crema, nè le di lui carezze. Que' verdi prati, ove, pieno di salute, di gioia e di gioventù, aveva scherzato tanto in mezzo ai fiori; i boschi, la cui fresca ombra aveva inteso i suoi primi sospiri, e mantenuta la sua riflessiva malinconia, che divenne in seguito il tratto dominante del suo carattere; le passeggiate agresti pe' monti, i fiumi che aveva traversato, le pianure vaste e immense come la speranza dell'età giovanile! Sant'Aubert non si rammentava se non con entusiasmo e con rincrescimento questi luoghi abbelliti da tante rimembranze. Alla perfine, sciolto dal mondo venne a fissarvi il suo soggiorno ed a realizzare così i voti di tutta la sua vita. Il castello, nello stato d'allora, era molto ristretto; un forestiero ne avrebbe ammirato senza dubbio l'elegante semplicità e la bellezza esteriore; ma vi abbisognavano lavori considerevoli per farne l'abitazione d'una famiglia. Sant'Aubert aveva una specie di affezione per quella parte d'edificio che aveva conosciuta il passato; e non volle mai che ne fosse alterata una sol pietra, dimodochè la nuova costruzione, adattata allo stile dell'antica, fece del tutto una dimora più comoda che ricercata. L'interno, abbandonato alle cure della signora Sant'Aubert, le somministrò occasione di mostrare il suo gusto; ma la modestia che caratterizzava i suoi costumi, le fu sempre di guida negli abbellimenti da lei prescritti. La biblioteca occupava la parte occidentale del castello, ed era piena delle migliori opere antiche e moderne. Questo appartamento guardava su di un boschetto che, piantato lungo un dolce clivo, conduceva al fiume, ed i cui alti e grossi alberi formavano un'ombra folta e misteriosa. Dalle finestre si scopriva, al disopra delle pergole, il ricco paese che estendevasi all'occidente, e si scorgevano a sinistra gli orribili precipizi dei Pirenei. Vicino alla biblioteca eravi un terrazzo munito di piante rare e preziose. Lo studio della botanica era uno dei divertimenti di Sant'Aubert, ed i monti vicini, che offrono tanti tesori ai naturalisti, lo trattenevano spesso giornate intiere. Nelle sue gite, veniva qualche volta accompagnato da sua moglie, e talvolta dalla figlia: un panierino di vimini per riporvi le piante, un altro pieno di qualche alimento, che non si sarebbe potuto trovare nelle capanne dei pastori, formavano il loro equipaggio; scorrevano così i luoghi più selvaggi, le vedute più pittoresche, e la loro attenzione non era concentrata totalmente nello studio delle menome opere della natura, che non permettesse loro d'ammirarne egualmente le bellezze grandi e sublimi. Stanchi di scavalcar rupi, ove pareano essere stati condotti dal solo entusiasmo, e dove non si scorgevano sul musco altre orme fuor quelle del timido camoscio, cercavano essi un ricovero in que' bei templi di verzura, nascosti in seno delle montagne. All'ombra de' larici e degli alti pini, gustavano di una refezione frugale, bevendo l'acque di una sorgente vicina, e respiravano con delizia gli effluvi delle varie piante smaltanti la terra, o pendenti a festoni dagli alberi e dalle rupi. A sinistra del terrazzo, e verso le pianure della Linguadoca, eravi il gabinetto di Emilia, benissimo assortito di libri, di disegni, di strumenti musicali, di qualche garrullo uccelletto e di fiori i più ricercati; quivi, occupata nello studio delle belle arti, essa le coltivava con successo, giacchè molto convenivano al gusto ed al carattere di lei. Le sue naturali disposizioni secondate dalle istruzioni dei genitori, avevano facilitato i suoi rapidi progressi. Le finestre di questa stanza si aprivano fino al suolo sul giardino che circondava la casa; e viali di mandorli di fichi, di acacie e di mirti fioriti, conducevano assai lungi la vista fino ai verdi margini irrigati dalla Garonna. I contadini di questo bel clima, finiti i lavori, venivano spesso verso sera a ballare sulle sponde del fiume. Il suono animato della musica, la vivacità dei loro passi il brio delle movenze, il gusto ed il capriccioso abbigliamento delle villanelle, dava a tutta questa scena un carattere interessantissimo. La facciata del castello, dalla parte di mezzogiorno, era situata di fronte alle montagne. Al pian terreno eravi una gran sala e due comodi salotti. Il pian superiore, chè eravene un solo, era distribuito in camere da letto, meno una sola stanza, munita d'un largo verone, ove si faceva ordinariamente la colazione. Nell'aggiustamento esterno, l'affezione di Sant'Aubert per il teatro della sua infanzia, aveva talvolta sacrificato il gusto al sentimento. Due vecchi larici ombreggiavano il castello, e ne impedivano alquanto la vista; ma Sant'Aubert diceva qualche volta, che se li vedesse seccare, avrebbe forse la debolezza di piangerli. Piantò vicino a questi larici un boschetto di faggi, di pini e di frassini alpini; su di un alto terrazzo, al disopra del fiume, eranvi parecchi aranci e limoni, i cui frutti, maturando tra i fiori, esalavano nell'aere un ammirabile e soave profumo. Unì loro alcuni alberi d'un'altra specie, e colà, sotto un folto platano le cui frondi stendevansi fino sul fiume, amava sedere nelle belle sere estive tra la consorte ed i figliuoli. Traverso il fogliame vedeva il sole tramontar nel lontano orizzonte, ne scorgeva gli ultimi raggi risplendere, venir meno e confondere a poco a poco i purpurei riflessi colle tinte grige del crepuscolo. Ivi pure amava egli leggere e conversare colla moglie, a far giuocare i figliuoletti, ad abbandonarsi ai dolci affetti, compagni consueti della semplicità e della natura. Spesso pensava, colle lagrime agli occhi, come que' momenti fossero le cento volte più soavi de' piaceri rumorosi e delle tumultuose agitazioni del mondo. Il suo cuore era contento; chè avea il raro vantaggio di non desiderar maggior felicità di quella onde fruiva. La serenità della coscienza comunicavasi alle sue maniere, e, per uno spirito come il suo, dava incanto alla stessa felicità. La caduta totale del giorno non lo allontanava dal suo platano favorito; amava quel momento in cui gli ultimi chiarori si spengono, in cui le stelle vengono a scintillare l'una dopo l'altra nello spazio, e a riflettersi nello specchio delle acque; istante patetico e dolce, in cui l'anima delicata schiudesi ai più teneri sentimenti, alle contemplazioni più sublimi. Quando la luna, cogli argentei raggi, traversava il fronzuto fogliame, Sant'Aubert restava ancora; e spesso si faceva portare, sotto quell'albero a lui caro, i latticini ed i frutti che componevano la sua cena. Allorchè la notte faceasi più cupa, l'usignuolo cantava, ed i di lui armoniosi accenti risvegliavangli nel fondo dell'anima una dolce malinconia. La prima interruzione della felicità che aveva conosciuta nel suo ritiro, fu cagionata dalla perdita di due maschi: essi morirono in quell'età in cui le grazie infantili hanno tanta vaghezza; e sebbene, per non affliggere soverchiamente la sposa, egli avesse moderata l'espressione del suo dolore, e si fosse sforzato di sopportarlo con fermezza, non aveva filosofia bastante da reggere alla prova di simile sciagura. Una figlia era ormai la sua unica prole. Invigilò attentamente sullo sviluppo del di lei carattere, e si occupò del continuo a mantenerla nelle disposizioni più adatte a formarne la felicità. Ella aveva annunziato fin dall'infanzia una rara delicatezza di spirito, affezioni vive ed una docile benevolenza; ma lasciava travedere nondimeno troppa suscettività per godere di una pace durevole: avanzandosi alla pubertà, questa sensibilità diede un tuono riflessivo ai suoi pensieri, e una dolcezza alle maniere, che, aggiungendo grazia alla beltà, la rendevano molto più interessante alle persone che l'avvicinavano. Ma Sant'Aubert aveva troppo buon senso per preferire le attrattive alla virtù; egli era troppo avveduto per non sapere quanto queste siano pericolose a chi le possiede, e non poteva esserne molto contento. Procurò dunque di fortificare il di lei carattere, di suefarla a signoreggiare le inclinazioni ed a sapersi dominare: le insegnò a non cedere tanto facilmente alle prime impressioni, e a sopportare con calma le infinite contrarietà della vita. Ma per insegnarle a vincere sè medesima, ed a prendere quel grado di dignità tranquilla, che sol può domare le passioni, e innalzarci al disopra dei casi e delle disgrazie, aveva bisogno egli stesso di qualche coraggio, e non senza grande sforzo parea vedere tranquillamente le lacrime ed i piccoli disgusti, che la sua previdente sagacità cagionava talvolta ad Emilia. Questa interessante fanciulla somigliava alla madre; ne aveva la statura elegante, i delicati lineamenti; aveva al par di lei, gli occhi azzurri, languidi ed espressivi; ma per quanto belle ne fossero le fattezze, l'espressione però della sua fisonomia, mobile come gli oggetti che la colpivano, dava soprattutto al di lei volto un'attrattiva irresistibile. Sant'Aubert coltivò il suo spirito con estrema cura. Le comunicò una tintura delle scienze, ed una esatta cognizione della più squisita letteratura. Le insegnò il latino e l'italiano, desiderando che potesse leggere i sublimi poemi scritti in queste due lingue. Annunziò essa, fino dai primi anni, un gusto deciso per le opere di genio, a questi principii aumentavano il diletto e la soddisfazione di Sant'Aubert.--Uno spirito coltivato,--diceva egli,--è il miglior preservativo al contagio del vizio e delle follie: uno spirito vuoto ha sempre bisogno di divertimenti, e s'immerge nell'errore per evitare la noia. Il movimento delle idee, forma, della riflessione, una sorgente di piaceri, e le osservazioni fornite dal mondo medesimo, compensano i pericoli delle tentazioni ch'esso offre. La meditazione e lo studio sono necessarie alla felicità, tanto in campagna quanto in città; in campagna esse prevengono i languori di un'apatia indolente, e somministrano nuovi godimenti pel gusto e l'osservazione delle grandi cose; in città, esse rendono la distrazione meno necessaria, e per conseguenza meno pericolosa.-- La di lei passeggiata favorita era una peschiera situata in un boschetto vicino, sulla riva di un ruscello, che, scendendo dai Pirenei, spumava a traverso gli scogli, e fuggiva in silenzio sotto l'ombra degli alberi; da questo sito si scuoprivano fra le fronzute selve, i più bei siti dei paesi circonvicini; l'occhio si smarriva in mezzo alle eccelse rupi, alle umili capanne dei pastori, ed alle vedute ridenti lungo il fiume: in questo luogo delizioso si recava bene spesso anche Sant'Aubert e sua madre a godere il rezzo ne' calori estivi, e verso sera, all'ora del riposo, ci veniva a salutare il silenzio e l'oscurità, ed a prestar ascolto ai queruli canti della tenera Filomela; talvolta ancora portava la musica; l'eco svegliavasi al suono dell'oboe, e la voce melodiosa di Emilia addolciva i lievi zeffiri che ricevevan e portavano lunge da lei la sua espressione ed i suoi accenti. Un giorno, Emilia lesse in un canto del tavolato i versi seguenti scritti col lapis: Ingenui figli del sentir più puro Che sì poco spiegate il mio dolore, Versi miei, se avverrà che in questo oscuro Sacro alla pace taciturno orrore Un oggetto gentil mai si presenti, L'amor mio gli narrate e i miei tormenti. Quel dì che nel mio core il suo sembiante Le amorose destò prime scintille, Ah! fatal giorno! ahi sventurato amante! Contro il vivo fulgor di sue pupille Indifeso mi stava e senza tema Della vaga di lor possanza estrema. E ripiena d'angelico diletto Già sentia palpitar l'alma nel seno: Ma l'inganno svanì; l'amato oggetto Da me volse le piante in un baleno, E lasciommi in partir tutti i più forti D'invincibile amor crudi trasporti. Questi versi non erano indirizzati ad alcuno: Emilia non poteva applicarli a sè medesima, sebbene fosse, senza alcun dubbio, la ninfa di quelle boscaglie: ella scorse rapidamente il circolo ristretto delle sue conoscenze, senza poterne fare l'applicazione, e restò nell'incertezza: incertezza molto meno penosa per lei, di quello sarebbe stata per uno spirito più ozioso, non avendo occasione di occuparsi a lungo d'una bagattella, e d'esagerarne l'importanza pensandovi del continuo. L'incertezza, che non le permetteva di supporre che quei versi le fossero indirizzati, non l'obbligava neppure di adottare l'idea contraria; ma il piccolo moto di vanità da lei sentito non durò molto, e ben presto lo dimenticò per i suoi libri, i suoi studi e le sue buone opere. Poco tempo dopo, la sua inquietudine fu eccitata da un'indisposizione del padre; esso fu colto dalla febbre, che, senza essere molto pericolosa, non mancò di dare una scossa sensibile al di lui temperamento. La signora Sant'Aubert e sua figlia lo assistettero con molta premura, ma la sua convalescenza fu lenta, e mentre egli ricuperava la salute, la di lui sposa perdeva la sua. Appena fu ristabilito, la prima visita fu alla peschiera: un paniere di provvisioni, i libri, ed il liuto di Emilia vi furono mandati dapprima; della pesca non se ne parlava, perchè Sant'Aubert non prendeva verun piacere alla distruzione degli esseri viventi. Dopo un'ora di passeggio e di ricerche botaniche, fu servito il pranzo: la soddisfazione provata pel piacere di rivedere ancora quel luogo favorito, riempì i commensali del più dolce sentimento: la cara famiglia parea ritrovare la felicità sotto quelle ombre beate. Sant'Aubert discorrea con singolar allegria: ogni oggetto ne rianimava i sensi; l'amabile frescura, il diletto che si prova alla vista della natura dopo i patimenti d'una malattia ed il soggiorno di una camera da letto, non ponno del certo nè comprendersi, nè descriversi nello stato di perfetta salute; la verzura delle selve e de' pascoli, la varietà de' fiori, l'azzurra vôlta de' cieli, l'olezzo dell'aere, il lene murmure delle acque, il ronzio de' notturni insetti, tutto sembra allora vivificar l'anima e dar pregio all'esistenza. La Sant'Aubert, rianimata dalla gaiezza e dalla convalescenza dello sposo, obliò la sua indisposizione personale: passeggiò pe' boschi, e visitò le situazioni deliziose di quel ritiro: conversava essa col marito e colla figlia, e riguardavali spesso con un grado di tenerezza che le faceva versar lagrime. Sant'Aubert, accortosene, le rimproverò teneramente la sua emozione: ella non potè che sorridere, stringere la di lui mano, quella di Emilia, e piangere davvantaggio. Sentì egli che l'entusiasmo del sentimento le diveniva quasi penoso; una trista impressione s'impadronì dei suoi sensi, e gli sfuggirono sospiri.--Forse, diceva tra sè, forse questo momento è il termine della mia felicità, come ne è il colmo; ma non abbreviamolo con dispiaceri anticipati; speriamo che non avrò sfuggita la morte per avere da piangere io stesso i soli esseri interessanti che me la fanno temere.-- Per uscire da questi cupi pensieri, o forse piuttosto per intrattenervisi, pregò Emilia di andar a cercare il liuto, e suonargli qualche bel pezzo di tenera musica. Nell'avvicinarsi alla peschiera, essa fu sorpresa di sentire le corde del suo strumento toccate da una mano maestra, ed accompagnata da un canto lamentevole, che cattivò la di lei attenzione. Ascoltò in profondo silenzio, temendo che un indiscreto movimento non la privasse d'un suono o non interrompesse il suonatore. Tutto era tranquillo nel padiglione, e non sembrando che ci fosse alcuno, ella continuò ad ascoltare; ma finalmente la sorpresa e il diletto fecero luogo alla timidezza; questa aumentò pella rimembranza dei versi scritti a matita, da lei già veduti, e titubò se doveva o no ritirarsi all'istante. Nell'intervallo, la musica cessò; Emilia riprese coraggio, e si avanzò, sebben tremando, verso la peschiera, ma non ci vide nessuno: il liuto giaceva sul tavolino, e tutto il resto stava come ce lo aveva lasciato. Emilia principiò a credere di avere inteso un altro istrumento, ma si ricordò benissimo di aver lasciato, nel partire, il suo liuto vicino alla finestra; si sentì agitata senza saperne il motivo; l'oscurità, il silenzio di quel luogo, interrotto sol dal lievissimo tremolio delle foglie, aumentò il suo timore infantile; volle uscire, ma si accorse che si indeboliva, e fu obbligata a sedere; mentre procurava di riaversi, i suoi occhi incontraron di nuovo i versi scritti col lapis; sussultò come se avesse veduto uno straniero, poi sforzandosi di vincere il terrore, alzossi e si avvicinò alla finestra; altri versi erano stati aggiunti ai primi, e questa volta il suo nome ne formava il soggetto. Non le fu più possibile di dubitare che l'omaggio non fosse a lei diretto, ma non le fu meno impossibile d'indovinarne l'autore: mentre ci pensava, sentì il romore di qualche passo dietro l'edifizio; spaventata, prese il liuto, fuggì ed incontrò i genitori in un sentieruzzo lungo la radura. Salirono tutti insieme sopra un poggetto coperto di fichi, d'onde si godeva il più bel punto di vista delle pianure e delle valli della Guascogna: sedettero sull'erba, e mentre i loro sguardi abbracciavano il grandioso spettacolo, respiravano in riposo i dolci profumi delle piante sparse in quel luogo incantevole. Emilia ripetè le canzoni più gradite ai genitori, e l'espressione con cui le cantò ne raddoppiò il diletto. La musica e la conversazione ve li trattennero fino all'imbrunire: i candidi veli che segnavan di sotto a' monti il veloce corso della Garonna avean cessato d'esser visibili; era un'oscurità più malinconica che trista. Sant'Aubert e la sua famiglia si alzarono lasciando con dispiacere quel sito. Ahimè! La signora Sant'Aubert ignorava come non dovesse ritornarvi mai più! Giunta alla peschiera, essa si accorse di aver perduto un braccialetto, che si era tolto pranzando, ed avea lasciato sulla tavola, nell'andare al passeggio. Fu cercato con molta premura, specialmente da Emilia, ma invano, e convenne rinunziarvi. La Sant'Aubert aveva in gran pregio questo braccialetto, perchè conteneva il ritratto di sua figlia; e questo ritratto, fatto da poco, era di perfettissima somiglianza. Quando Emilia fu certa di tal perdita, arrossì, e divenne pensierosa. Un estraneo si era adunque introdotto nella peschiera in loro assenza; il liuto smosso ed i versi letti non le permettevano di dubitarne: si poteva dunque concludere con fondamento, che il poeta, il suonatore ed il ladro erano la medesima persona. Ma sebbene que' versi, la musica ed il furto del ritratto formassero una combinazione notevole, Emilia si sentì irresistibilmente aliena dal farne menzione, e si propose soltanto di non visitare più la peschiera senza essere accompagnata da qualcuno dei genitori. Nel tornare a casa, la fanciulla pensava a quanto le era accaduto; Sant'Aubert si abbandonava al più dolce godimento, contemplando i beni che possedeva. La sua sposa era conturbata ed afflitta dalla perdita del ritratto; avvicinandosi a casa, distinsero un romore confuso di voci e di cavalli; parecchi servi traversarono i viali, ed una carrozza a due cavalli arrivò nello stesso punto davanti la porta d'ingresso del castello. Sant'Aubert riconobbe la livrea del cognato, e trovò difatti i coniugi Quesnel nel salotto. Essi mancavano da Parigi da pochissimi giorni, e recavansi alle loro terre distanti dieci leghe dalla valle, Sant'Aubert gliele aveva vendute da qualche anno. Quesnel era l'unico fratello della moglie di Sant'Aubert; ma la diversità di carattere avendo impedito di rafforzare i loro vincoli, la corrispondenza tra essi non era stata molto sostenuta. Quesnel si era introdotto nel gran mondo; amava il fasto, e mirava a divenire qualcosa d'importante; la sua sagacità, le sue insinuazioni avevano quasi ottenuto l'intento. Non è dunque da stupire se un uomo tale non sapesse apprezzare il gusto puro, la semplicità e la moderazione di Sant'Aubert, e non vi ravvisasse se non se picciolezza di spirito e totale incapacità. Il matrimonio di sua sorella aveva mortificato assai la sua ambizione, essendosi lusingato ch'essa avrebbe formato un parentado più adatto a servire ai suoi progetti. Egli aveva ricevute proposte confacentissime alle sue speranze; ma la sorella, che a quell'epoca venne richiesta da Sant'Aubert, si accorse, o credè accorgersi, che la felicità e lo splendore non erano sempre sinonimi, e la sua scelta fu presto fatta. Qualunque fossero le idee di Quesnel a tal proposito, egli avrebbe sacrificato volentieri la quiete della sorella all'innalzamento della propria fortuna; e quand'essa si maritò, non potè dissimularle il suo disprezzo per i di lei principii, e per l'unione ch'essi determinavano. La Sant'Aubert nascose l'insulto allo sposo, ma per la prima volta, forse, concepì qualche risentimento. Conservò la sua dignità, e si condusse con prudenza; ma il di lei riservato contegno avverti abbastanza Quesnel di ciò ch'ella sentiva. Nell'ammogliarsi, egli non seguì l'esempio della sorella; la sua sposa era un'Italiana, ricchissima erede; ma il costei naturale e l'educazione ne facevano una persona frivola quanto vana. Si erano prefissi di passare la notte in casa di Sant'Aubert, e siccome il castello non bastava ad alloggiare tutti i domestici, furono mandati al vicino villaggio. Dopo i primi complimenti e le disposizioni necessarie, Quesnel cominciò a parlare delle sue relazioni ed amicizie. Sant'Aubert, il quale aveva vissuto abbastanza nel ritiro e nella solitudine perchè questo soggetto gli paresse nuovo, lo ascoltò con pazienza ed attenzione, ed il suo ospite credè ravvisarvi umiltà e sorpresa insieme. Descrisse vivamente il piccolo numero di feste, che le turbolenze di quei tempi permettevano alla corte di Enrico III, e la sua esattezza compensava l'arroganza: ma quando arrivò a parlare del duca di Joyeuse, di un trattato segreto, ond'egli conosceva le negoziazioni colla Porta, e del punto di vista sotto al quale Enrico di Navarra era veduto alla corte, Sant'Aubert richiamò l'antica esperienza, e si convinse facilmente che il cognato tutto al più poteva tenere l'ultimo posto alla corte; l'imprudenza dei suoi discorsi non poteva conciliarsi colle sue pretese cognizioni: pure Sant'Aubert non volle mettersi a discutere, sapendo troppo bene che Quesnel non aveva nè sensibilità, nè criterio. La Quesnel, nel frattempo, esprimeva il suo stupore alla Sant'Aubert sulla vita trista che menava, diceva essa, in un cantuccio così remoto. Probabilmente, per eccitare l'invidia, si mise poscia a narrare le feste da ballo, i pranzi, le veglie ultimamente date alla corte, e la magnificenza delle feste fatte in occasione delle nozze del duca di Joyeuse con Margherita di Lorena, sorella della regina; descrisse colla stessa precisione e quanto aveva veduto, e quanto non erale stato concesso di vedere. La fervida immaginazione di Emilia accoglieva que' racconti coll'ardente curiosità della gioventù, e la Sant'Aubert, considerando la figlia colle lacrime agli occhi, comprese che se lo splendore accresce la felicità, la sola virtù però può farla nascere. Quesnel disse al cognato: «Sono già dodici anni che ho comprato il vostro patrimonio.--All'incirca,» rispose Sant'Aubert, reprimendo un sospiro.--Sono ormai cinque anni che non vi sono stato,» riprese Quesnel; «Parigi ed i suoi dintorni sono l'unico luogo ove si possa vivere; ma d'altra parte, io sono talmente occupato, talmente versato negli affari, ne sono tanto oppresso, che non ho potuto senza grandissima difficoltà, ottenere di assentarmi per un mese o due.» Sant'Aubert non diceva nulla, e Quesnel seguitò: «Sonomi maravigliato spesso, che voi, assuefatto a vivere nella capitale, voi, che siete avvezzo al gran mondo possiate dimorare altrove, sopratutto in un paese come questo, ove non si sente parlare di nulla, e dove si sa appena di esistere.--Io vivo per la mia famiglia e per me,» disse Sant'Aubert; «mi contento in oggi di conoscere la felicità, mentre anch'io per lo passato ho conosciuto il mondo. --Ho deciso di spendere nel mio castello trenta o quarantamila lire in abbellimenti,» soggiunse Quesnel, senza badare alla risposta del cognato; «mi son proposto di farci venire i miei amici nella prossima estate. Il duca di Durfort, il marchese di Grammont spero che mi onoreranno della loro presenza per un mese o due.» Sant'Aubert l'interrogò su' suoi progetti di abbellimento; si trattava di demolire l'ala destra del castello per fabbricarvi le scuderie. «Farò in seguito,» aggiunse egli, «una sala da pranzo, un salotto, un tinello, e gli alloggi per tutti i domestici, poichè adesso non ho da allogarne la terza parte. --Tutti quelli di mio padre vi alloggiavano comodamente,» riprese Sant'Aubert, rammentandosi con dispiacere l'antica abitazione, «ed il di lui seguito era pur numeroso. --Le nostre idee si sono un po' ingrandite,» disse Quesnel; «ciò ch'era decente in quei tempi, or non parrebbe più sopportabile.» Il flemmatico Sant'Aubert arrossì a tai parole, ma l'ira fe' presto luogo al disprezzo. «Il castello è ingombro d'alberi,» soggiunse Quesnel, «ma io conto di dargli aria. --E che! voi vorreste tagliare gli alberi? --Certo, e perchè no? essi impediscono la vista; c'è un vecchio castagno che stende i rami su tutta una parte del castello, e cuopre tutta la facciata dalla parte di mezzogiorno; lo dicono così vecchio, che dodici uomini starebbero comodamente nel suo tronco incavato: il vostro entusiasmo non giungerà fino a pretendere che un vecchio albero inutilissimo abbia la sua bellezza od il suo uso. --Buon Dio!» sclamò Sant'Aubert; «voi non distruggerete quel maestoso castagno, che esiste da tanti secoli, e fa l'ornamento della terra! Era già grosso quando fu fabbricata la casa; da giovine io mi arrampicava spesso su' di lui rami più alti; nascosto tra le sue foglie, la pioggia poteva cadere a diluvio, senza che una sola goccia d'acqua mi toccasse: quante ore vi ho passate con un libro in mano! Ma perdonatemi,» continuò egli rammentandosi che non era inteso, «io parlo del tempo antico. I miei sentimenti non sono più di moda, e la conservazione di un albero venerabile non è, al par d'essi, all'altezza de' tempi odierni. --Io lo atterrerò per certo,» disse Quesnel, «ma in sua vece potrò ben piantare qualche bel pioppo d'Italia fra i castagni che lascierò nel viale. La signora Quesnel ama molto i pioppi, e mi parla spesso della casa di suo zio nei dintorni di Venezia, ove questa piantagione fa un effetto superbo. --Sulle sponde della Brenta,» rispose Sant'Aubert, «ove il suo fusto alto e diritto si sposa ai pini, a' cipressi, e pompeggia intorno a portici eleganti e svelti colonnati, deve effettivamente adornare quei luoghi deliziosi, ma fra i giganti delle nostre foreste, accanto ad una gotica e pedante architettura! --Questo può essere, caro signor mio,» disse Quesnel, «io non voglio disputarvelo. Bisogna che voi ritorniate a Parigi, prima che le nostre idee possano avere qualche rapporto. Ma, a proposito di Venezia, ho quasi voglia di andarci nella prossima estate. Può darsi ch'io diventa padrone della casa di cui vi parlava, e che dicono bellissima. In tal caso rimetterò i miei progetti di abbellimento all'anno venturo, e mi lascierò trascinare a passare qualche mese di più in Italia.» Emilia restò alquanto sorpresa nell'udirlo parlare in quei termini. Un uomo tanto necessario a Parigi, un uomo che poteva appena allontanarsene per un mese o due, pensar di andare in paese straniero, ed abitarvi per qualche tempo! Sant'Aubert conosceva troppo bene la di lui vanità per maravigliarsi di simile linguaggio, e vedendo la possibilità di una proroga per gli abbellimenti progettati, ne concepì la speranza di un totale abbandono. Prima di separarsi, Quesnel desiderò intertenersi in particolare col cognato; entrarono ambidue in un'altra stanza e vi restarono a lungo. Il soggetto del loro colloquio rimase ignoto; ma Sant'Aubert al ritorno parve molto pensieroso, e la tristezza dipinta sul suo volto allarmò assai la di lui consorte. Quando furono soli, essa fu entrata di chiedergliene il motivo; la delicatezza però la trattenne, riflettendo che se suo marito avesse creduto conveniente d'informarnela, non avrebbe aspettato le di lei domande. Il dì dopo, Quesnel partì dopo aver avuto un'altra conferenza con Sant'Aubert. Ciò accadde al dopo pranzo, e verso sera i nuovi ospiti si rimisero in viaggio per Epurville, ove sollecitarono i cognati di andarli a trovare, ma più nella lusinga di far pompa di magnificenza, che per desiderio di farne lor fruire le bellezze. Emilia tornò con delizia alla libertà statale tolta colla loro presenza. Ritrovò i suoi libri, le sue passeggiate, i discorsi istruttivi dei suoi genitori, ed anch'eglino godettero di vedersi liberati da tanta frivolezza ed arroganza. La Sant'Aubert non andò a fare la sua solita passeggiata, lagnandosi di un poco di stanchezza, ed il marito uscì colla figlia. Presero la strada dei monti. Il loro progetto era di visitar alcuni vecchi pensionati di Sant'Aubert. Una rendita modica gli permetteva simile aggravio, mentr'è probabile che Quesnel con tutti i suoi tesori non avrebbe potuto sopportarlo. Sant'Aubert distribuì i soliti benefizi ai suoi umili amici; ascoltò gli uni, consolò gli altri; li contentò tutti co' dolci sguardi della simpatia ed il sorriso dell'affabilità, e traversando con Emilia i sentieri ombrosi della selva, tornò seco lei al castello. La moglie era già ritirata nelle sue stanze; il languore e l'abbattimento che l'avevano oppressa, e che l'arrivo dei forestieri aveva sospeso, la colsero di nuovo, ma con sintomi più allarmanti. L'indomani si manifestò la febbre; il medico vi riconobbe il medesimo carattere di quella ond'era guarito Sant'Aubert; essa ne aveva ricevuto il contagio assistendo il marito: la sua complessione troppo debole non aveva potuto resistere: il male, insinuatosi nel sangue, l'aveva piombata nel languore. Sant'Aubert, spinto dalla inquietudine, trattenne il medico in casa; si rammentò i sentimenti e le riflessioni che avevano turbate le sue idee l'ultima volta ch'erano stati insieme alla peschiera; credè al presentimento, e temè tutto per la malata: riuscì non ostante a nascondere il suo turbamento, e rianimò la figlia, aumentandone le speranze. Il medico, interrogato da lui, rispose che, prima di pronunciarsi, dovea aspettare una certezza, non ancora da lui acquistata. L'inferma sembrava averne una meno dubbiosa, ma i suoi occhi soltanto potevano indicarla; essa li fissava spesso su' suoi con un'espressione mista di pietà e di tenerezza, come se avesse antiveduto il loro cordoglio, e sembrava non istare attaccata alla vita se non per cagione di essi e del loro dolore. Il settimo giorno fu quello della crisi; il medico prese un accento più grave; ella se ne accorse, e profittando di un momento ch'erano soli, l'accertò esser ella persuasissima della sua morte imminente. «Non cercate d'ingannarmi,» gli disse; «io sento che ho poco di vivere, e da qualche tempo son preparata a morire; ma poichè così è, una falsa compassione non v'induca a lusingare la mia famiglia; se lo faceste, la loro afflizione sarebbe troppo violenta all'epoca della mia morte; io mi sforzerò, coll'esempio, d'insegnar loro la rassegnazione ai voleri supremi.» Il medico s'intenerì, promise di obbedire, e disse un po' ruvidamente a Sant'Aubert che non bisognava sperare. La filosofia di questo sventurato non era tale da resistere alla prova di un colpo tanto fatale; ma riflettendo che un aumento di afflizione, nell'eccesso del suo dolore, avrebbe potuto aggravare maggiormente la consorte, prese forza bastante per moderarla alla di lei presenza. Emilia cadde svenuta, ma appena riprese l'uso dei sensi, ingannata dalla vivacità dei suoi desiderii, conservò fino all'ultimo momento la speranza della guarigione della madre. La malattia faceva rapidi progressi; la rassegnazione e la calma dell'inferma sembravano crescere con essa la tranquillità con cui attendeva la morte, nasceva da una coscienza pura, da una vita senza rimorsi, e per quanto poteva comportarlo l'umana fragilità, passata costantemente nella presenza di Dio e nella speme d'un mondo migliore; ma la pietà non poteva annientare il dolore che provava, lasciando amici tanto cari al suo cuore. Negli estremi momenti, parlò molto col marito e con Emilia sulla vita futura ed altri soggetti religiosi; la di lei rassegnazione, la ferma speranza di ritrovare nell'eternità i cari oggetti che abbandonava in questo mondo; lo sforzo che faceva per nascondere il dolore cagionatole dalla momentanea separazione, tutto contribuì ad affliggere siffattamente Sant'Aubert, che fu costretto ad uscire dalla camera. Pianse amare lagrime, ma in fine fece forza a sè stesso, e rientrò con una ritenutezza che non poteva se non accrescere il suo supplizio. In alcun tempo Emilia non aveva meglio conosciuto quanto fosse prudente di moderare la sua sensibilità, nè mai erasene occupata con tanto coraggio; ma dopo il momento terribile e funesto dovè cedere al peso del dolore, e comprese come la speranza al par della forza avessero concorso a sostenerla. Sant'Aubert era troppo afflitto egli stesso per poter consolare la figlia. CAPITOLO II La spoglia mortale della Sant'Aubert fu inumata nella chiesa del villaggio vicino; sposo e figlia accompagnarono il corteggio funebre, e furono seguiti da un numero prodigioso di abitanti, che piangevano tutti sinceramente la perdita dell'ottima donna. Ritornati dalla chiesa, Sant'Aubert si chiuse nella sua camera, e ne uscì colla serenità del coraggio e col pallore della disperazione; ordinò a tutte le persone che componevano la sua famiglia di riunirsi vicino a lui. La sola Emilia non compariva: soggiogata dalla scena lugubre ond'era stata testimone, erasi chiusa nel suo gabinetto per piangervi in libertà. Sant'Aubert l'andò a cercare; le prese la mano in silenzio, e le sue lacrime continuarono: egli stesso stentò molto a riacquistare la voce e la facoltà di esprimersi; finalmente disse tremando: «Cara Emilia, noi andiamo a pregare per l'anima della tua buona madre; non vuoi tu unirti a noi? Imploreremo il soccorso dell'Onnipotente: da chi possiamo noi attenderlo se non dal cielo?» Emilia trattenne le lacrime, e seguì il padre nel salotto ov'erano riuniti i domestici. Sant'Aubert lesse con voce sommessa l'uffizio dei morti, e vi aggiunse preghiere per l'anima dei defunti. Durante la lettura, gli mancò la voce, e le lacrime inondarono il libro; si arrestò, ma le sublimi emozioni d'una devozione pura innalzarono successivamente le sue idee al disopra di questo mondo, e versarono infine il balsamo della consolazione nel suo cuore. Finito l'uffizio, e ritirati i domestici, egli abbracciò teneramente la sua Emilia. «Mi sono sforzato,» le disse, «di darti fino dai primi anni un vero impero su te stessa, e te ne ho rappresentata l'importanza in tutta la condotta della vita; questa sublime qualità ci sostiene contro le più pericolose tentazioni del vizio, ci richiama alla virtù, e modera parimente l'eccesso delle emozioni più virtuose. Vi è un punto in cui esse cessano di meritare questo nome, se la loro conseguenza è un male; qualunque eccesso è vizioso; il dispiacere medesimo, sebbene amabile ne' suoi primordi, diviene una passione ingiusta, quando uno vi si abbandona a spese dei propri doveri. Per dovere io intendo parlare di ciò che si deve a sè stessi, al par di quello che si deve agli altri, un dolore smoderato infiacchisce l'anima, e la priva di quei dolci godimenti che un Dio benefico destina all'ornamento della nostra vita. Emilia cara, invoca, fa uso di tutti i precetti che hai da me ricevuti, e di cui l'esperienza ti ha così spesso dimostrato la saviezza... Il tuo dolore è inutile; non riguardare questa verità come un'espressione comune di consolazione, ma come un vero motivo di coraggio. Non vorrei soffocare la tua sensibilità, figlia mia, ma moderarne soltanto l'intensità. Di qualunque natura possano essere i mali, ond'è afflitto un cuore troppo tenero, non si deve sperar nulla da quello che non lo è. Tu conosci il mio dolore, sai se le mie parole sono di quei discorsi leggieri fatti a caso per arrestare la sensibilità nella sua sorgente, e il cui unico fine è di far pompa d'una pretesa filosofia. Ti dimostrerò, cara figlia, ch'io posso mettere in pratica i consigli che do. Ti parlo così, perchè non ti posso vedere, senza dolore, consumarti in lacrime superflue e non fare veruno sforzo per consolarti; non ti ho parlato prima, perchè avvi un momento in cui qualunque ragionamento deve cedere alla natura. Questo momento è passato, e quando lo si prolunga all'eccesso, la trista abitudine che si contrae, opprime lo spirito al punto di togliergli la sua elasticità, tu urti in questo scoglio, ma son persuaso che mi proverai col fatto di volerlo evitare.» Emilia, piangendo, sorrise al genitore. «O padre!» esclamò, e le mancò la voce. Avrebbe aggiunto senza dubbio: Io voglio mostrarmi degna del nome di vostra figlia. Ma un movimento misto di riconoscenza, di tenerezza e di dolore l'oppresse di nuovo: Sant'Aubert la lasciò piangere senza interromperla, e parlò di altre cose. La prima persona che venne a partecipare alla sua afflizione fu un certo Barreaux, uomo austero, e che sembrava insensibile; il gusto della botanica li aveva legati in amicizia, essendosi incontrati spesso sui monti. Barreaux erasi ritirato dal mondo, e quasi dalla società, per vivere in un bellissimo castello, all'ingresso de' boschi, e vicinissimo alla valle. Come Sant'Aubert, egli era stato crudelmente disingannato dall'opinione che aveva avuta degli uomini, ma, al par di lui, non si limitava ad affliggersene ed a compiangerli; sentiva più sdegno contro i loro vizi, che compassione per le loro debolezze. Sant'Aubert fu sorpreso nel vederlo. Lo aveva invitato spesso a venire a visitare la sua famiglia, senza avervelo mai potuto decidere; quel giorno venne senza riserva, ed entrò in casa come uno dei più intrinseci amici della famiglia. I bisogni della sventura parevano averne addolcita la ruvidezza e domati i pregiudizi. La desolazione di Sant'Aubert parve l'unica sua occupazione; le maniere, più che le parole, ne esprimevano la commozione: parlò poco del soggetto della loro afflizione, ma le sue attenzioni delicate, il suono della sua voce, e l'interesse dei suoi sguardi esprimevano il sentimento del suo cuore; e questo linguaggio fu benissimo inteso. A quell'epoca dolorosa, Sant'Aubert fu visitato dalla sua unica sorella, la signora Cheron, vedova da qualche anno, la quale abitava allora nelle proprie terre vicino a Tolosa. La loro corrispondenza era stata poco attiva: le espressioni non le mancarono però; ella non intendeva quella magia dello sguardo, che parla così bene all'anima, e quella dolcezza di accenti, che versa un balsamo salutare nei cuori afflitti e desolati. Assicurò il fratello che prendeva il più sincero interesse al suo dolore, lodò le virtù della sua sposa, ed aggiunse quanto immaginò di più consolante. Emilia non cessò dal piangere fin ch'essa parlò. Sant'Aubert fu più tranquillo, ascoltò in silenzio, e cambiò tenore di conversazione. Nel partire, la signora Cheron li pregò di andarla presto a trovare. «Il cambiamento di soggiorno vi distrarrà non poco,» diss'ella; «fate malissimo ad affliggervi tanto.» Suo fratello comprese la verità di queste parole, ma sentiva più ripugnanza di prima a lasciare un asilo consacrato alla sua felicità. La presenza della sposa aveva reso quei luoghi tanto interessanti per lui, che ogni giorno calmando l'amarezza del suo dolore, aumentava la vaghezza delle sue rimembranze. Egli aveva cionnonpertanto doveri da compiere, e di questo genere era una visita al cognato Quesnel; un affare importante non permetteva di differirla più a lungo, e desiderando d'altronde di scuotere Emilia dal suo abbattimento prese seco lei la strada d'Epurville. Quando la carrozza entrò nel bosco che circondava il suo antico patrimonio, e che scoprì il viale di castagni e le torricelle del castello, nel pensare agli avvenimenti trascorsi in quell'intervallo, e come il possessore attuale non sapesse nè apprezzare, nè rispettare un tanto bene, Sant'Aubert sospirò profondamente; alla fine, entrò nel viale, rivide quei grandi alberi, delizia della sua infanzia e confidenti della sua gioventù. A poco a poco il castello mostrò la sua massiccia grandezza. Rivide la grossa torre, la porta vôlta d'ingresso, il ponte levatoio, ed il fosso asciutto che circondava tutto l'edifizio. Il romore della carrozza chiamò una folla di servitori al cancello. Sant'Aubert scese, e condusse Emilia in una sala gotica; ma gli stemmi, le antiche insegne della famiglia non la decoravano più. Le travi, e tutto il legname di quercia del soffitto, erano stati tinti di bianco. La gran tavola, ove il feudatrio faceva pompa tutti i giorni della magnificenza e dell'ospitalità sua, dove il riso ed i lieti canti avevano così spesso rimbombato, questa tavola non esisteva più; le panche istesse che circondavano la sala, erano state tolte. Le grosse pareti non erano ricoperte che di frivoli ornamenti, i quali dimostravano quanto fosse gretto e meschino il gusto ed il sentimento del proprietario attuale. Sant'Aubert fu introdotto nel salotto da un elegante servitore parigino. I coniugi Quesnel lo ricevettero con fredda garbatezza, con qualche complimento alla moda, e parvero aver obliato totalmente di aver avuto una sorella. Emilia fu sul punto di versare lacrime, ma ne fu trattenuta da un giusto risentimento. Sant'Aubert, franco e tranquillo, conservò la sua dignità senza mostrare di avvedersene, e pose, in soggezione Quesnel; il quale non poteva spiegarsene il motivo. Dopo una conversazione generale, Sant'Aubert mostrò desiderio di parlargli da solo a solo. Emilia restò colla signora Quesnel, e fu tosto informata come per quel giorno istesso fosse stata invitata una società numerosa: essa fu costretta di sentirsi dire che una perdita irrimediabile non deve privare di verun piacere. Quando Sant'Aubert seppe di questo invito, sentì un misto di disgusto e d'indignazione per l'insensibilità di Quesnel, e fu quasi tentato di tornarsene al momento al suo castello; ma sentendo che, a suo riguardo, era stata invitata a venire anche la signora Cheron, e considerando che Emilia avrebbe potuto un giorno provare le conseguenze dell'inimicizia d'un simile zio, non volle esporvela; d'altra parte, la sua istantanea partenza sarebbe parsa senza dubbio poco conveniente a persone, che mostravano nondimanco un sì fiacco sentimento delle convenienze. Fra i convitati si trovavano due gentiluomini italiani, uno chiamato Montoni, parente lontano della signora Quesnel, dell'età circa quarant'anni, di ammirabile statura; avea fisonomia virile ed espressiva, ma in generale esprimeva la baldanza e l'alterigia, piuttosto che ogni altra disposizione. Il signor Cavignì, suo amico, non mostrava più di trent'anni. Era ad esso inferiore di nascita, ma non in penetrazione, e lo superava nel talento d'insinuarsi. Emilia fu piccata del modo con cui la Cheron parlò a suo padre. «Fratello mio,» gli diss'ella, «mi spiace di vedervi di così cattiva ciera; dovreste consultare qualche medico.» Sant'Aubert le rispose, con malinconico sorriso, che presso a poco stava come al solito; ed i timori di Emilia le fecero trovare il padre cambiato assai più che realmente nol fosse. Se Emilia fosse stata meno oppressa, si sarebbe divertita, la diversità dei caratteri della conversazione durante il pranzo, e la magnificenza istessa con cui fu servito, molto al di sopra di tutto quanto aveva veduto fin allora, non avrebbero senza dubbio mancato di svagarla. Montoni, recentemente giunto dall'Italia, raccontava le turbolenze e le fazioni che agitavano quel paese. Dipingeva con vivacità i diversi partiti; deplorava le probabili conseguenze di quegli orribili tumulti. Il suo amico parlava con altrettanto ardore della politica della sua patria; lodava il governo e la prosperità di Venezia, e vantava la di lei decisa superiorità su tutti gli altri Stati d'Italia; si rivolse in seguito alle signore, e parlò colla medesima eloquenza delle mode, degli spettacoli, delle affabili maniere dei Francesi, ed ebbe l'accortezza di far cadere il suo discorso su tutto ciò che poteva lusingare il gusto di quella nazione: l'adulazione non fu conosciuta da coloro cui era indirizzata, ma l'effetto però che produsse sulla loro attenzione non isfuggì alla sua perspicacia. Quando potè disimpegnarsi dalle altre signore, si rivolse ad Emilia; ma essa non conosceva nè le mode, nè i teatri parigini, e la sua modestia e semplicità, e le sue belle maniere contrastavano forte col tuono delle compagne. Dopo il pranzo, Sant'Aubert uscì solo per visitare ancora una volta il vecchio castagno, che Quesnel pensava distruggere. Riposando sotto quell'ombra, guardò attraverso le folte sue frondi, e scorse tra le foglie tremolanti l'azzurra vôlta de' cieli; gli avvenimenti della sua gioventù presentaronsegli tutti insieme alla fantasia. Si rammentò gli antichi amici, il loro carattere, e perfino le loro fattezze. Da molto tempo essi non esistevano più; gli parve essere anch'egli un ente quasi isolato, e la sua Emilia sola poteva fargli amare ancora la vita. Perduto nella folla delle immagini che gli presentava la sua memoria, giunse al quadro della moribonda sposa; sussultò, e volendo obliarla, se gli fosse stato possibile, tornò alla società. Sant'Aubert fece attaccare la carrozza di buonissim'ora; Emilia si accorse per via ch'era più taciturno è più abbattuto del solito; essa ne attribuì la cagione alle memorie ricordategli da quel luogo, nè sospettò il vero motivo d'un dolore ch'egli non le comunicava. Ritornati al castello, la di lei afflizione si rinnovò, e conobbe più che mai gli effetti della privazione di una madre tanto cara, che l'accoglieva sempre col sorriso e le più affabili carezze, dopo un'assenza anche momentanea. Or tutto era cupo e deserto. Ma ciò che ottener non possono nè la ragione, nè gli sforzi, l'ottiene il tempo. Scorsero le settimane, e l'orrore della disperazione si trasformò a poco a poco in un dolce sentimento che il cuore conserva, e gli diventa sacro. Sant'Aubert al contrario, s'indeboliva sensibilmente, sebbene Emilia, la sola persona che non lo abbandonasse mai, fosse l'ultima ad accorgersene. La sua complessione non si era ristabilita dall'urto ricevuto nella malattia, e la scossa che provò alla morte della moglie, determinò il suo estremo languore: il suo medico lo consigliò di viaggiare. Era visibile come i suoi nervi fossero stati fortemente attaccati dall'accesso del dolore; e si credeva che il cambiamento dell'aria ed il moto, calmandone lo spirito, potessero riescire a restituirgli l'antico vigore. Emilia si occupò quindi dei preparativi, e Sant'Aubert dei calcoli sulle spese del viaggio. Bisognò congedare i servi. Emilia, che si permetteva rare volte di opporre alla volontà del padre domande od osservazioni, avrebbe voluto non ostante sapere per qual motivo, nel suo stato infermiccio, egli non si riservasse almeno un servitore. Ma quando, la vigilia della partenza, si accorse che Giacomo, Francesco e Maria erano stati licenziati, e conservata soltanto Teresa, sua antica governante, ne fu estremamente sorpresa, ed arrischiò di domandargliene il motivo... «Lo faccio per economia,» le rispose egli; «noi intraprendiamo un viaggio molto dispendioso.» Il medico aveva prescritto l'aria di Linguadoca e di Provenza: Sant'Aubert risolse adunque d'incamminarsi lentamente verso quelle province, costeggiando il Mediterraneo. Si ritirarono di buon'ora nelle loro camere la sera precedente alla partenza. Emilia doveva porre in ordine alcuni libri e qualche altra cosa; suonò mezzanotte prima che avesse finito; si ricordò dei suoi disegni, cui voleva portar seco, e che aveva lasciati nel salotto. Vi andò, e, passando vicino alla camera del padre, ne trovò la porta socchiusa, e credè che fosse nel suo gabinetto, come solea fare tutte le sere dopo la morte della moglie. Agitato da insonnii crudeli, lasciava il letto, e andava in quella stanza per procurare di trovarci il riposo. Quando essa fu in fondo alla scala, guardò nel gabinetto, ma nol vide. Nel risalire, bussò leggermente all'uscio, non ricevè nessuna risposta, e si avanzò pian piano per sapere ove fosse. La camera era oscura, ma attraverso alla porta vetrata si scorgeva un lume nel fondo di una stanza attigua. Emilia era persuasa che suo padre stava là dentro; ma temendo che a quell'ora egli vi si trovasse incomodato, volle andar ad assicurarsene. Considerando però che una sì improvvisa apparizione l'avrebbe forse spaventato, lasciò fuori il lume, e si avanzò pian piano verso la stanza. Là, essa vide il padre seduto innanzi ad un tavolino, e scorrendo parecchie carte, alcune delle quali assorbivano la sua attenzione, e gli strappavano sospiri e per fino singulti. Emilia, la quale non si era avvicinata alla porta se non per assicurarsi dello stato di salute del padre, fu trattenuta in quel momento da un misto di curiosità e di tenerezza. Non poteva essa scuoprire le sue pene, senza desiderare di saperne eziandio la causa. Continuò ad osservarlo in silenzio, non dubitando più che quelle carte non fossero altrettante lettere. D'improvviso, ei si pose in ginocchio in un atteggiamento più solenne che fin allora non l'avesse veduto; ed in una specie di smarrimento che somigliava molto all'orrore, fece una lunghissima preghiera. Il di lui volto era coperto da mortal pallore quando si alzò. Emilia pensava a ritirarsi, ma lo vide avvicinarsi di nuovo alle carte, e si trattenne. Egli prese un piccolo astuccio, e ne levò una miniatura: il lume, che ci rifletteva sopra, le fece distinguere una donna, e questa donna non era sua madre! Sant'Aubert guardò il ritratto con viva espressione di tenerezza, lo recò alle labbra, al cuore, e mandò sospiri convulsi. Emilia non poteva credere ai propri occhi, ignorando ch'egli possedesse il ritratto di un'altra donna fuor di sua madre, e specialmente poi che gli fosse tanto caro. Essa lo guardò di nuovo a lungo per trovarci l'effigie della genitrice, ma la di lei attenzione servì solo a convincerla essere quello il ritratto di un'altra donna. Finalmente, il padre lo ripose nell'astuccio, ed Emilia, riflettendo di avere indiscretamente osservati i di lui segreti, si ritirò il più adagio che le fu possibile. CAPITOLO III Sant'Aubert, in vece di prendere la strada diretta che conduceva in Linguadoca, seguitando le falde dei Pirenei, preferì un cammino sulle alture, perchè offriva vedute più estese e più pittoresche. Uscì un poco di strada per congedarsi da Barreaux; lo trovò che erborizzava vicino al suo castello, e quando gli manifestò il soggetto della sua visita e la sua risoluzione, l'amico gli dimostrò una sensibilità di cui fino a quel punto Sant'Aubert non avevalo creduto capace. Si separarono con reciproco rammarico. «Se qualcosa avesse potuto togliermi dal mio ritiro,» disse Barreaux, «sarebbe stato il piacere di accompagnarvi in questo viaggio; io non faccio complimenti, e potete credermi: attenderò il vostro ritorno con grande impazienza.» I viaggiatori continuarono il loro cammino: nel montare in carrozza, Sant'Aubert si volse e vide il suo castello nella pianura. Idee lugubri gl'invasero lo spirito, e la sua immaginazione malinconica gli suggerì che non doveva più ritornarvi. Respinse questo pensiero, ma continuò a guardare il suo asilo fino a che la distanza non gli permise più di distinguerlo. Emilia restò, come lui, in un profondo silenzio, ma dopo qualche miglio, la di lei immaginazione, colpita dalla maestosità degli oggetti circostanti, cedè alle impressioni più deliziose. La strada passava, ora lungo orridi precipizi, ora pei siti più deliziosi. Emilia non potè trattenere i suoi trasporti, quando, dal mezzo de' monti e de' boschi di abeti, scoprì in lontananza immense pianure, sparse di ville, di vigneti e di piantagioni d'ogni specie. Le onde maestose della Garonna scorrevano in quella ricca valle, e dalla sommità dei Pirenei, d'onde ella trae origine, si conducevano verso l'Oceano. La difficoltà di una strada così poco frequentata obbligò spesso i viaggiatori di camminare a piedi; ma si trovavano essi ampiamente ricompensati dalla fatica per la vaghezza dello spettacolo offerto dalla natura. Mentre il mulattiere conduceva lentamente la carrozza, avevano tutto il comodo di percorrere le solitudini e di abbandonarsi alle sublimi riflessioni che sollevano l'anima, la leniscono, e la riempiono in fine di quella consolante certezza che Iddio, è presente dappertutto. I godimenti di Sant'Aubert portavan l'impronta della sua meditabonda malinconia. Questa disposizione aggiunge un incanto segreto agli oggetti, e inspira un sentimento religioso per la contemplazione della natura. I nostri viaggiatori si erano premuniti contro la mancanza degli alberghi, portando seco provvisioni; potevano dunque fare le loro refezioni a ciel sereno, e riposare la notte in qualunque luogo avessero trovato una capanna abitabile. Avevano egualmente fatte provvisioni per lo spirito, portando seco un'opera di botanica scritta da Barreaux, e qualche poeta latino o italiano. Emilia, d'altronde, aveva seco le matite, e tratto tratto disegnava i punti di vista che la colpivano maggiormente. La solitudine della strada aumentava l'effetto della scena; appena incontravano essi di tempo in tempo un contadino coi muli, o qualche fanciullo che scherzava tra le rupi. Sant'Aubert, incantato di quella maniera di viaggiare, si decise di avanzare sempre nelle montagne finchè trovasse strada, e di non uscirne che al Rossiglione, vicino al mare, per passare quindi in Linguadoca. Un po' dopo mezzodì giunsero in vetta d'un alto picco che dominava parte della Guascogna e della Linguadoca. Colà godevasi d'una folta ombra. Vi scaturiva una fonte, che, fuggendo sotto gli alberi fra erbosi margini, correva a precipitarsi al basso in brillanti cascatelle. Il suo lene murmure alfine perdevasi nel sottoposto baratro, ed il candido polvischio della sua spuma serviva solo a distinguerne il corso in mezzo ai negri abeti. Il luogo invitava al riposo. Si ammannì il pranzo; le mule furono staccate, e l'erba che fitta cresceva quivi intorno, lor fornì copioso nutrimento. Finito il pasto, Sant'Aubert prese la mano d'Emilia, e teneramente la strinse senza dir verbo. Poco stante, chiamò il mulattiere, e chiesegli se conoscesse una via tra i monti che guidar potesse nel Rossiglione. Michele rispose trovarsene parecchie, ma esserne poco pratico. Sant'Aubert, non volendo viaggiare se non fino al tramonto, domandò il nome di vari casali vicini, ed informossi del tempo cui impiegherebbero a giugnervi. Il mulattiere calcolò che si potea andare a Mateau, ma che, se si volesse movere verso mezzogiorno, dalla parte del Rossiglione, eravi un villaggio dove si giugnerebbe assai prima del tramonto. Sant'Aubert s'appigliò a quest'ultimo partito. Michele finì il pasto, attaccò le mule, si ripose in via, e poco stante sostò. Sant'Aubert lo vide pregare appiè d'una croce piantata sulla punta d'una rupe all'orlo della strada; finita l'orazione, fe' schioccar la frusta e, senza riguardo alcuno per la difficoltà della via, nè per la vita delle povere mule, le spinse di gran galoppo sul margine d'uno spaventoso precipizio. Lo spavento d'Emilia le tolse quasi l'uso de' sensi. Suo padre, il quale temeva ancor più il pericolo di fermarsi d'improvviso, fu costretto a tornar a sedere, e tutto lasciare in balia alle mule, le quali parvero più savie del loro conduttore. I viaggiatori giunsero sani e salvi nella valle, e sostarono sul margine d'un ruscello. Dimenticando ormai la magnificenza delle viste grandiose, internaronsi nell'angusta valle. Tutto quivi era solitario o sterile; non vi si vedea anima viva fuorchè il capriuolo montano, il quale, talfiata, mostravasi di repente sullo scosceso culmine di qualche inaccessibile dirupo. Era un sito qual l'avrebbe scelto Salvator Rosa, se avesse vissuto. Allora Sant'Aubert, colpito da tale aspetto, attendeasi quasi a veder isbucare da qualche antro vicino una torma di masnadieri, e tenea in mano le armi. Intanto inoltravano, e la valle allargavasi, assumendo carattere meno spaventoso. Verso sera, trovaronsi sulle montagne, in mezzo a scopeti. Da lunge, intorno ad essi, il campanaccio degli armenti, la voce de' mandriani eran l'unico suono che udir si facesse; e la dimora de' pastori l'unica abitazione che là si scoprisse. Sant'Aubert notò che il lecce, il sovero e l'abete vegetavano per gli ultimi sulle vette circostanti. Ridente verzura tappezzava il fondo della valle. Scorgeasi nelle profondità, all'ombra di castagni e querce, pascere e saltellare grosse mandre, disperse od aggruppate con grazia; taluni animali dormivano presso la fresca corrente, altri vi spegnevano la sete, ed altri vi si bagnavano. Il sole cominciava ad abbandonare la valle; i suoi ultimi raggi brillavano sul torrente, ravvivando i ricchi colori della ginestra e delle eriche fiorite. Sant'Aubert domandò a Michele quanto fosse distante il casale di cui avevagli parlato, ma esso non potè rispondergli con esattezza. Emilia cominciò a temere avesse smarrita la strada; non eravi ente umano che potesse soccorrerli, nè guidarli. Avevano lasciato da lunga mano dietro a sè e il pastore e la capanna, il crepuscolo scemava ognor più, l'occhio nulla potea discernere tra l'oscurità, e non distingueva nè casale, nè tugurio; una riga colorata segnava solo l'orizzonte, formando l'unica risorsa de' viaggiatori. Michele si sforzava di farsi coraggio cantando ariette, che per vero dire, non valevano molto a scacciare le idee lugubri, ond'erano occupati i viaggiatori. Continuarono a camminare assorti in quei profondi pensieri cui seco traggono la solitudine e la notte. Michele non cantava più, e non si udiva che il mormorio della brezza nei boschi, nè si sentiva che la frescura. D'improvviso furono scossi dallo scoppio d'un'arme da fuoco; Sant'Aubert fece fermare la carrozza, e si pose ad ascoltare. Il romore non viene ripetuto, ma si sente correre nella macchia. Sant'Aubert prende le sue pistole, e ordina a Michele di accelerare il passo. Il suono di un corno da caccia fa rimbombare i monti; Sant'Aubert osserva, e vede un giovine slanciarsi nella strada, seguito da due cani; lo straniero era vestito da cacciatore; un moschetto ad armacollo, un corno alla cintura, ed una specie di picca in mano, davano una grazia particolare, alla sua persona, secondando l'agilità dei suoi passi. Dopo un momento di riflessione, Sant'Aubert volle aspettarlo per interrogarlo sul casale cui cercava: il forestiere rispose che il villaggio era distante solo una mezza lega, che vi andava egli stesso, e gli avrebbe servito di guida; Sant'Aubert lo ringraziò, e colpito dalle di lui maniere semplici e franche, gli offrì un posto in carrozza. Lo straniero ricusò, assicurandolo che avrebbe seguito le mule senza fatica. «Ma voi sarete alloggiato male,» soggiuns'egli; «questi montanari sono gente poverissima; non solo non conoscono lusso, ma mancano eziandio delle cose reputate più indispensabili.--Mi accorgo che voi non siete di questo paese,» disse Sant'Aubert.--No, signore, io sono viaggiatore.» La carrozza si avanzava, e l'oscurità crescente fe' meglio conoscere l'utilità di una guida; i sentieri poi che s'incontravano spesso, avrebbero aumentata la loro incertezza. Finalmente videro i lumi del villaggio: si distinsero alcuni casolari, o meglio si poterono discernere mercè il ruscello che ripercotea ancora il fioco chiaror del crepuscolo. Lo straniero si avanzò, e Sant'Aubert intese da lui non esistere in quel luogo nessun albergo, ma egli si offrì di cercare un ricetto. Sant'Aubert lo ringraziò, e siccome il villaggio era vicinissimo, scese per accompagnarlo, mentre Emilia li seguiva in carrozza. Cammin facendo, Sant'Aubert domandò al compagno se aveva fatta una buona caccia. «No, signore,» rispos'egli, «e nemmanco era il mio progetto; amo questo paese e mi propongo di scorrerlo ancora per qualche settimana; ho i cani con me piuttosto per piacere, che per utilità; questo abito da cacciatore poi mi serve di pretesto, e mi fa godere della considerazione, che verrebbe ricusata senza dubbio ad un forestiero senza apparente occupazione.--Ammiro il vostro gusto,» rispose Sant'Aubert, «e, se fossi più giovine, vorrei io pure passare qualche settimana costì; siamo anche noi viaggiatori, ma il nostro scopo non è l'istesso. Io cerco la salute ancor più del piacere.» Qui sospirò e tacque per un momento; poi, raccogliendosi soggiunse: «Vorrei trovare una strada un po' buona, che mi conducesse nel Rossiglione, per passar quindi in Linguadoca. Voi, che sembrate conoscere il paese, potreste indicarmene una?» Lo straniero lo assicurò che si sarebbe fatto un piacere di servirlo, e gli parlò d'una strada più a levante, che dovea condurre ad una città, e di là facilmente nel Rossiglione. Giunti al villaggio, cominciarono a cercare un asilo, che potesse offrir loro ricovero per la notte; non trovarono nella maggior parte delle case che ignoranza, povertà e brio; Sant'Aubert veniva guardato con aria timida e curiosa; non bisognava aspettarsi un buon letto. Arrivò Emilia, ed osservando la fisonomia stanca ed afflitta del povero padre, si querelò ch'egli avesse scelta una strada sì poco comoda per un malato. Le migliori abitazioni erano composte di due camere; una per le mule e il bestiame, e l'altra per la famiglia, composta quasi da per tutto di sette o otto figli, e tutti, con il padre e la madre, dormivano su pelli o foglie secche; e siccome la sola apertura che fosse in quelle camere era nel tetto, eravi un fumo ed un odore nauseabondo tali, che toglievan quasi il respiro nell'entrarvi. Emilia distolse gli sguardi, e fissò il padre con tenera inquietudine, di cui il giovine forestiero parve intendere l'espressione; trasse in disparte Sant'Aubert, e gli offrì il suo letto. «Se lo paragoniamo a tutti gli altri, è abbastanza comodo,» gli disse, «ma altrove mi vergognerei di offrirvelo.» Sant'Aubert gli attestò la sua riconoscenza e ricusò l'offerta; ma lo straniero insistette. «Non rifiutate; sarei dolente troppo, signore,» ripres'egli, «se voi giaceste sopra una pelle mentr'io mi trovassi in un letto; i vostri rifiuti offenderebbero il mio amor proprio, e potrei pensare che la mia proposta vi spiaccia; vi mostrerò la strada, e la mia albergatrice troverà modo d'allogare anche la signorina.» Sant'Aubert consentì alfine; e restò sorpreso che lo straniero fosse tanto poco galante da preferire il riposo di un uomo a quello d'una giovane vezzosa, non avendo offerta la camera ad Emilia; ma essa non fu della medesima opinione, e con un sorriso espressivo gli dimostrò quanto fosse sensibile all'attenzione da lui avuta pel padre. Il forestiero, che si chiamava Valancourt, si fermò il primo per dire qualche cosa alla sua albergatrice. L'alloggio ch'essa aprì non somigliava punto a tutti quelli che fin allora avevan veduti. La buona donna impiegò tutte le sue premure nell'accoglier bene i viaggiatori, ed essi furono costretti di accettare i due soli letti che si trovassero in quella casa. Ova e latte erano il solo cibo che potesse offrire, ma Sant'Aubert aveva provvisioni, e pregò Valancourt di cenare con loro; l'invito fu benissimo accolto, e la conversazione si animò. La franchezza, la semplicità, le idee grandiose ed il gusto per la natura che mostrava di aver il giovane, incantavano Sant'Aubert. Egli aveva detto spesso che quest'interesse per la natura non poteva esistere in un'anima che non avesse gran purità di cuore e d'immaginazione. I discorsi furono interrotti da un violento tumulto, in cui la voce del mulattiere cuopriva tutte le altre. Valancourt si alzò per saperne il motivo, e la disputa durò tanto, che Sant'Aubert perdè la pazienza e uscì egualmente. Michele altercava coll'albergatrice, perchè essa proibivagli d'introdurre i muli nella stalla, che gli aveva permesso di dividere co' suoi tre figli; il sito non era molto bello per verità, ma non eravi nulla di meglio, e, più delicata dei suoi conterranei, essa non voleva che i figli dormissero nella medesima stanza coi muli. Valancourt riuscì finalmente a pacificar tutti. Pregò l'albergatrice di lasciare la stalla al mulattiere ed ai suoi muli; cedè ai di lei figli le pelli stategli preparate per riposarsi, e l'assicurò che, avvolto nel mantello, avrebbe passato benissimo la notte su di una panca vicino alla porta. La buona donna non voleva accettare simile accomodamento, ma Valancourt insistè tanto, che questo grande affare terminò così. Era tardi, quando Sant'Aubert ed Emilia si ritirarono nelle loro stanze; Valancourt restò dinanzi alla porta. In quella bella stagione preferiva siffatto posto ad una stanzuccia e ad un letto di pelli. Sant'Aubert fu alcun poco sorpreso di trovare nella camera Omero, Orazio ed il Petrarca, ma il nome di Valancourt scritto su quei volumi, glie ne fece conoscere il possessore. CAPITOLO IV Sant'Aubert si svegliò di buonissim'ora; il sonno l'aveva ristorato, e volle partire subito. Valancourt fece colazione con lui, e narrò che pochi mesi prima era stato fino a Beaujeu, città grossa del Rossiglione, e Sant'Aubert, dietro suo consiglio, si decise di prendere quella direzione. «La scorciatoia, e la strada che conduce a Beaujeu,» disse il giovane, «si uniscono alla distanza di una lega e mezza di qua: se volete permetterlo, posso dirigervi il vostro mulattiere; bisogna ch'io passeggi, e la passeggiata che farò con voi, vi sarà più gradita di qualunque altra.» Sant'Aubert accettò la proposta con grato animo; partirono insieme, ma il giovine non volle acconsentire di entrare nella carrozza. La strada alle falde de' monti percorreva una valle ridente splendida per verzura e sparsa di boschetti. Numerosi armenti vi riposavano all'ombra delle quercette, dei faggi e de' sicomori; il frassino e la tremula lasciavan ricadere le fronzute punte de' rami sulle aride rocce; un po' di terra appena ne ricopriva le radici, ed il più lieve soffio ne agitava tutti i rami. Ad ogni ora del dì vi s'incontrava gente. Il sole non compariva ancora, e già i pastori guidavano una immensa mandra a pascere su pe' monti. Sant'Aubert era partito assai presto per godere della vista del sorger del sole e respirare l'aura pura mattutina, tanto proficua a' malati, e che dovea esserlo specialmente in quelle regioni ove la copia e varietà delle piante aromatiche la impregnavano della più soave fragranza. La leggera nebbia che velava gli oggetti circostanti dileguossi a poco a poco, e permise ad Emilia di contemplare i progressi del dì. I riflessi incerti dell'aurora, indorando le punte delle rupi, rivestironle successivamente di vivida luce, mentre la lor base ed il fondo della valle restavan coperti da negro vapore. Intanto, le tinte delle nubi d'oriente rischiararonsi, s'imporporarono, e rifulsero alfine di mille splendidi colori. La trasparenza dell'atmosfera lasciò allo scoverto fiotti d'oro puro, i raggi brillanti fugarono le tenebre, e penetrarono nelle fondure della valle ripercotendosi negli argentei rivi: la natura destavasi da morte a vita. Sant'Aubert si sentì ravvivato; avea il cuore commosso; versò lagrime ed innalzò i pensieri al Creatore di tutte le cose. Emilia volle scendere a calpestar quell'erba tutta rorida di fresca rugiada; essa voleva gustar quella libertà onde il camoscio parea fruire sulle brune vette de' monti. Valancourt sostava coi viaggiatori, mostrando loro con sentimento gli oggetti particolari della sua ammirazione. Sant'Aubert se gli affezionava.--Il giovine è focoso, ma buono; dicea fra sè;--ben si vede che non ha mai abitato Parigi.--Egli arrivò al punto dove si univano le due strade, con molto suo dispiacere; e si congedò con più cordialità che non lo permetta d'ordinario una nuova conoscenza. Valancourt continuò a discorrere buona pezza vicino alla carrozza; era il momento di separarsi, e non dimanco restava sempre mettendo in campo argomenti che lo scusassero di questo prolungamento. Alla perfine accommiatossi, e quando partì, Sant'Aubert osservò come contemplasse Emilia con isguardo attento ed espressivo; ella lo salutò con timida dolcezza; la carrozza partì, ma Sant'Aubert poco dopo, sporgendo la testa, osservò Valancourt immobile sulla strada, colle braccia incrociate sul bastone, e gli occhi fissi sulla carrozza; lo salutò colla mano, e Valancourt, scosso dalla sua estasi, gli fece il saluto e si allontanò. L'aspetto del paese cambiò in breve: i viaggiatori, si trovavano allora in mezzo ad altissime montagne coperte fino alla sommità da negri boschi di abeti. Varie punte granitiche, sorgendo dalla valle stessa, andavan a celare in grembo alle nubi le nevose cime. Il ruscello, divenuto un fiume, scorreva in dolce silenzio, e quei cupi boschi riflettevano la loro ombra nelle sue limpide acque. Per intervalli uno scosceso dirupo inalzava l'ardita fronte al di sopra dei boschi e dei vapori che servivan di cintura ai monti; talvolta una marmorea aguglia sosteneasi perpendicolarmente al fiorito margine delle acque; un larice colossale la stringea colle robuste braccia, e la sua fronte, solcata dalla folgore, coronavasi ancora di verdi pampini. Quando la carrozza camminava adagio, Sant'Aubert scendeva, e si compiaceva di andare in cerca di piante curiose, ond'erano sparsi quei luoghi; Emilia, nell'esaltazione dell'entusiasmo, s'internava nei folti boschi, tendendo l'orecchio in silenzio al loro imponente mormorio. Per lo spazio di molte leghe non incontrarono nè villaggi, nè casali di sorte alcuna; qualche capanna di cacciatori qua e là era la sola traccia di abitazione umana. I viaggiatori pranzarono a ciel sereno, in un bel sito della valle, assisi all'ombra dei faggi; dopo di che partirono immediatamente per Beaujeu. La strada saliva sensibilmente, e lasciando i pini disotto a loro, trovaronsi in mezzo a precipizi. Il crepuscolo della sera accrescea l'orrore de' luoghi, ed i viaggiatori ignoravano la distanza di Beaujeu. Sant'Aubert nonpertanto credea di non esserne molto lontano, e si rallegrava di non aver quindi più oltre quella città, a varcare simili deserti. Le selve, le rupi, i circostanti gioghi confondevansi a poco a poco nell'oscurità, ed in breve non fu più possibile discernere quelle indistinte immagini. Michele precedeva cauto, appena scorgendo la via ma le sue mule, più esperte, camminavano ancora con passo franco. Alla svolta di un monte, videro un lume; i dirupi e l'orizzonte furono illuminati a gran distanza. Gli era certo un gran fuoco, ma nulla indicava se fosse accidentale o preparato. Sant'Aubert lo credette acceso da qualche masnada di quei banditi che infestavano i Pirenei; stava molto attento, e desiderava sapere se la strada passava vicino a quel fuoco. Aveva armi da potersi difendere in caso di bisogno; ma a che serviva una sì debole risorsa contro una banda di assassini determinati? Rifletteva a questa circostanza, quando udì una voce dietro di essi, che intimava al mulattiere di fermarsi. Sant'Aubert gli ordinò di camminar più presto, ma o fosse per testardaggine di Michele, o dei muli, questi non cambiarono il loro passo; s'intese il galoppo di un cavallo; un uomo raggiunse la carrozza, e ordinò nuovamente di fermarsi. Sant'Aubert, non dubitando più del costui disegno, scaricò una pistola dallo sportello; l'incognito vacillò sul cavallo, ed il romore del colpo fu seguito da un gemito di dolore. Sarà facile immaginarsi lo spavento di Sant'Aubert, il quale credè riconoscere allora la voce dolente di Valancourt. Fece arrestare egli stesso la carrozza, pronunziò il nome del giovane, e non potè averne più alcun dubbio. Scese tosto, e corse a soccorrerlo; il giovane era ancora a cavallo, il suo sangue scorreva in copia, e sembrava soffrir molto, sebbene cercasse di consolare Sant'Aubert, assicurandolo che non era nulla, e sentivasi ferito solo leggermente nel braccio. Sant'Aubert e il mulattiere lo aiutarono a smontare e l'adagiarono in terra; il primo voleva fasciargli la ferita, ma gli tremavano le mani talmente, che non potè riuscirvi. Michele intanto correa dietro al cavallo ch'era fuggito mentre ne scendea il padrone; chiamò Emilia, e non ricevendo risposta, corse alla carrozza, e la trovò svenuta. In questa terribile situazione, e spinto dal dolore di lasciare Valancourt perdere il sangue, si sforzò di sollevarla, e chiamò Michele per chieder acqua dal ruscello vicino. Michele era andato troppo lontano, ma Valancourt, udendo il nome di Emilia, capì di che si trattava, ed obbliando sè medesimo, andò in suo soccorso; essa era già rinvenuta quando le fu vicino; egli seppe che il deliquio era stato cagionato dal timore del sinistro occorsogli, e con voce turbata da tutt'altro sentimento che da quello del dolore, l'assicurò che la sua ferita era di pochissima conseguenza. Sant'Aubert si accorse allora che il sangue non era ancora stagnato; i suoi timori cambiarono oggetto; lacerò un fazzoletto per bendargli la piaga: il sangue si fermò, ma egli temendo le conseguenze, domandò più volte se Beaujeu fosse ancora molto lontano, ed avendo inteso ch'era distante due leghe, il suo timore crebbe. Ignorava se Valancourt avrebbe potuto resistere al moto della carrozza, e lo vedeva sul punto di svenire. Appena questi ebbe conosciuta la sua inquietudine, si affrettò di rincorarlo, e parlò della sua avventura come di una bagatella. Michele aveva ricondotto il cavallo; Valancourt, salì nella carrozza; Emilia s'era riavuta, e continuarono la strada di Beaujeu. Sant'Aubert, rinvenuto dal terrore, manifestò la sua sorpresa sull'incontro di Valancourt; ma questi la fece cessare. «Voi avete rinnovato il mio gusto per la società,» gli disse; «dopo la vostra partenza, il mio casolare mi sembrava un deserto. E giacchè il mio unico scopo è quello di viaggiare per diletto, mi sono deciso di partire immediatamente. Ho presa questa strada, perchè sapeva ch'era più bella di qualunque altra; e d'altronde,» aggiunse esitando un poco, «lo confesserò (e perchè non dovrei confessarlo?), io aveva qualche speranza di raggiungervi.--Ed io ho crudelmente corrisposto alla vostra gentilezza,» riprese Sant'Aubert, che si rimproverava la sua fretta, e glie ne spiegò il motivo. Ma Valancourt, premuroso di evitare qualunque inquietudine sul di lui conto, nascose l'ambascia che provava, e seguitò a conversare allegramente. Emilia stava in silenzio, a meno che Valancourt non le volgesse la parola, ed il tuono commosso con cui lo faceva, valeva da per sè loro ad esprimere molto. Trovavansi allora presso a quel fuoco che spiccava tanto vivamente nell'oscurità della notte: illuminava allora la strada tutta, e poteasi facilmente distinguere le figure che la circondavano. Accostandosi, riconobbero una banda di zingari che, specialmente in quell'epoca frequentavano i Pirenei, svaligiando i viaggiatori. Emilia notò con ispavento l'aspetto truce di quella compagnia, ed il fuoco che li rischiarava, diffondendo una nube purpurea sugli alberi, gli scogli e le frondi, aumentava l'effetto bizzarro del quadro. Tutti quegli zingari preparavano la cena. Una larga caldaia stava sul fuoco, e parecchie persone occupavansi ad empirla. Lo splendore della fiamma faceva scorgere una specie di rozza tenda, intorno alla quale giuocherellavano alla rinfusa ragazzi e cani. Il tutto formava un complesso veramente grottesco. I viaggiatori sentivano il pericolo. Valancourt taceva, ma mise la mano sur una delle pistole di Sant'Aubert, il quale, fatto altrettanto, fece avanzare il mulattiere. Passarono nondimeno senza ricevere insulti. I ladri non s'aspettavano probabilmente a tale incontro, ed occupavansi troppo della cena per sentire allora tutt'altro interesse. Dopo un'ora e mezza di cammino nella più profonda oscurità, i viaggiatori arrivarono a Beaujeu e smontarono al solo albergo che vi fosse, e che, sebbene molto superiore alle capanne, non cessava però di essere cattivo. Fu fatto venire immediatamente il chirurgo della città, se tuttavolta si può dar questo nome ad una specie di maniscalco, che curava uomini e cavalli, e che in caso di bisogno, faceva anche da barbiere. Esaminò il braccio di Valancourt, e avendo riconosciuto che la palla non era penetrata nelle carni, lo medicò e gli raccomandò il riposo; ma il paziente non era in verun modo disposto ad obbedirlo. Il piacere di star meglio era succeduto all'inquietudine del male; chè ogni godimento diviene positivo quando contrasta con un pericolo. Valancourt aveva riacquistate le forze, e volle prender parte alla conversazione. Sant'Aubert ed Emilia, liberi da qualunque timore, erano di una singolare allegrezza. Era già tardi, e Sant'Aubert fu costretto di uscire col locandiere per andar a cercare qualche cosa per la cena. Emilia, nell'intervallo, si assentò anch'essa sotto pretesto di mettere in ordine alcune sue cose; trovò l'alloggio meglio disposto di quello che credea e quindi tornò a raggiugnere Valancourt. Parlarono delle vedute scoperte in quel giorno, dell'istoria naturale, della poesia, e finalmente del padre d'Emilia la quale non poteva parlare o sentir parlare, se non con gioia, d'un soggetto tanto caro al suo cuore. La serata passò piacevolmente, ma siccome Sant'Aubert era stanco, e Valancourt soffriva ancora, si separarono subito dopo cena. La mattina seguente, Valancourt aveva la febbre, non aveva dormito e la sua ferita era infiammata: il chirurgo, che venne a visitarlo di buon'ora, lo consigliò di restar tranquillo a Beaujeu. Sant'Aubert aveva pochissima fiducia nei di lui talenti; ma avendo inteso che non se ne poteva trovare uno più abile, cambiò il suo piano, e risolse di aspettare la guarigione del malato. Valancourt parve cercar di dissuadernelo, ma con più garbo che buona fede. La sua indisposizione trattenne i viaggiatori per più giorni colà. Sant'Aubert ebbe luogo di conoscere i di lui talenti ed il suo carattere, con quella precauzione filosofica, che sapeva tanto bene impiegare in tutte le circostanze. Conobbe un naturale franco e generoso, pieno di ardore, suscettibile di tutto ciò ch'è grande e buono, ma impetuoso, quasi selvaggio ed alquanto romanzesco. Valancourt conosceva poco il mondo; avea idee assennate, sentimenti giusti; la sua indignazione, come la sua stima si esprimevano senza misura, nè riguardi. Sant'Aubert sorrideva della sua veemenza, ma la reprimea di rado, e diceva fra sè:--Questo giovine, senza dubbio, non è mai stato a Parigi.--Un sospiro succedeva a queste riflessioni: egli era deciso di non lasciar Valancourt prima del suo pieno ristabilimento, e siccome esso era allora in istato di viaggiare, ma non a cavallo, Sant'Aubert l'invitò ad approfittar qualche giorno della sua carrozza. Avendo saputo che il giovine era d'una famiglia distinta di Guascogna, il cui grado e la considerazione erangli ben noti, la sua riserva fu meno grande, e Valancourt avendo accettato l'offerta con piacere, ripresero tutti insieme la strada che conduceva al Rossiglione. Viaggiavano senza sollecitarsi, fermandosi quando il sito meritava attenzione; s'inerpicavano spesso sopra alture, cui non potevan giugnere le mule; smarrivansi tra que' dirupi, coperti di lavanda, di timo, di ginepro di tamarindo, e protetti da ombre antiche; una bella vista entusiasmava Emilia, superando le maraviglie della più fervida imaginazione. Sant'Aubert si divertiva talvolta ad erborizzare, mentre Emilia e Valancourt attendevano a qualche scoperta: il giovane le faceva osservare gli oggetti particolari della sua ammirazione, e recitava i più bei passi dei poeti italiani o latini cui essa prediligeva. Nell'intervallo della conversazione, e quando non era osservato, fissava gli sguardi su quel leggiadro volto, i cui lineamenti animati indicavano tanto spirito ed intelligenza: quando parlava in seguito, la dolcezza della sua voce palesava un sentimento cui cercava invano di nascondere. Grado grado, le pause ed il silenzio di lui divennero più frequenti: Emilia mostrò molta premura d'interromperli: essa fin allora così riservata, parlava del continuo, ora dei boschi, ora delle valli, ora dei monti, anzichè esporsi al pericolo di certi momenti di silenzio e di simpatia. La via di Beaujeu saliva rapidissimamente: ei si trovarono in mezzo a' più eccelsi monti; la serenità e purezza dell'aere, in quell'alte regioni, entusiasmavano i tre viaggiatori; l'anima loro ne pareva alleggerita, ed il loro spirito diventato più penetrante. Ei non avevano parole ad esprimere emozioni tanto sublimi, quelle di Sant'Aubert ricevevano un espressione più solenne: le lagrime irrigavangli le guancie, e camminava in disparte. Valancourt parlava tratto tratto per attirar l'attenzione di Emilia; la limpidezza dell'atmosfera che lasciavale distinguere tutti gli oggetti, ingannavala talvolta, e sempre con piacere. Essa non poteva credere sì lunge da lei ciò che parevale così vicino; il silenzio profondo della solitudine non era interrotto se non dal grido delle aquile svolazzanti per l'aere, e dal sordo rumoreggiar de' torrenti in fondo degli abissi. Di sopra ad essi la splendida volta de' cieli non era oscurata da nube alcuna, i vortici di vapore sostavano in grembo a' monti, il loro rapido movimento velava talvolta tutto il paese, e tal altra scoprendone parte, lasciava all'occhio alquanti momenti d'osservazione. Emilia, estatica, contemplava la grandezza di quelle nubi che variavano forma e tinte; ne ammirava l'effetto sulle sottostanti contrade cui davano ad ogni istante mille nuove forme. Dopo aver viaggiato così per parecchie leghe, cominciarono a scendere nel Rossiglione, e la scena che si svolse spiegava una bellezza meno aspra. I viaggiatori rammaricavano gli oggetti imponenti cui stavan per abbandonare. Benchè stancato da que' vasti aspetti, l'occhio riposava gradevolmente sul verde de' boschi e de' prati; il fiume che irrigavali la capanna sotto l'ombra de' faggi, i giulivi crocchi de' pastorelli, i fiori che adornavano i clivi, formavano insieme uno spettacolo incantevole. Scendendo, riconobbero uno de' grandi varchi de' Pirenei in Ispagna: i fortilizi, le torri, le mura, ricevevano allora i raggi del sole all'occaso; le selve circostanti non avevano più se non un riflesso giallastro, mentre le punte de' dirupi tingeansi ancora di rosa. Sant'Aubert guardava attento senza scoprire la piccola città indicatagli. Valancourt non poteva informarlo della distanza, non essendo mai ito tant'oltre; pur iscorgevano una strada, e doveano crederla diretta, giacchè dopo Beaujeu non avean potuto smarrirsi da alcuna parte. Il sole era vicino al tramonto, e Sant'Aubert sollecitò il mulattiere; egli sentivasi assai debole, e desiderava vivamente il riposo; dopo una sì faticosa giornata la sua inquietudine non si calmò, osservando un gran treno d'uomini, di muli e di cavalli carichi, che sfilavano pei sentieri dell'opposto monte, e siccome i boschi ne celavano spesso il cammino, non si poteva precisarne il numero: qualcosa di brillante, come d'armi risplendeva agli ultimi raggi del sole e la divisa militare si distingueva sui primi, e su qualche individuo sparso fra la comitiva. Appena furono nella valle, un'altra banda uscì dai boschi, ed i timori di Sant'Aubert aumentarono, non dubitando non fossero tanti contrabbandieri arrestati nei Pirenei, e scortati dalla soldatesca. I viaggiatori avevano errato tanto nelle montagne che s'ingannarono nei loro calcoli, e non poterono giungere a Montignì prima della notte. Traversarono la valle, e notarono sopra un rustico ponte che riuniva due coste, un crocchio di fanciulli i quali divertivansi a lanciar sassi nel torrente; le pietre nel cadere, facevano spruzzar colonne d'acqua mandando un sordo fragore ripercosso alla lontana dagli echi dei monti. Sotto il ponte scoprivasi tutta la valle in prospettiva, una cateratta in mezzo alle rupi, ed una capanna sopra una punta protetta da annosi abeti. Quell'abitazione parea dovesse esser vicina ad una piccola città. Sant'Aubert fece fermare: chiamò i ragazzi, e lor chiese se Montignì fosse molto lontano; ma la distanza, lo strepito delle acque non gli permisero di farsi udire, e la ripidezza delle montagne che sostenevano il ponte era troppa perchè tutt'altri fuor d'un alpigiano pratico potesse ascenderle. Sant'Aubert dunque dovette decidersi a continuare col favore del crepuscolo la strada, la quale era talmente disagiosa che parve miglior consiglio scendere di vettura. La luna cominciava a spuntare, ma tramandava troppo fioca luce; e' camminavano a caso in mezzo ai pericoli. In quel punto si udì la campana d'un convento; la fitta tenebria impediva la vista dell'edifizio, ma il suono pareva venire dai boschi che coprivano il monte di destra. Valancourt propose d'andarne in cerca. «Se non troviam ricovero in quel convento,» dicea egli, «almeno c'indicheranno la distanza o la posizione di Montignì.» E si mise a correre senza aspettar risposta; ma Sant'Aubert lo richiamò dicendogli: «Io sono orribilmente stanco, ho bisogno di pronto riposo; andiamo tutti al convento; il vostro robusto aspetto sventerebbe i nostri disegni; ma quando si vedrà il mio spossamento e la stanchezza d'Emilia, non ci si negherà ricetto.» Sì dicendo, prese il braccio d'Emilia, e raccomandando a Michele d'aspettarlo, seguì il suono della campana e salì dalla parte dei boschi, ma a passi vacillanti. Valancourt gli offerse il braccio cui accettò. La luna venne a rischiarare il sentiero, e lor permise in breve di scorgere torri che sorgevano sul colle. La campana continuava a guidarli; entrarono nel bosco, ed il fioco chiarore della luna divenne più incerto per l'ombra ed il tremolio delle foglie. L'oscurità, il cupo silenzio, quando la campana non suonava, la specie d'orrore ispirato da un luogo sì selvaggio, tutto riempì Emilia d'uno spavento che la voce e la conversazione di Valancourt poteva solo diminuire. Dopo alcun tempo di salita, Sant'Aubert, si lamentò, e tutti sostarono sur un erboso poggio, dove gli alberi, più radi, lasciavan godere il chiaro della luna. Sant'Aubert sedette sull'erba tra i due giovani. La campana non suonava più, e la quiete notturna non era interrotta da strepito veruno, avvegnacchè il fragor sordo di qualche lontano torrente paresse accompagnare, anzichè turbare il silenzio. Avevano allora sott'occhio la valle testè lasciata. La luce argentea che ne scopriva le fondure, riflettendo sulle rupi e le selve di sinistra, contrastava colle tenebre, onde i boschi a destra erano come avvolti. Le cime sole erano illuminate a sbalzi; il resto della valle perdeasi in seno ad una nebbia, di cui lo stesso chiaro di luna non serviva che a crescere la foltezza. I viaggiatori ristettero alcun tempo a contemplare quel bell'effetto. «Simili scene,» disse Valancourt, «dilettano il cuore come i concenti di deliziosa musica; chiunque ha gustata una volta la melanconia ch'esse ispirano non vorrebbe mutarne l'impressione per quella dei più squisiti piaceri. Elleno destano i nostri più puri sentimenti; dispongono alla benevolenza, alla pietà, all'amicizia. Coloro ch'io amo, parvemi sempre d'amarli assai più in quest'ora solenne.» Tremogli la voce, e sostò. Sant'Aubert nulla dicea. Emilia vide cadere una lagrima sulla mano cui stringeva tra le proprie. Indovinonne ben essa il pensiero; anche il suo era corso alla pietosa memoria della genitrice. Ma Sant'Aubert, rianimandola: «Oh sì,» disse reprimendo un sospiro, «la memoria di quelli che noi amiamo, di un tempo trascorso per sempre, gli è in questo istante che si posa sulle anime nostre! È come una melodia lontana in mezzo al silenzio delle notti, come le tinte raddolcite di questo paesaggio.» Poscia, dopo una pausa, continuò: «Io ho sempre creduto le idee più lucide a quest'ora che in qualunque altra, ed il cuore che non ne riconosce l'influenza, è di certo un cuore snaturato. Vi son tanti....» Valancourt sospirò. «Ve ne sono dunque molti?» disse Emilia.--Fra alcuni anni forse, cara figlia,» rispose Sant'Aubert, «tu sorriderai ricordandoti tale domanda, se tuttavolta questa memoria non ti strapperà le lagrime. Ma vieni, mi sento un po' meglio. Andiamo innanzi.» Uscirono finalmente dal bosco, e videro sopra un'eminenza il convento cui aveano tanto cercato. Un muro altissimo che lo circondava li condusse ad un'antica porta; bussarono, ed il laico che venne ad aprire li condusse in una sala vicina, pregandoli di aspettare fino a che fosse avvertito il superiore. Nell'intervallo, comparvero parecchi frati ad osservarli con curiosità; poco stante ritornò il laico e li scortò innanzi al superiore. Egli sedeva in un seggiolone; aveva un grosso libro davanti a sè, sostenuto da vasto leggìo. Ricevè garbatamente i viaggiatori senza alzarsi, fece loro poche interrogazioni, ed acconsentì alla loro domanda. Dopo una brevissima conferenza, fatti i debiti complimenti, furono condotti in una stanza, ove si preparava la cena, e Valancourt, accompagnato da un frate, andò a cercare Michele, la carrozza ed i muli. Appena ebbe scesa la metà della strada, udì la voce del mulattiere, il quale chiamava i nostri viaggiatori per nome. Convinto, non senza difficoltà, che tanto lui, quanto il suo padrone non avevano più nulla da temere, si lasciò condurre in una capanna vicino al bosco. Valancourt tornò in fretta a cenare cogli amici, ma Sant'Aubert soffriva troppo per mangiare con appetito. Emilia, assai inquieta per suo padre, non sapeva pensare a sè medesima, e Valancourt, mesto e pensieroso, ma sempre occupato di loro, non pensava ad altro se non a confortare ed incoraggire Sant'Aubert. Separatisi presto, si ritirarono nelle loro stanze. Emilia dormì in un gabinetto contiguo alla camera del padre; trista, pensierosa ed occupata soltanto dello stato di languore in cui lo vedeva, coricossi senza speranza di riposo. Due ore dopo una campana squillò, e passi precipitosi percorsero i corridoi. Poco esperta degli usi claustrali, Emilia spaventossi; i suoi timori, sempre vivi pel padre, le fecero supporre che stesse più male; si alzò in fretta per correre da lui, ma essendosi fermata un momento all'uscio onde lasciar passare i frati, ebbe tempo di riaversi, di riordinare le idee, e comprendere che la campana aveva suonato mattutino. Questa campana non suonava più, tutto era quiete, ed essa non andò più oltre; ma, non potè dormire, ed allettata d'altra parte dal fulgore d'una splendida luna, aprì la finestra e si mise a rimirar il paese. Placida era la notte e bella, il firmamento senza nubi, e lieve zeffiro agitava appena gli alberi della valle. Stava attenta, allorchè l'inno notturno dei religiosi sorse dolcemente dalla cappella, situata in luogo più basso, talchè il sacro cantico parea salire al cielo traverso il silenzio delle notti. I pensieri susseguironsi; dall'ammirazione delle opere, l'anima sua passò all'adorazione del loro onnipossente e buono autore. Penetrata d'una pietà pura e scevra da profani sentimenti, l'anima sua elevossi al disopra dell'universo; gli occhi versaron lagrime; ella adorò la Potenza infinita nelle sue opere, e la bontà sua ne' suoi benefizi. Il cantico de' frati cesse di nuovo il posto al silenzio; ma Emilia non lasciò la finestra se non quando la luna, essendo tramontata l'oscurità parve invitarla al riposo. CAPITOLO V Sant'Aubert si trovò la mattina seguente bastantemente in forza per continuare il viaggio, e sperando arrivare lo stesso giorno nel Rossiglione, si mise in cammino di buonissim'ora. La strada che percorrevano allora i viaggiatori, offriva vedute selvagge e pittoresche come le precedenti; solo tratto tratto le scene, meno severe, spiegavano una bellezza più amena e ridente. Quando Sant'Aubert parea occupato delle piante, contemplava con trasporto Emilia e Valancourt, i quali passeggiavano insieme; questi col contegno e l'emozione del piacere indicava una bella vista nella scena che lor s'offriva; quella ascoltava e guardava con un'espressione di sensibilità seria indicante l'elevatezza del suo spirito. Rassembravano a due amanti, i quali mai non avessero lasciati i monti natii, che la situazione loro avesse preservati dal contagio delle frivolezze; le cui idee, semplici e grandiose come il paesaggio che percorrevano, non comprendessero la felicità se non nella tenera unione de' cuori puri. Sant'Aubert sorrideva e sospirava a un tempo, pensando alla romanzesca felicità onde la sua imaginazione offerivagli il quadro; sospirava inoltre pensando quanto la natura e la semplicità fossero mai estranee al mondo, poichè i loro soavi diletti parevano un romanzo. --Il mondo,» dicea egli seguendo il proprio pensiero, «il mondo mette in ridicolo una passione cui appena conosce; i suoi movimenti ed interessi distraggono lo spirito, depravano i gusti, corrompono il cuore; e l'amore non può esistere in un cuore quando non ha più la cara dignità dell'innocenza. La virtù e la simpatia son quasi la medesima cosa; la virtù è la simpatia messa in azione, e le più delicate affezioni di due cuori formano insieme il vero amore. Come mai potrebbesi cercar l'amore in seno alle grandi città? La frivolezza, l'interesse, la dissipazione, la falsità vi surrogano del continuo la semplicità, la tenerezza e la franchezza.-- Era quasi mezzodì quando i viaggiatori giunsero ad un passo sì pericoloso che lor fu d'uopo scendere di carrozza; la strada era contornata da boschi, e anzichè continuare innanzi, si misero a cercar l'ombra. Un umido rezzo era diffuso per l'aere; lo splendido smeraldo dell'erba, la bella miscea de' fiori, de' balsami, de' timi e delle lavande che la smaltavano; l'altezza de' pini, de' frassini e de' castagni che ne proteggevano l'esistenza, tutto concorrea a far di quello un luogo veramente delizioso. Talvolta il fogliame, più fitto, interdicea la vista del paesaggio; altrove, qualche misterioso varco lasciava traveder all'imaginazione quadri assai più leggiadri che fin allora non avesse osservati, ed i viaggiatori abbandonavansi volentieri a que' godimenti quasi ideali. Le pause ed il silenzio che avevano già interrotto i colloqui di Valancourt e d'Emilia furono quel dì molto più frequenti. Il giovane, dalla vivacità più espressiva, cadeva in un accesso di languore, e la malinconia pingevasi senz'arte fin nel di lui sorriso. La fanciulla non poteva più ingannarsi: il suo proprio cuore partecipava il medesimo sentimento. Quando Sant'Aubert fu ristorato, continuarono a camminare pel bosco, credendo sempre costeggiar la strada; ma s'accorsero alfine d'averla smarrita affatto. Avevano seguito il declivio ove la beltà de' luoghi li tratteneva, e la strada andava invece montando su per la ripida costa. Valancourt chiamò Michele, ma l'eco solo rispose alle sue grida, ed i suoi sforzi furono parimente vani per ritrovar la strada. In tale stato, scorsero fra gli alberi, a qualche distanza, la capanna d'un pastore. Valancourt vi corse per chiedere qualche indicazione; giuntovi, vi trovò soltanto due ragazzi che giocavan sull'erba. Guardò in casa, e non vide nessuno. Il maggiore de' fanciulli gli disse che suo padre trovavasi ne' campi, sua madre nella valle, nè tarderebbe a tornare. Il giovane pensava a quanto convenisse fare, allorchè la voce di Michele echeggiò d'improvviso su le rupi circostanti. Valancourt rispose tosto e cercò d'andare a raggiungerlo; dopo un faticoso lavoro tra le boscaglie ed i massi, lo raggiunse alfine ed a stento riescì a farlo tacere. La strada era lontanissima dal luogo ove riposavano il padre e la figlia. Era difficile di condur fin là la vettura; sarebbe stato troppo penoso per Sant'Aubert d'inerpicarsi pel bosco, com'egli stesso avea fatto, ed il giovane era angustiato molto per trovare un cammino più praticabile. Intanto, Sant'Aubert ed Emilia eransi accostati alla capanna e riposavano sopra una panca campestre situata fra due pini ed ombreggiata dalle loro frondi; avean guardato a Valancourt, ed aspettavano che li raggiungesse. Il maggiore de' ragazzi aveva lasciato il giuoco per rimirar i viaggiatori; ma il piccino continuava i suoi salti e tormentava il fratello perchè tornasse ad aiutarlo. Sant'Aubert considerava con piacere quella fanciullesca semplicità, quando d'improvviso tale spettacolo, rammentandogli i figli perduti in quella fresca età, ed in ispecie la loro diletta madre, lo fece ricadere nella mestizia. Emilia, accortasene, cominciò una di quelle ariette commoventi cui egli tanto prediligeva, e ch'ella sapeva cantar colla massima grazia ed espressione. Il padre le sorrise attraverso le lagrime, le prese la mano, la strinse teneramente e cercò bandire i malinconici pensieri. Essa cantava ancora, quando Valancourt tornò; egli non volle interromperla, e sostò ad ascoltare. Quand'ebbe finito, accostossi e narrò d'aver trovato Michele ed anche una strada per ascendere il dirupo. Sant'Aubert, a tai parole, ne misurò coll'occhio la tremenda altezza; sentivasi oppresso, e la salita pareagli spaventosa. Il partito però sembravagli preferibile ad una strada lunga e scabrosa affatto; risolse di tentarlo, ma Emilia, sempre premurosa, gli propose di pranzare in prima, onde ristorar alquanto le forze, e Valancourt tornò alla vettura a cercarvi provvigioni. Al ritorno, propose di collocarsi un po' più in alto, essendovi la vista più bella ed estesa. Stavano per recarvisi, quando videro una giovane accostarsi ai ragazzi, accarezzarli, e piangere amaramente. I viaggiatori, interessati dalla di lei sventura, sostarono a meglio osservarla. Essa prese in braccio il minore de' figli, e scorti i forestieri, si terse le lagrime in fretta ed accostossi alla capanna. Sant'Aubert le chiese la causa della di lei afflizione. Gli diss'ella che suo marito era un povero pastore, il quale tutti gli anni passava la state in quella capanna per condur a pascere un armento sui monti. La notte precedente aveva perduto tutto; una banda di zingari, i quali da qualche tempo infestavano la contrada, avean rapite tutte le pecore del suo padrone. «Jacopo,» aggiunse la donna, «avendo accumulato qualche peculio, avea comperato poche pecore per noi; ma adesso bisognerà darle per sostituire il gregge tolto al padrone; il peggio si è che quando questi saprà la cosa, non vorrà più affidarci i suoi montoni; è un uomo cattivo; ed allora, che cosa sarà de' nostri figliuoli?» L'atteggiamento di quella donna, la semplicità del suo racconto ed il suo sincero dolore indussero Sant'Aubert a crederne la trista storia. Valancourt, convinto ch'era vera, chiese tosto quanto valesse il gregge rubato; allorchè lo seppe, rimase sconcertato. Sant'Aubert diè qualche moneta alla donna; Emilia vi contribuì col suo borsellino, e quindi avviaronsi al luogo convenuto. Valancourt restò di dietro parlando colla moglie del pastore, la quale allora piangeva per la gratitudine e la sorpresa; le chiese quanto le mancasse ancora per ripristinare il gregge rapito. Trovò che la somma era quasi la totalità di quanto portava seco. Stava egli incerto ed afflitto.--Tale somma, dicea tra sè, basterebbe alla felicità di questa povera famiglia; sta in poter mio il darla, e renderli lieti e contenti; ma come farò poi io? come tornerò a casa col poco che mi resterà?--Esitò alcun tempo; trovava una voluttà singolare a salvare una famiglia dalla rovina, ma sentiva la difficoltà di proseguir la sua strada col poco danaro che avrebbesi riservato. Stava così perplesso, quando comparve lo stesso pastore. I figliuoli gli corsero incontro; egli ne prese uno in braccio, e coll'altro attaccato alla cintola, inoltrò a lenti passi. Il suo aspetto abbattuto, costernato, decise Valancourt; gettò tutto il danaro che avea, tranne pochi scudi, e corse dietro a Sant'Aubert, il quale, sorretto da Emilia, incamminavasi verso l'erta. Il giovane non erasi mai sentito l'animo sì leggero; il cuore balzavagli dalla gioia, e tutti gli oggetti a lui intorno parevano più belli ed interessanti. Sant'Aubert osservò i di lui trasporti, e gli disse: «Che cos'avete che sì v'incanta? --Oh! la bella giornata!» sclamava Valancourt; «come splende il sole, come pura è l'aura qual sito magico! --E stupendo!» disse Sant'Aubert, la cui felice esperienza spiegava facilmente l'emozione di Valancourt; «peccato che tanti ricchi, i quali potrebbero procurarsi a piacimento uno splendido sole, lascino avvizzir i lor giorni nelle nebbie dell'egoismo! Per voi, mio giovine amico, possa sempre il sole sembrarvi bello quant'oggi; possiate voi, nell'attiva vostra beneficenza, riunir sempre la bontà e la saviezza!» Valancourt, onorato di tal complimento, non potè rispondere se non con un sorriso, e fu quello della gratitudine. Continuarono a traversare il bosco tra le fertili gole de' monti. Giunti appena nel sito ove volean recarsi, tutti insieme proruppero in un'esclamazione; dietro ad essi, la rupe perpendicolare sorgeva a prodigiosa altezza e spartivasi allora in due punte egualmente alte. Le loro grige tinte contrastavano collo smalto de' fiori sbuccianti tra i crepacci; i burroni sui quali l'occhio scorrea rapido per ispingersi giù nella valle, erano sparsi anch'essi d'arboscelli; più giù ancora, un verde tappeto indicava i castagneti, in mezzo a' quali scorgeasi la capanna del povero pastore. Da ogni parte, i Pirenei ergeano le maestose cime; talune, carche d'immensi massi di marmo, mutavan colore ed aspetto nel medesimo tempo del sole; altre, ancor più alte, mostravan soltanto le nevose punte, e le basi colossali, uniformemente tappezzate, coprivansi sin giù nella valle di pini, larici e verdi querce. Questa valle, benchè stretta, era quella che conduceva al Rossiglione; i freschi pascoli, la doviziosa coltura contrastavano stupendamente colla grandiosità delle masse circostanti. Fra le catene prolungate di monti scoprivasi il basso Rossiglione, e la grande lontananza, confondendo tutte le gradazioni, parea riunir la costa ai candidi flutti del Mediterraneo. Un promontorio su cui sorgeva un faro indicava solo la separazione ed il lido; stormi d'uccelli marini volavano intorno. Più lungi però distinguevansi alcune bianche vele; il sole ne aumentava il candore, e la lor distanza dal faro ne facea giudicar la celerità; ma eravene di sì lontane, che servivan soltanto a separare il cielo ed il mare. Dall'altra parte della valle, proprio in faccia ai viaggiatori, eravi un passaggio fra le rocce, che guidava in Guascogna. Costà, nessun vestigio di coltura; gli scogli di granito ergevansi spontaneamente dalle basi, trapassando i cieli colle sterili aguglie; costà, nè foreste, nè cacciatori, nè tuguri: talvolta però un gigantesco larice gettava l'immensa sua ombra sopra un incommensurabile precipizio, e talfiata una croce sopra un dirupo accennava al viaggiatore il terribil destino di qualche imprudente. Il loco parea destinato a diventare un ricovero di banditi; Emilia ad ogni istante aspettavasi a vederli sbucare; poco dopo, un oggetto non meno terribile le colpì la vista. Una forca, eretta all'ingresso del passaggio, e proprio al disopra d'una croce, spiegava bastantemente qualche tragico fatto. Evitò essa di parlarne a Sant'Aubert, ma tal vista inquietolla; avrebbe voluto sollecitare il passo per giungere con certezza prima del tramonto. Ma il padre avea bisogno di rifocillarsi, e, sedendo sull'erba, i viaggiatori votarono il paniere. Sant'Aubert fu rianimato dal riposo e dall'aria serena di quella spianata. Valancourt era talmente estatico, talmente bisognoso di conversare, che parea aver dimenticata tutta la strada che restava da fare. Finito il pasto, fecero un lungo addio a quel sito maraviglioso e tornarono ad inerpicarsi. Sant'Aubert ritrovò la carrozza con piacere; Emilia vi salì secolui: ma volendo conoscere più minutamente la deliziosa contrada dove stavano per discendere, Valancourt slegò i suoi cani e li seguì a piedi; egli soffermavasi talvolta sopra le alture che gli offrivano un bel punto di vista; il passo delle mule permettevagli siffatte distrazioni. Se qualche luogo spiegava una rara magnificenza, tornava alla carrozza, e Sant'Aubert, troppo stanco per andar a goderne in persona, vi mandava la figlia e stavasene ad aspettarla. Era tardi quando calarono dalle belle alture che coronano il Rossiglione. Questa magnifica provincia è incassata nelle loro maestose barriere, non restando aperta che dalla parte del mare. L'aspetto della cultura abbelliva in fondo il paesaggio, ed il piano tingevasi de' più vividi colori, e quali il lussureggiante clima e l'industria degli abitanti potevano dovunque farli nascere. Boschetti d'aranci e di limoni imbalsamavan l'aere; i lor frutti già maturi dondolavano tra le frondi, e le coste dal facile declivio facevan pompa delle più belle uva. Più lungi, selve, pascoli, città, casali, il mare, sulla cui rifulgente superficie scorrevano molte vele sparse, un tramonto scintillante di porpora; questo passo, in mezzo ai monti che lo dominavano, formava la perfetta unione dell'ameno col sublime; era la bellezza dormente in seno all'orrore. I viaggiatori, giunti al basso, inoltrarono fra siepi di mirti e di melagrani fioriti sino alla piccola città d'Arles, dove contavan passar la notte. Trovarono un alloggio semplice, ma pulito; avrebbero passata una deliziosa sera, dopo le fatiche ed i godimenti del dì, se il momento della separazione che accostavasi non avesse sparso una nube su' loro cuori. Sant'Aubert voleva partir la domane, costeggiare il Mediterraneo e giungere così in Linguadoca. Valancourt, guarito troppo presto, ormai senza pretesto per seguire i suoi nuovi amici, dovea separarsene in quel luogo stesso. Sant'Aubert, il quale l'amava, proposegli di andar più innanzi; ma non reiterò l'invito, e Valancourt ebbe il coraggio di non accettare, per mostrare d'esserne degno. E' dovevano dunque lasciarsi la domane: Sant'Aubert per partire alla volta della Linguadoca, e Valancourt per riprendere la via de' monti onde riedere a casa. Tutta la sera non proferì sillaba, e stette soprappensieri: Sant'Aubert fu con lui affettuoso, ma però grave; Emilia fu seria, benchè cercasse di comparir allegra; e dopo una delle più malinconiche sere che mai avessero passate insieme, separaronsi per la notte. CAPITOLO VI Il giorno dipoi, Valancourt fece colazione coi compagni, ma nessun d'essi parea aver dormito. Sant'Aubert portava l'impronta dell'oppressione e del languore. Emilia trovava la di lui salute molto infiacchita, e le sue inquietudini crescevano del continuo: osservava essa tutti i di lui sguardi con timida premura, e la loro espressione si trovava subito fedelmente ripetuta ne' suoi. Sin dal principio della loro conoscenza, Valancourt aveva indicato il suo nome e la sua famiglia. Sant'Aubert conosceva l'uno e l'altra, non meno che i beni delle sua casa, posseduti allora da un fratello maggiore di Valancourt, i quali distavano otto leghe circa dal suo castello; ed aveva incontrato questo fratello in qualche luogo del vicinato. Questi preliminari avevano facilitato la sua ammissione; il contegno, le maniere e l'esterior suo gli avevano guadagnata la stima di Sant'Aubert, che volentieri fidava nel proprio criterio, ma rispettava le convenienze; e tutte le buone qualità che riconosceva in lui, non gli sarebbero parse motivi sufficienti per avvicinarlo tanto alla figlia. La colazione fu quasi taciturna, quanto eralo stata la cena della sera precedente; ma la loro meditazione fu interrotta dal romore della carrozza che doveva condur via Sant'Aubert ed Emilia. Valancourt si alzò, corse alla finestra, riconobbe la carrozza, e tornò alla sua sedia senza parlare. Il momento di separarsi era omai giunto. Sant'Aubert disse al giovane che sperava rivederlo nella valle, e che non vi sarebbe passato di certo senza onorarli di una visita. Valancourt lo ringraziò affettuosamente, e l'assicurò che non ci avrebbe mai mancato: sì dicendo guardava timidamente Emilia, la quale si sforzava di sorridere in mezzo alla sua profonda tristezza; passarono qualche minuto in un colloquio animatissimo; Sant'Aubert s'avviò alla carrozza, Emilia e Valancourt lo seguirono in silenzio: il giovane restava fermo allo sportello, e quando furono saliti pareva che nessuno avesse il coraggio di dirsi addio. In fine Sant'Aubert pronunziò la trista parola; Emilia fece altrettanto a Valancourt, che lo ripetè con un sorriso forzato, e la carrozza si mise in moto. I viaggiatori restarono a lungo in silenzio. Sant'Aubert finalmente disse: «È un giovine interessante; sono molti anni che una conoscenza sì breve non m'ha così affettuosamente colpito. Egli mi ricorda i giorni della mia gioventù, quel tempo in cui tutto mi sembrava ammirabile e nuovo.» Sospirò, e ricadde nella sua meditazione. Emilia si affacciò alla portiera, e rivide Valancourt immobile sulla porta, che li seguiva cogli occhi; egli la scorse, e salutolla colla mano; ella gli restituì il saluto, ma ad una svolta della strada non potè più vederlo. «Mi ricordo ciò ch'era io in quell'età,» soggiunse Sant'Aubert; «io pensava e sentiva precisamente come lui. Il mondo allora aprivasi dinanzi a me, ed or esso si chiude. --O caro papà, non abbandonatevi a pensieri sì lugubri,» disse Emilia con voce tremante; «voi avete, spero, da vivere molti anni, per la vostra felicità e la mia. --Ah Emilia!» sclamò Sant'Aubert; «pel tuo! sì, spero che abbia ad esser così.» Asciugò una lagrima che scorrevagli lungo le guance, e sorridendo della sua emozione, aggiunse con voce tenera: «Avvi qualcosa nell'ardore ed ingenuità di quel giovane, che dee soprattutto commovere un vecchio, di cui il veleno del mondo non alterò i sentimenti; sì, io scopro in lui un non so che d'insinuante, di vivificante, come la vista della primavera quando si è infermi. Lo spirito del malato assorbe qualcosa del succhio rinnovantesi, e gli occhi si rianimano ai raggi meridiani; Valancourt è per me questa felice primavera.» Emilia, la quale stringea amorosamente la mano del padre, non aveva mai udito dalla sua bocca un simile elogio che le riescisse tanto gradito, nemmen quand'erane stata ella medesima l'oggetto. Viaggiavano in mezzo a vigneti, boschi e prati, entusiasmati ad ogni passo di quel magnifico paesaggio cui limitavan i Pirenei e l'immenso pelago. Dopo mezzodì giunsero a Calliure, situato sul mediterraneo. Vi pranzarono, e lasciata passare la caldura, ripresero a seguire i magici lidi che stendonsi fin nella Linguadoca. Emilia considerava con entusiasmo il vasto impero dell'onde, di cui i lumi e le ombre variavan tanto singolarmente la superficie, e le cui spiagge, adorne di boschi, rivestivan già le prime assise dell'autunno. Sant'Aubert era impaziente di trovarsi a Perpignano, dove aspettava lettere di Quesnel, e per tal motivo aveva lasciato tosto Calliure, malgrado l'urgente bisogno di qualche riposo. Dopo alcune leghe di strada, addormentossi; ed Emilia, la quale avea messi due o tre libri in carrozza partendo dalla valle, ebbe agio di farne uso. Essa cercò quello che aveva letto Valancourt il dì prima: desiderava ripassar le pagine sulle quali gli occhi d'un amico sì caro eransi fissati poc'anzi. Volea riandar i passi ch'egli ammirava, pronunziarli com'egli facea, e ricondurlo, per dir così, alla di lei presenza. Cercando questo libro ch'essa non potea trovare, scorse in vece sua un volume del Petrarca, appartenente al giovane, il cui nome vi appariva sopra scritto. Spesso ei gliene leggeva alcuni brani, e sempre con quella patetica espressione che caratterizzava i sentimenti dell'autore. Arrivarono a Perpignano subito dopo il tramonto del sole. Sant'Aubert vi trovò le lettere che aspettava da Quesnel. Se ne mostrò così dolorosamente commosso, che Emilia, spaventata, lo scongiurò, per quanto glielo permise la delicatezza, di spiegargliene il contenuto. Non le rispose se non con lacrime, e tosto parlò di tutt'altro. Emilia credè bene di non sollecitarlo ulteriormente, ma lo stato di suo padre l'occupava forte, e non potè dormire per tutta la notte. Il dì seguente continuarono lungo la costa per giungere a Leucate, porto del Mediterraneo, situato sulle frontiere del Rossiglione e della Linguadoca. Cammin facendo, Emilia rinnovò la istanze del dì prima, e parve talmente turbata dal silenzio e della disperazione di Sant'Aubert, che questi bandì alfine qualunque riguardo. «Io non voleva, cara Emilia,» le diss'egli, «avvelenare i tuoi piaceri, e avrei desiderato, almeno durante il viaggio, nasconderti circostanze, che avrei pur troppo dovuto manifestarti un giorno; la tua afflizione me lo impedisce, e tu soffri forse più dell'incertezza che non soffriresti della verità. La visita del signor Quesnel fu per me un'epoca fatale; ei mi disse allora parte delle notizie dispiacenti che mi vengono ora confermate dalle sue lettere. Tu mi avrai inteso parlare d'un tal Motteville di Parigi, ma ignoravi che la maggior porzione di quanto possiedo era deposto in sue mani; io aveva in lui cieca fiducia, e non voglio ancora crederlo indegno della mia stima: parecchie circostanze hanno concorso alla sua rovina, ed io sono rovinato con lui.» Qui si fermò per moderare la sua emozione. «Le lettere che ho ricevute dal signor Quesnel» continuò egli eccitandosi a fermezza, «ne contenevano altre di Motteville stesso, e tutti i miei timori sono confermati. --Bisognerà egli abbandonare il nostro castello?» disse Emilia dopo un lungo silenzio. --Non è per anco ben certo,» disse Sant'Aubert; «ciò dipenderà dall'accordo che Motteville potrà fare co' suoi creditori. Il mio patrimonio, tu lo sai, non era molto pingue, ed ora non è quasi più nulla. Io ne sono afflittissimo per te sola, figlia cara.» A tai parole gli mancò la voce. Emilia, tutta lacrimosa, gli sorrise teneramente, e sforzandosi di superare la sua agitazione, gli rispose: «Non vi affliggete nè per voi nè per me, o mio buon padre. Noi possiamo essere ancora felici. Sì, se ci resta il castello della valle, noi lo saremo certamente; terremo una sola donna di servizio, e non vi accorgerete del cambiamento della vostra fortuna. Consolatevi, caro papà, noi non proveremo nessuna privazione, giacchè non abbiamo mai gustato le vane superfluità del lusso, e la povertà non potrà privarci giammai dei nostri più dolci godimenti; essa non potrà nè diminuire la nostra tenerezza, nè avvilirci ai nostri occhi od a quelli delle persone che ci stimano.» Sant'Aubert celossi il volto nel fazzoletto, non potendo parlare; ma Emilia continuò a favellare al padre le verità ch'egli stesso avea saputo inculcarle. «La povertà,» essa gli dicea, «non potrà privarci d'alcuno de' diletti dell'anima; voi potrete sempre essere un esempio di coraggio e bontà, ed io la consolazione d'un prediletto genitore.» Sant'Aubert non poteva rispondere: strinse Emilia al cuore: le loro lacrime si confusero, ma non erano più lacrime di tristezza. Dopo questo linguaggio del sentimento, ogni altro sarebbe stato troppo debole, ed entrambi stettero silenziosi. Sant'Aubert parlò in seguito secondo il consueto, e se lo spirito non era nella sua ordinaria tranquillità, ne aveva almeno ripresa l'apparenza. Giunsero a Leucate assai per tempo, ma Sant'Aubert era stanchissimo, e volle passarvi la notte. La sera andò a passeggiare colla figlia per visitarne i contorni. Si scuopriva il lago di Leucate, il Mediterraneo, una parte del Rossiglione circondato dai Pirenei, ed una porzione molto considerevole della Linguadoca e delle sue fertilissime campagne. Le uve, già mature, rosseggiavano sui colli aprichi, e la vendemmia era principiata. I due passeggianti vedevano i crocchi giulivi, udivano le canzoni a lor recate sui vanni di lieve zeffiro e godevano anticipatamente di tutti i piaceri che lor promettea la strada. Sant'Aubert nondimeno non volle lasciar il mare: bene spesso fu tentato di tornarsene nella valle, ma il piacere che prendeva Emilia a questo viaggio, contrabbilanciava sempre questo desiderio; e d'altronde, voleva far la prova se l'aria marina non lo sollevasse un poco. Il giorno seguente si rimisero in cammino. I Pirenei, sebbene molto lontani, offrivano una veduta delle più pittoresche; a destra aveano il mare, ed a sinistra immense pianure, che si confondevano coll'orizzonte. Sant'Aubert se ne rallegrava, e ne parlava con Emilia; ma la sua allegria era più finta che naturale, ed ombre di tristezza facean velo bene spesso alla sua fisonomia: un sorriso però di Emilia bastava per dissiparle; ma ella stessa aveva il cuore straziato, e vedeva benissimo che gli affanni del padre indebolivano visibilmente tutti i giorni la sua salute. Giunsero molto tardi ad una piccola città della Linguadoca; avevano prefisso di dormirvi, ma fu impossibile; la vendemmia teneva occupati tutti i posti, e convenne recarsi ad un villaggio più lontano; la stanchezza ed i patimenti di Sant'Aubert richiedevano un pronto riposo, e la notte era già avanzata; ma la necessità non ha legge, e Michele continuò il suo cammino. Le ubertose pianure della Linguadoca, nel fervore delle vendemmia, rintronavano de' frizzi e della rumorosa allegria francese. Sant'Aubert non potea più goderne; il suo stato contrastava troppo tristamente col brio, la gioventù e i piaceri che circondavanlo. Quando volgea i languidi occhi su quella scena, pensava che in breve non la vedrebbero più.--Que' monti lontani ed eccelsi,» dicea tra sè, considerando i Pirenei ed il tramonto, «queste belle pianure, quella vôlta azzurra, la cara luce del dì, saranno per sempre interdette a' miei sguardi; fra poco la canzone del contadino, la voce consolatrice dell'uomo non giugneranno più all'orecchio mio...-- Gli occhi d'Emilia parean leggere tutto che passava nell'animo del padre: essa li fissava sul di lui viso coll'espressione d'una tenera pietà. Dimenticando allora gli argomenti d'un vano rammarico, non vide più altro che lei, e l'orribile idea di lasciar la figlia senza protettore, cambiò la sua pena in un vero tormento; sospirò dal cuor profondo, e non mosse labbro. Emilia comprese quel sospiro; gli strinse le mani con tenerezza, e si volse dalla parte della portiera per nascondere le lagrime. Il sole proiettava allora un ultimo raggio sul Mediterraneo, i cui vapori parevano tutti d'oro; a poco a poco le ombre del crepuscolo si distesero; una zona scolorita apparve solo a ponente, segnando il punto dove il sole erasi perduto nelle brume d'una sera autunnale. Una fresca brezzolina sorgeva dalla spiaggia. Emilia calò i cristalli; ma la frescura, sì gradevole nello stato di salute, non era necessaria per un infermiccio, e il padre la pregò di rialzarli. Crescendo la sua indisposizione, pensava allora più che mai a por fine alla marcia del dì; fermò Michele per sapere a qual distanza fossero dal primo villaggio. «A quattro leghe,» disse il mulattiere.--Io non potrò farle,» disse Sant'Aubert; «cercate, nell'andare innanzi, se non vi fosse una casa sulla strada in cui possano riceverci per istanotte.» Si rigettò in carrozza; Michele fe' schioccar la frusta, e galoppò finchè Sant'Aubert quasi fuor de' sensi, gli fece segno di fermarsi. Emilia guardava alla portiera: vide alla perfine un contadino a qualche distanza: lo aspettarono e gli chiesero se non vi fosse ne' dintorni alloggio pe' viaggiatori. Rispose di non conoscerne. «C'è un castello in mezzo ai boschi,» soggiunse, «ma io credo che non vi si riceve nessuno, e non posso insegnarvene la strada essendo quasi io stesso forestiero.» Sant'Aubert stava per rinnovellare le sue domande sul castello; ma l'uomo piantollo lì e se ne andò. Dopo un momento di riflessione, Sant'Aubert ordinò a Michele di andare pian piano verso i boschi. Ad ogni istante il crepuscolo diventava più oscuro, e la difficoltà di guidarsi cresceva. Passò un altro paesano. «Quale è la strada del castello ne' boschi?» gridò Michele. --Il castello ne' boschi!» sclamò il paesano. «Volete parlare di quelle torrette? --Non so se son torrette,» disse Michele: «parlo di quel caseggiato bianco che vediamo da lungi in mezzo a tutti quegli alberi. --Sì, son torrette. Ma che! fareste conto d'andarci?» rispose l'uomo con sorpresa. Sant'Aubert, udendo quella strana interrogazione colpito in ispecie dall'accento con cui la si faceva, scese di carrozza e gli disse: «Noi siamo viaggiatori, e cerchiamo una casa per passarvi la notte: ne conoscete voi qui una vicina? --No, signore,» rispose l'uomo «a meno che non voleste tentar fortuna in que' boschi: ma io per me non ve lo consiglierei. --A chi appartiene quel castello? --Nol so, signore. --È dunque disabitato? --No, non è disabitato; il castaldo e la governante, vi sono, a quanto credo.» All'udir ciò, Sant'Aubert si decise a rischiare un rifiuto presentandosi al castello. Pregò il contadino di servir di guida a Michele, e gli promise una ricompensa. L'uomo riflettè un poco, e disse che avea altre faccende, ma che non potevano sbagliare seguendo il viale cui accennò. Sant'Aubert stava per rispondere, quando il paesano, augurandogli la buona notte, lo lasciò senza aggiugner altro. La carrozza si diresse al viale, cui si trovò sbarrata da una stanga; Michele smontò ed andò a levarla. Penetrarono allora tra antichi castagni e querce annose, i cui rami intralciati formavano una vôlta altissima: eravi qualcosa di deserto e di selvaggio nell'aspetto di quel viale, ed il silenzio erane tanto imponente, che Emilia si sentì côlta da involontario tremore. Ricordavasi l'accento del paesano nel parlare di quel castello: essa dava alle di lui parole un'interpretazione più misteriosa che non avesse fatto prima: cercò nullameno di calmare la paura; pensò che un'imaginazione turbata ne l'avea resa suscettibile, e che lo stato del padre e la sua propria situazione dovevano senza dubbio contribuirvi. Inoltrarono lentamente; l'oscurità era quasi completa: il terreno disuguale e le radici degli alberi che l'imbarazzavano ad ogni tratto obbligavano a molta precauzione. D'improvviso, Michele si fermò: Sant'Aubert guardò per saperne la causa. Vide a qualche distanza una figura traversare il viale; faceva troppo buio per distinguere di più, ed egli ordinò d'avanzare. «Mi sembra un luogo strano,» disse Michele; «non veggo case, e faremmo meglio a tornar indietro. --Andate un po' più innanzi, e se non vedremo edifizi, torneremo sulla strada maestra.» Michele s'avanzò, ma con ripugnanza; e l'eccessiva lentezza della sua marcia fe' riaffacciare Sant'Aubert alla portiera, e vide ancora la medesima figura. Questa volta trasalì. Probabilmente l'oscurità lo rendea proclive a spaventarsi più del consueto; ma, checchè esser potesse, fermò Michele, e gli disse di chiamar l'individuo che traversava di tal modo il viale. «Con vostro permesso,» disse Michele, «può bene essere un ladro. --Nol permetto di certo,» ripigliò Sant'Aubert, non potendo astenersi dal sorridere a quella frase; «via, torniamo sulla strada, chè non veggo alcuna apparenza di trovar qui quel che cerchiamo.» Michele voltò con vivacità, e rifece velocemente il viale; una voce partì allora d'in fra gli alberi a sinistra; non era un comando, non un grido di dolore, ma un suono roco e prolungato che nulla avea d'umano. Michele spronò le mule senza pensare all'oscurità, nè agl'intoppi, nè alle buche, e neppure alla carrozza; nè si fermò se non quando fu uscito dal viale, e giunto sulla strada infine, rallentò il passo. «Io sto assai male,» disse Sant'Aubert stringendo la mano della figlia, la quale, spaventata dal tuono di voce del padre, esclamò: «Gran Dio! voi state più male, e noi siamo senza soccorso; come faremo?» Egli appoggiò la testa sulla di lei spalla; essa lo sostenne fra le sue braccia, e fece fermar la carrozza. Appena il rumore delle ruote fu cessato, sentirono musica in lontananza, lo che fu la voce della speranza per Emilia, che disse: «Oh! noi siamo vicini a qualche abitazione, e potremo trovarci aiuto.» Ascoltò attenta: il suono era molto lontano, e parea venire dal fondo di un bosco, una parte del quale costeggiava la strada. Guardò dalla parte d'onde venivano i suoni, e vide al chiaro di luna qualcosa che somigliava ad un castello, ma era difficile di giungervi. Sant'Aubert stava troppo male per sopportare il più piccolo movimento: Michele non poteva abbandonare le mule; Emilia, che sosteneva ancora il padre, non voleva abbandonarlo, e temeva pur di avventurarsi sola a tal distanza, senza sapere dove ed a chi indirizzarsi: frattanto bisognava prendere un partito, e senza dilazione. Sant'Aubert disse dunque a Michele di avanzare più lentamente che gli fosse possibile, e dopo un momento svenne. La carrozza si fermò di nuovo; egli era privo affatto dell'uso dei sensi. «Ah! padre mio, mio caro padre!» gridava Emilia disperata; e credendolo in punto di morte, esclamò: «Parlate, ditemi una sola parola; ch'io ascolti anche una volta il suono della vostra voce.» Egli non rispose nulla: spaventata sempre più, ordinò a Michele di andare ad attingere acqua nel ruscello vicino; egli ne portò un poco nel suo cappello, che la ragazza spruzzò sul viso del genitore. I raggi della luna, riflettendo allora sopra di lui, mostravano l'impressione della morte. Tutti i movimenti di terrore personale cedettero in quel punto a un timore dominante, e, confidando Sant'Aubert a Michele, il quale con molta difficoltà lasciò le mule, Emilia saltò fuori della carrozza per cercare il castello che aveva veduto da lontano, e la musica che dirigeva i suoi passi, la fece entrare in un sentiero che conduceva nell'interno del bosco. Il suo spirito, unicamente occupato del padre e della sua propria inquietudine, aveva dapprincipio perduto qualunque timore; ma la foltezza degli alberi, sotto i quali passava, intercettavano i raggi della luna; l'orrore di quel luogo le rammentò il suo pericolo; la musica era cessata, e non le restava altra guida che il caso. Si fermò un poco con uno spavento inesprimibile; ma l'immagine del padre vinse ogni altro sentimento, e si rimise in cammino. Non vedeva nessuna abitazione, nessuna creatura, e non udiva il più piccolo romore; camminava sempre senza saper dove, scansava il folto del bosco e si teneva in mezzo il più che poteva; finalmente vide una specie di viale in disordine che metteva ad un punto illuminato dalla luna; lo stato di quel viale le rammentò il castello delle torrette, e non dubitò più di esserne vicina. Esitava a procedere, quando un romore di voci e scrosci di risa colpirono all'improvviso il suo udito; non era un riso di allegrezza, ma quello di una gioia smoderata, ed il suo imbarazzo crebbe d'assai. Mentre essa ascoltava, una voce in gran distanza si fece sentire dalla parte della strada ond'era partita; immaginandosi che fosse Michele, suo primo pensiero fu quello di tornare indietro, ma poi non seppe risolversi. L'ultima estremità poteva solamente aver deciso Michele a lasciare le sue mule: credè il padre moribondo, e corse con maggiore celerità, nella debole lusinga di ricevere qualche soccorso da' convitati del bosco. Il suo cuore palpitava per terribile incertezza; e più si avanzava, più il romore delle foglie secche la faceva tremare ad ogni passo. Giunse ad un luogo scoperto illuminato dalla luna; si fermò, e scorse fra gli alberi un banco erboso formato a cerchio cui stavan sedute parecchie persone. Nell'avvicinarsi, giudicò dal loro abbigliamento che dovevano essere contadini, e distinse sparse pel bosco varie capanne. Mentre guardava e si sforzava di vincere il timore che la rendeva immobile, alcune villanelle uscirono da una capanna; la musica seguitò e ricominciarono a ballare; era la festa della vendemmia, e l'istessa musica udita da lontano. Il di lei cuore, troppo lacerato, non poteva sentire il contrasto che tutti quei piaceri formavano colla propria situazione; si fece innanzi ad un gruppo di vecchi assisi vicino alla capanna, espose la sua circostanza, e ne implorò l'assistenza. Parecchi si alzarono con vivacità, offrirono tutti i loro servigi, e seguirono Emilia, che parea aver l'ali correndo verso la strada maestra. Quando furono giunti alla carrozza, essa trovò il padre rinvenuto. Ricuperando i sensi, aveva inteso da Michele la partenza della figlia; la sua inquietudine per lei oltrepassando il sentimento dei suoi bisogni, aveva mandato Michele a cercarla; non pertanto era tuttora in istato di languore, e sentendosi incapace di andar più oltre, rinnovò le sue domande sopra un albergo, o sul castello del bosco. «Il castello non può ricevervi,» disse un contadino venerabile, il quale aveva seguito Emilia, «esso è appena abitato; ma se volete farmi l'onore di accettare il mio tugurio, vi darò il mio letto migliore.» Sant'Aubert era francese: non istupì dunque della cortesia di un francese. Malato com'era, sentì quanto valore acquistava l'offerta, dalla maniera colla quale era fatta. Aveva troppa delicatezza per iscusarsi, o per esitare un sol momento a ricevere quell'ospitalità contadinesca; l'accettò dunque con altrettanta franchezza, quanta n'era stata adoperata nell'offerta. La carrozza camminò lentamente, seguitando i contadini per la strada già fatta da Emilia, e giunsero alla capanna. L'affabilità del suo ospite, e la certezza di un pronto riposo, resero le forze a Sant'Aubert; egli vide con dolce compiacenza quel quadro interessante; i boschi, resi più cupi dal contrasto, circondavano il sito illuminato; ma diradandosi ad intervalli, un bianco chiarore ne facea spiccar una capanna o riflettevasi in un rigagnolo; egli ascoltò con piacere i suoni allegri della chitarra e del tamburello, ma non potè vedere senza emozione il ballo di que' villici. Non avvenne l'egual cosa di Emilia: l'eccesso dello spavento si era cambiato in una profonda tristezza, e gli accenti della gioia facendo luogo a spiacevoli confronti, servivano ancora a raddoppiarla. Il ballo cessò all'avvicinarsi della carrozza: era un fenomeno in quei boschi remoti, e tutti la circondarono con istraordinaria curiosità. Appena intesero che vi era un forestiero ammalato, molte fanciulle traversarono il prato, tornarono immediatamente con vino e canestri di frutta, e li offersero ai viaggiatori disputandosi la preferenza. La carrozza si fermò finalmente vicino ad una casuccia decentissima, che apparteneva al venerabile condottiero; egli aiutò Sant'Aubert a scendere, e lo condusse con Emilia in una stanzetta terrena, illuminata soltanto dalla luna. Sant'Aubert, lieto di trovare il desiato riposo, si adagiò sopra una specie di poltrona. L'aria fresca e balsamica, impregnata di soavi effluvi, penetrava nella stanza dalle finestre aperte e rianimava le sue facoltà infiacchite. Il suo ospite che si chiamava Voisin, tornò immediatamente con frutta, crema, e tutto il lusso campestre che poteva somministrare il suo ritiro. Offrì tutto col sorriso della cordialità, e si mise in piedi dietro la sedia di Sant'Aubert, il quale insistè per fargli prendere posto a tavola; quando i frutti ebbero calmato la di lui sete ardente, si sentì un poco sollevato, e cominciò a discorrere. L'ospite gli comunicò tutte le particolarità relative a lui ed alla sua famiglia. Questo quadro di unione domestica, dipinto col sentimento del cuore, non poteva mancare di eccitare il più vivo interesse. Emilia, seduta vicino al padre, tenendo una mano fra le sue, ascoltava attenta il buon vecchio. Il di lei cuore era pieno di tristezza e versava lacrime, pensando che quanto prima non avrebbe più posseduto il prezioso bene di cui essa godeva ancora. Il fioco raggio della luna autunnale, e la musica che si faceva ancora sentire da lontano, s'accordavano colla sua malinconia. Il vecchio parlava della sua famiglia, e Sant'Aubert taceva. «Non mi resta più che una figlia,» disse Voisin, «ma fortunatamente essa è maritata e mi tiene luogo di tutto. Quando morì mia moglie,» aggiuns'egli sospirando, «io andai a riunirmi con Agnese e la sua famiglia. Essa ha parecchi figli, che voi vedete ballare laggiù, allegri e grassi come tanti fringuelli. Possano eglino esser sempre così! io spero morire in mezzo a' loro, o signore: ora son vecchio, e mi resta poco da vivere; ma è una gran consolazione il morire fra i suoi figli. --Mio buon amico,» disse Sant'Aubert con voce tremante, «voi vivrete, lo spero, lungamente in mezzo ad essi. --Ah, signore! nella mia età, non ho molto luogo a sperarlo.» Il vecchio fece una pausa. «Eppoi lo desidero appena,» ripigliò quindi. «Ho fiducia che, se muoio, andrò difilato al cielo; la mia povera moglie vi è prima di me. La sera, al chiaro di luna, credo vederla vagolar presso questi boschi cui amava tanto. Credete voi, signore, che noi possiam visitare la terra, quando avremo lasciati i nostri corpi? --Non dubitatene,» gli rispose Sant'Aubert; «le separazioni sarebbero troppo dolorose se le credessimo eterne. Sì, Emilia cara, noi ci ritroveremo un dì.» Alzò gli occhi al cielo, ed i raggi della luna, che cadevan sopra di lui, mostrarono tutta la pace e la rassegnazione dell'anima sua, malgrado l'espressione della tristezza. Voisin comprese aver troppo prolungato il tema, e l'interruppe dicendo: «Ma noi siamo all'oscuro; abbiamo bisogno di un lume. --No,» gli disse Sant'Aubert, «preferisco il chiaro della luna: non v'incomodate, caro amico. Emilia, amor mio, io sto ora assai meglio di quel che non lo sia stato tutto il giorno. Quest'aria mi rinfresca; io gusto questo riposo, e mi compiaccio di ascoltare questa bella musica che si ode in lontananza. Lasciami vedere il tuo sorriso. Chi è che suona così bene la chitarra?» diss'egli in seguito; «son due strumenti oppure un'eco? --È un'eco, o signore, almeno io lo credo. Ho inteso spesso questo strumento la notte, quando tutto è in calma: ma nessuno conosce chi lo suona. Talvolta è accompagnato da una voce, ma sì dolce e così trista, che si potrebbe credere compaiano spiriti nel bosco. --Vi compariranno per certo,» disse Sant'Aubert sorridendo, «ma in carne ed ossa. --Qualche volta, a mezzanotte, quando non posso dormire,» proseguì Voisin, il quale non badò a quell'osservazione, «l'ho sentita quasi sotto le mie finestre, nè mai ho intesa musica tanto piacevole: essa mi faceva pensare alla mia povera moglie, e piangeva. Talfiata apersi la finestra per procurare di scorgere qualcuno, ma nell'istante medesimo cessava l'armonia, e non si vedeva nessuno. Ascoltava con tanto raccoglimento, che il rumore d'una foglia o il menomo vento finiva col farmi paura. Si diceva che questa musica fosse un annuncio di morte; ma son molti anni che l'ascolto e sopravvivo ancora a questo tristo presagio.» Emilia sorrise ad una superstizione tanto ridicola, e non pertanto, nella posizione del suo spirito, essa non potè del tutto resistere alla sua impressione contagiosa. «Va bene, amico mio, disse Sant'Aubert; ma se qualcuno avesse avuto il coraggio di andar dietro al suono, il musico sarebbe stato conosciuto. Nessuno l'ha fatto? --Sì, signore, fu tentato più volte, si è seguita la musica sino al bosco, ma essa si ritirava a misura che noi avanzavamo, e sembrava sempre alla medesima distanza: i nostri villani hanno avuto paura, e non vollero andar più oltre. Ben di rado la si sente tanto di buon'ora come stasera; d'ordinario ciò accade verso mezzanotte quando quella fulgida stella che si trova adesso al di sopra di quelle torrette tramonta a sinistra del bosco. --Quali torrette?» domandò Sant'Aubert; «io non ne vedo alcuna. --Perdonate, signore, eccone là una, sulla quale riflette la luna; vedete voi quel viale? il castello è quasi nascosto interamente dagli alberi. --Sì, papà,» disse Emilia guardando; «non vedete voi qualche cosa brillare al disopra del bosco? io credo sia una banderuola, sulla quale riflettono i raggi della luna. --Sì, ora vedo ciò che mi accenni. Di chi è quel castello? --Il marchese di Villeroy ne era il possessore,» rispose Voisin con fare d'importanza. --Ah!» disse Sant'Aubert agitatissimo: «siamo dunque così vicini a Blangy? --Era la dimora favorita del marchese,» soggiunse Voisin; «ma la prese in antipatia, e son molti anni che non vi è stato: mi fu detto che è morto da poco tempo, e che questo feudo passò in altre mani.» Sant'Aubert, ch'era caduto in pensieri, uscì dalla sua meditazione a queste ultime parole esclamando: «Morto! gran Dio! e da quanto tempo?» --Mi fu detto esser già da quattro settimane,» rispose Voisin; «lo conoscevate voi forse? --È cosa straordinaria,» rispose Sant'Aubert, senza fermarsi alla domanda. --E perchè?» disse Emilia con timida curiosità. Egli non rispose, e ricadde nella sua meditazione; ne uscì poco dopo, e domandò chi fosse il suo erede. «Mi son dimenticato del nome» disse Voisin; «ma so che questo signore abita Parigi, e che non pensa neppur per ombra di venire al suo castello. --Il castello è egli ancora chiuso? --A un bel circa, signore; la vecchia castalda e suo marito ne hanno cura, ma vivono in una casuccia poco distante. --Il castello è spazioso,» disse Emilia, «e dee essere molto deserto, se non ha che due abitanti. --Deserto! oh sì, signorina,» rispose Voisin; «non vorrei passarvi la notte per tutti i tesori del mondo. --Che dite mai?» soggiunse Sant'Aubert, uscendo dalla sua meditazione; e Voisin ripetè l'istessa protesta. Sant'Aubert non potè trattenere una specie di singulto; ma quasi avesse voluto evitare le osservazioni, domandò prontamente a Voisin da quanto tempo abitasse quel paese. «Quasi dalla infanzia,» rispose l'ospite. --Vi rammentate voi della defunta marchesa?» disse Sant'Aubert con voce alterata. --Ah! signore, se me lo ricordo; ve ne sono molti altri che non l'hanno dimenticata neppur essi. --Sì,» rispose Sant'Aubert, «ed io sono uno di quelli. --Dunque vi ricorderete d'una bella ed eccellente signora: dessa meritava una sorte migliore.» Sant'Aubert versò qualche lagrima. «Basta,» diss'egli con voce quasi soffocata, «basta, amico mio.» Emilia, sebbene sorpresissima, non si permise di manifestare i suoi sentimenti con veruna dimanda. Voisin volle scusarsi, ma Sant'Aubert l'interruppe. «L'apologia è inutile,» gli disse; «cambiamo piuttosto tema di conversazione. Voi parlavate della musica che abbiamo sentita. --Sì, signore, ma zitto, essa ricomincia; ascoltate questa voce.» Udirono infatti una voce dolce, tenera ed armoniosa, ma i cui suoni, debolmente articolati, non permettevano di distinguer nulla che somigliasse a parole. Ben presto essa cessò, e lo strumento che l'accompagnava intuonò teneri concenti. Sant'Aubert osservò che i tuoni n'erano più pieni e melodiosi di quelli d'una chitarra, ed anche più malinconici di quelli d'un liuto. Continuarono ad ascoltare, e non sentirono più nulla. «Questo è strano,» disse Sant'Aubert, rompendo alfine il silenzio. --Stranissimo,» disse Emilia. --È vero,» soggiunse Voisin; e tacquero tutti. Dopo una lunga pausa, Voisin ripigliò: «Sono circa diciotto anni che intesi questa musica per la prima volta in una bellissima notte estiva, men ricordo; ma era più tardi. Io passeggiava solo nel bosco; mi ricordo ancora ch'era molto afflitto; aveva un figliuolo malato, e temeva di perderlo; aveva vegliato tutta sera al suo letto, mentre sua madre dormiva, avendolo essa assistito tutta la notte precedente. Uscii per prendere un po' d'aria; la giornata era stata caldissima, ed io passeggiava pensieroso sotto gli alberi; udii una musica in lontananza, e pensai fosse Claudio che suonasse la sua zampogna; egli era amantissimo di questo strumento. Quando la sera era bella, stavasi un pezzo sulla sua porta a suonare; ma quando arrivai in un luogo ove gli alberi erano meno folti (non me ne scorderò per tutta la vita), mentr'io guardava le stelle di settentrione, che in quel momento erano molto alte, tutto a un tratto udii suoni, ma suoni ch'io non posso descrivere: sembrava un concerto di angeli; guardai attentamente, e mi pareva sempre di vederli salire al cielo. Quando tornai a casa, raccontai ciò che aveva ascoltato; si burlarono tutti di me, e mi dissero ch'erano pastori, i quali avean suonato il loro flauto; non potei mai persuaderli del contrario. Poche sere dopo, mia moglie udì l'istessa armonia, e fu sorpresa quanto me. Il padre Dionigi la spaventò moltissimo, dicendole che il cielo mandava questo avvertimento per annunziare la morte di suo figlio, e che questa musica aggiravasi intorno alle case, contenenti qualche moribondo.» Emilia, nell'ascoltare quelle parole, si sentì colpita da un timore superstizioso affatto nuovo per lei, ed ebbe molta difficoltà a nascondere il suo turbamento al padre. «Ma nostro figlio visse, o signore, a dispetto del padre Dionigi. --Il padre Dionigi?» disse Sant'Aubert, il quale ascoltava con attenzione tutti i racconti del buon vecchio; «noi siam dunque vicini ad un convento? --Sì, signore, il convento di Santa Chiara è poco distante da noi; esso è sulla riva del mare. --O cielo!» sclamò Sant'Aubert, come colpito da un'improvvisa rimembranza; «il convento di Santa Chiara!» Emilia osservò che ai segni del dolore sparsi sulla di lui fronte, mescolavasi un sentimento di orrore. Esso restò immobile; l'argenteo chiaror della luna colpivagli allora il volto; somigliava ad una di quelle marmoree statue che, poste su di un mausoleo, sembran vegliare sulle fredde ceneri, ed affliggersi senza speranza. «Ma, caro papà,» disse Emilia, volendo distrarlo dai tristi pensieri, «voi vi scordate quanto avete bisogno di riposo; se il nostro buon ospite me lo permette, io andrò a prepararvi il letto, giacchè so come desiderate che sia fatto.» Sant'Aubert si raccolse alquanto, e sorridendole con dolcezza, la pregò di non aumentare la sua fatica con questa nuova premura. Voisin, la cui cortesia era stata sospesa dall'interesse che avevano eccitato i suoi racconti, si scusò di non aver fatto venire ancora Agnese, ed uscì per andare a prenderla. Poco dopo tornò, conducendo sua figlia, giovine di amabilissima presenza. Emilia intese da lei ciò che non aveva ancora sospettato, cioè che, per dar ricovero a loro, bisognava che parte della famiglia cedesse i suoi letti. Si afflisse di questa circostanza; ma Agnese, nella sua risposta, mostrò la medesima buona grazia e l'istessa ospitalità del padre. Fu dunque deciso che parte dei figli e Michele andassero a dormire in una casa poco distante. «Se domani io starò meglio, mia cara Emilia,» disse Sant'Aubert, «noi partiremo di buon'ora per poterci riposare durante il caldo del giorno, e torneremo a casa. Nello stato della mia salute e delle mie idee, non posso pensare se non con pena ad un viaggio più lungo, e sento il bisogno di tornare alla valle.» Anche Emilia desiderava questo ritorno, ma si turbò sentendo una risoluzione così subitanea. Suo padre, senza dubbio, stava molto peggio di quello che voleva far credere. Sant'Aubert si ritirò per prendere un po' di riposo. Emilia chiuse la sua cameretta, e non potendo dormire, i di lei pensieri la ricondussero all'ultima conversazione relativa allo stato delle anime dopo morte. Questo soggetto l'alterava sensibilmente, dacchè non poteva più lusingarsi di conservare lungamente il padre. Ella si appoggiava pensierosa ad una finestrella aperta. Assorta nelle sue riflessioni, alzava gli occhi al cielo; vedeva il firmamento sparso d'innumerevoli stelle, abitate forse dagli spiriti incorporei; i suoi occhi erravano negli immensi spazi eterei: i di lei pensieri s'innalzavano, come prima, verso la sublimità di un Dio, e la contemplazione dell'avvenire. Il ballo era cessato, le capanne erano silenziose, l'aria sembrava appena sommuovere leggermente la sommità degli alberi; il belato di qualche pecorella smarrita, tratto tratto il suono lontano di un campanello, il romore di una porta che si chiudeva, interrompevano soli il silenzio della notte. Anzi da ultimo questi diversi suoni, che le rammentavano la terra e le sue occupazioni, cessarono del tutto: cogli occhi lagrimosi, penetrata da una rispettosa devozione, restò alla finestra fintanto che, verso mezzanotte, l'oscurità si fu estesa sulla terra, e che la stella indicata da Voisin disparve dietro il bosco. Si ricordò allora di ciò ch'egli aveva detto su tal proposito, e rammentossi la musica misteriosa; stava alla finestra, sperando e temendo nel tempo istesso di sentirla tornare; era occupata della forte commozione del padre, quando Voisin aveva annunziata la morte del marchese di Villeroy e rammentata la sorte della marchesa, e si sentiva vivamente interessata di conoscerne la causa. La di lei curiosità su questo oggetto era tanto più viva, in quanto che suo padre non aveva mai pronunziato alla di lei presenza il nome di Villeroy. La musica non si sentì: Emilia si accorse che le ore riconducevanla a nuove fatiche; pensò che bisognava alzarsi di buon mattino, e si decise di porsi a letto. CAPITOLO VII Emilia fu svegliata di buon'ora, come l'aveva preveduto. Il sonno l'aveva ristorata un poco; era stata invasa da sogni penosi, e la più dolce consolazione degl'infelici non aveale menomamente giovato. Aprì la finestra, guardò il bosco, respirò l'aria pura dell'aurora, e si sentì più tranquilla. Tutto il paese spirava quella frescura che sembra apportar la salute. Non si sentivano che suoni dolci e simpatici, come la campana d'un convento lontano, il mormorio delle onde, il canto degli uccelli e il muggito del bestiame, ch'essa vedeva camminare lentamente fra gli sterpi e gli alberi. Emilia udì un movimento nella sala, e riconobbe la voce di Michele, che parlava alle sue mule ed usciva con loro da una capanna vicina: uscì essa pure, e trovò il padre, il quale erasi alzato in quel momento, e non istava meglio di prima. Lo condusse nella stanzetta dove avevano cenato la sera avanti: vi trovarono una buonissima colazione, e l'ospite e sua figlia, che li aspettavano per augurar loro il buon giorno. «Io v' invidio questa bella dimora, amici miei,» disse Sant'Aubert nel vederli; «essa è così piacevole, così placida, così decente! E l'aria che vi si respira! Son certo che questa potrebbe forse restituirmi la salute.» Voisin lo salutò garbatamente, e gli rispose con civiltà squisita: «La mia dimora è divenuta invidiabile, dacchè voi e questa signorina l'avete onorata della vostra presenza.» Sant'Aubert sorrise amichevolmente a questo complimento, e si mise a tavola, la quale era coperta di frutta, burro e cacio fresco. Emilia, che aveva esaminato attentamente il padre, e lo trovava in uno stato deplorabile, l'impegnava premurosamente a protrarre la sua partenza fino a sera; ma egli sembrava impaziente di tornare a casa, ed esprimeva questa impazienza con un calore veramente straordinario. Assicurava che da lunga pezza non s'era sentito tanto bene, e che viaggerebbe con minor pena al fresco del mattino che ad ogni altra ora del dì. Ma mentre esso parlava col suo ospite rispettabile, e lo ringraziava della cortese accoglienza fattagli, Emilia lo vide cambiar di colore e cadere sulla sedia prima ch'essa potesse sostenerlo. In pochi momenti si rimise dall'improvviso deliquio, ma stava così male, che si riconobbe incapace di viaggiare; e dopo aver lottato un poco contro la violenza dei suoi mali, domandò di essere aiutato a risalire la scala, e rimettersi in letto. Questa preghiera rinnovò tutti i terrori di Emilia provati il giorno antecedente, ma sebbene potesse appena sostenersi, e resistere al colpo fatale che la colpiva, procurò di reprimere il proprio dolore, e dandogli il braccio tremante, aiutò il padre a tornare nella sua camera. Appena fu in letto, egli fece chiamare Emilia, la quale piangeva fuori della stanza, e chiese di esser lasciato solo con lei. Allora le prese la mano, e fissò gli occhi nella figlia con tanta tenerezza e dolore, che il suo coraggio l'abbandonò, ed essa proruppe in un pianto dirotto. Sant'Aubert cercava di conservare la sua fermezza, e non poteva parlare; non poteva che stringerle la mano, e trattenere a stento le proprie lacrime; alfine prese la parola. «Mia cara figlia,» diss'egli, sforzandosi di sorridere in mezzo all'impressione del suo dolore, «mia cara Emilia!» Fece una pausa, alzò gli occhi al cielo, come per implorarne l'assistenza, ed allora con un tuono di voce più fermo, con uno sguardo in cui la tenerezza paterna univasi con dignità alla pia solennità d'un santo, «Figliuola,» le disse, «io vorrei addolcire le tristi verità che sono costretto a svelarti, ma non so nasconderti nulla. Oimè! vorrei poterlo fare, ma sarebbe troppo crudele di prolungare il tuo errore: la nostra separazione è imminente; convien dunque parlarne, e prepararci a sopportarla con le nostre riflessioni e le preghiere.» Gli mancò la voce; Emilia, sempre piangendo, si strinse la di lui mano al seno, ed oppressa da convulsi sospiri, non aveva nemmen forza d'alzare gli occhi. «Non perdiamo un solo momento,» disse Sant'Aubert, rientrando in sè stesso; «ho molte cose da dirti. Debbo rivelarti un segreto della più alta importanza, ed ottenere da te una solenne promessa; quando ciò sarà fatto, io sarò più tranquillo. Tu devi aver già osservato, mia cara, quanto desidero di essere a casa mia; tu ne ignori la ragione: ascolta ciò che sono per dirti. Ma aspetta, ho bisogno di questa promessa, fatta a tuo padre moribondo!» Emilia colpita da queste ultime parole, come se per la prima volta avesse conosciuto il pericolo del padre, alzò la testa; le sue lacrime si arrestarono, e guardandolo un momento con l'espressione di un'insopportabile afflizione, fu assalita dalle convulsioni, e svenne. Le grida di Sant'Aubert attirarono Voisin ed Agnese, che le apprestarono tutti i possibili soccorsi, ma per lunga pezza indarno. Quando Emilia rinvenne, Sant'Aubert era così spossato da tutta quella scena, che restò qualche minuto senza poter parlare. Un cordiale presentatogli da Emilia, rianimò le sue forze. Allorchè per la seconda volta furono soli, egli sforzossi di calmarla, e le prodigò tutte le consolazioni compatibili colla circostanza. Ella si gettò nelle sue braccia, pianse dirottamente, ed il dolore la rendeva talmente insensibile a' suoi discorsi, ch'egli cessò di parlare, non potendo che intenerirsi e mescolare le proprie lacrime a quelle della fanciulla. Richiamata alfine ad un sentimento di dovere, volle risparmiare al padre un più lungo spettacolo del suo dolore; si sciolse dalle di lui braccia, asciugò le lacrime, ed articolò qualche parola di consolazione. «Cara Emilia,» riprese Sant'Aubert, «figliuola mia, assoggettiamoci con umile rassegnazione all'Ente che ci ha protetti e consolati nei pericoli e nelle afflizioni. Ogni istante della nostra vita è da lui conosciuto; egli non ci ha mai abbandonati, e non ci vorrà abbandonare neppure in questo momento. Io sento questa consolazione nel mio cuore; ti lascerò, figlia mia, ti lascerò nelle di lui braccia, e sebbene io abbandoni questo mondo, sarò sempre alla tua presenza. Sì; Emilia cara, non piangere: la morte in sè stessa non ha nulla di nuovo o di sorprendente, giacchè sappiamo tutti di essere nati per morire; essa non ha nulla di terribile per coloro che confidano in un Dio onnipotente. Se la vita mi fosse stata prolungata, il corso della natura me la avrebbe tolta fra pochi anni. La vecchiaia, e tuttociò ch'ella porta seco d'infermità, di privazioni e d'affanni, sarebbero state quanto prima il mio retaggio; la morte finalmente sarebbe giunta, e ti sarebbe costata quelle lacrime che spargi in questo momento. Rallegrati piuttosto, cara figlia, di vedermi liberato da tanti mali. Io muoio con uno spirito libero, suscettibile delle consolazioni della fede, e con perfetta rassegnazione.» Si fermò stanco di parlare. Emilia si sforzò di ricomporsi, e rispondendo a ciò che le aveva detto, cercò di persuaderlo che non aveva parlato invano. Dopo un poco di riposo, egli ripigliò. «Ma torniamo al soggetto che tanto mi preme. Ti ho detto che aveva da chiederti una promessa solenne; bisogna ch'io la riceva, prima di spiegarti la circostanza principale di cui devo parlarti; sonvene altre che, pel tuo riposo, importa che tu ignori per sempre. Promettimi dunque che eseguirai esattamente ciò che sono per ordinarti.» Emilia, colpita dalla gravità di queste espressioni, si terse le lagrime, cui non poteva impedirsi dallo spargere; e guardando il padre eloquentemente, si obbligò con giuramento a fare ciò che egli esigerebbe da lei, senza sapere di che si trattasse. Allora egli continuò: «Ti conosco troppo, Emilia cara, per temere che tu abbia a mancar mai ai tuoi impegni, ma sopratutto ad un impegno così rispettabile. La tua parola mi pone in calma, e la tua lealtà diviene di un'importanza inconcepibile per la tranquillità dei tuoi giorni. Ascolta ora ciò che debbo dirti. Il gabinetto contiguo alla mia camera nel nostro castello della valle contiene una specie di botola, che si apre sotto un'asse del pavimento; la riconoscerai ad un nodo rimarchevole del legno; d'altronde, è la penultima asse dalla parte della parete, ed in faccia alla porta della camera. Circa ad un braccio di distanza dalla finestra, scorgerai una commessura, come se la tavola ne fosse stata cambiata; calca il piede su quella linea, la tavola si abbasserà, e potrai facilmente farla scorrere sotto l'altra; di sotto troverai un vuoto.» Egli si fermò per prender fiato, ed Emilia restò nella più profonda attenzione. «Capisci tu queste istruzioni, mia cara?» le disse egli. Emilia, capace appena di proferir accento, l'assicurò che l'intendeva benissimo. «Quando tornerai a casa...» E sospirò profondamente. Appena ella lo sentì parlare di questo ritorno, tutte le circostanze che dovevano accompagnarlo si presentarono alla di lei immaginazione; ebbe un nuovo accesso di dolore, e Sant'Aubert, più afflitto ancora dallo sforzo e dal ritegno fattosi, non potè trattenere le lacrime. Dopo alcuni momenti, si riebbe, e continuò: «Cara figlia, consolati; quando non esisterò più non sarai abbandonata. Ti lascio sotto l'immediata protezione della provvidenza, che non mi ha negato mai i suoi soccorsi. Non mi affliggere coll'accesso della tua disperazione; insegnami piuttosto, col tuo esempio, a moderare quella che risento.» Il malato, il quale non parlava se non con difficoltà, ripigliò il suo discorso dopo una pausa. «Quel gabinetto, mia cara..... quando tornerai a casa, vacci, e sotto la tavola che ho descritta, troverai un fascio di carte; sta attenta adesso. La promessa che ho ricevuta da te, è relativa a questo unico oggetto; tu devi bruciare quelle carte senza osservarle, nè leggerle; io te l'ordino assolutamente.» La sorpresa d'Emilia superando un istante il suo dolore, chiese il motivo di quella precauzione. Il padre rispose che se avesse potuto spiegarglielo, la promessa da lei richiesta non sarebbe stata più necessaria. «Ti basti, figlia mia, di penetrarti bene di questa ragione: essa è d'un'estrema importanza. Sotto quella medesima asse troverai circa dugento doppie in una borsa di seta. Questo segreto fu già immaginato per mettere in salvo il denaro che si trovava nel castello, allorchè la provincia era inondata da truppe, che, profittando della circostanza, si abbandonavano ad ogni sorta di depredazioni ed al saccheggio. Mi resta ancora da ricevere un'altra promessa da te, ed è, che in qualunque critica posizione possa trovarti, non venderai mai la nostra possessione della valle.» Sant'Aubert aggiunse, che s' ella si fosse maritata, avrebbe dovuto specificare nel contratto nuziale, che il castello le sarebbe rimasto in assoluta proprietà. Le parlò in seguito del suo patrimonio con maggior dettaglio di quel che non avesse fatto fin a quel punto. «Le dugento doppie, ed il poco denaro che troverai nella mia borsa, son tutto il contante che ho da lasciarti. Ti ho già detto in quale stato sono i nostri affari col signor Motteville di Parigi. Ah figlia mia, ti lascio povera, ma non nella miseria.» Emilia non poteva rispondere a nulla; inginocchiata accanto al letto, bagnava di lacrime la mano diletta che teneva ancor nelle proprie. Dopo questo discorso, lo spirito di Sant'Aubert parve molto più tranquillo; ma, spossato dallo sforzo fatto, cadde nel sopore. Emilia continuò ad assisterlo ed a piangere vicino a lui, fino a che un lieve colpo battuto alla porta della camera la costrinse a rialzarsi. Voisin venivale a dire che dabbasso eravi un confessore del convento vicino, pronto ad assistere suo padre; ma essa non volle che lo si svegliasse, e fece pregare il sacerdote a non andarsene. Quando Sant'Aubert uscì dal suo sopore, tutti i suoi sensi erano confusi; e ci volle qualche tempo prima ch'ei riconoscesse Emilia. Allora mosse le labbra, le stese la mano, ed essa fu dolorosamente colpita dall'impressione di morte che osservava in tutti i suoi lineamenti. Dopo pochi minuti ricuperò la voce, ed Emilia gli domandò se desiderava vedere un confessore. Le rispose di sì, ed appena fu introdotto il reverendo padre, ella si ritirò. Restarono insieme circa mezz'ora: quindi fu richiamata Emilia, che trovò il padre più agitato, ed essa allora guardò il confessore con alquanto risentimento, come s'egli ne fosse stato la cagione. Il buon religioso la rimirò con dolcezza, e Sant'Aubert, con voce tremebonda, la pregò di unire le sue preghiere a quelle degli altri, e dimandò se il suo ospite non volesse associarvisi. Il buon vecchio ed Agnese arrivarono amendue piangendo, e s'inginocchiarono vicino al letto. Il reverendo padre, con voce maestosa, recitò lentamente le preci degli agonizzanti. Sant'Aubert, con volto sereno, si univa con fervore alla loro devozione; qualche lacrima sfuggivagli talvolta dalle socchiuse pupille, ed i singulti di Emilia interruppero spesso l'uffizio. Quando fu finito, e che venne amministrata l'estrema unzione, il religioso se n'andò. Sant'Aubert fe' segno a Voisin d'avvicinarsegli, gli porse la mano, e stette alcun tempo in silenzio. Alfine gli disse con voce fioca: «Mio buon amico, la nostra conoscenza fu breve, ma essa bastò per dimostrarmi il vostro buon cuore; io non dubito che voi non trasportiate tutta questa benevolenza su mia figlia: quando non sarò più, essa ne avrà bisogno. L'affido alle cure vostre, pei pochi giorni cui dee passar qui: non vi dico di più. Voi avete figli, conoscete i sentimenti d'un padre: i miei diventerebbero penosi assai se avessi meno fiducia in voi.» Voisin lo rassicurò, e le lagrime attestavano la sua sincerità, che nulla trascurerebbe per addolcire l'affanno d'Emilia, e che, s'ei lo bramasse, l'avrebbe ricondotta in Guascogna. L'offerta gradì tanto al moribondo, che non trovò parole ond'esprimere la propria gratitudine, o a meglio dire che l'accettava. «Soprattutto, Emilia cara,» ripigliò il morente, «non cedere alla magia de' bei sentimenti: gli è l'errore d'uno spirito amabile; ma quelli che posseggono una vera sensibilità, debbon sapere di buon'ora quant'ella sia cosa pericolosa; è dessa che tragge dalla menoma circostanza un eccesso di guai o di piacere. Nel nostro passaggio traverso questo mondo noi incontriamo più mali assai che godimenti; e siccome il sentimento della pena è sempre più vivo che quello del benessere, la nostra sensibilità ci rende vittima quando non sappiamo moderar e contenerla.» Emilia gli ripetè quanto i suoi consigli le fossero preziosi, e gli promise di non dimenticarli mai e cercare di approfittarne. Sant'Aubert le sorrise con affetto e tristezza insieme. «Lo ripeto,» le disse, «io non vorrei renderti insensibile, quand'anche ne avessi il potere; vorrei solo guarentirti dagli eccessi della sensibilità ed insegnarti ad evitarli. È spregevolissima quella pretesa umanità che si contenta di compiangere, nè pensa a confortare!...» Sant'Aubert, qualche tempo dopo, parlò della signora Cheron sua sorella. «Bisogna ch'io t'informi,» aggiunse, «d'una circostanza interessante per te. Noi abbiamo avuto, lo sai, pochissimi rapporti con lei, ma è la sola parente che hai: ho creduto conveniente, come vedrai nel mio testamento, di affidarti alle sue cure sino all'età maggiorenne: essa non è veramente la persona alla quale avrei voluto rimettere la mia cara Emilia, ma non aveva altra alternativa, e la credo in fondo poi una buona donna; non ho d'uopo, figliuola, di raccomandarti d'usar la prudenza per conciliarti le sue buone grazie: lo farai del certo in memoria di chi l'ha tentato tante volte per te.» Emilia protestò che quant'egli le raccomandava sarebbe religiosamente eseguito. «Aimè!» soggiunse affogata dai singhiozzi; «ecco in breve quanto mi rimarrà; sarà la mia unica consolazione il compiere esattamente tutti i vostri desiderii.» La fanciulla non potea che ascoltare e piangere, ma la calma estrema del padre, la fede, la speranza cui dimostrava, lenivano alquanto la di lei disperazione. Nondimeno, essa vedeva quella figura scomposta, que' segni precursori di morte, quegli occhi infossati, e sempre fissi in lei, quelle pupille pesanti e preste a chiudersi: avea il cuore lacerato, e non poteva esprimersi. Ei volle darle ancora una volta la benedizione. «Dove sei, cara mia?» disse egli allungando debolmente le mani verso di lei. Emilia era rivolta dalla parte della finestra per nascondere la sua inesprimibile afflizione; ma comprese allora ch'egli non ci vedeva più: le impartì la sua benedizione, che parve l'ultimo sforzo della sua vita spirante, e ricadde sul guanciale; essa lo baciò in fronte; il freddo sudore della morte gl'innondava le tempie; e dimenticando tutto il suo coraggio, gliele irrigò di lagrime. Il morente aprì gli occhi; egli esisteva ancora, ma erano gli ultimi sforzi della natura affralita, ed in breve la sua anima volò innanzi al Supremo Motore. Emilia fu strappata a viva forza da quella camera da Voisin e da sua figlia, che procurarono di calmare il suo dolore; il vecchio piangeva con lei, ma i soccorsi di Agnese erano più opportuni. CAPITOLO VIII Il buon religioso della mattina ritornò la sera per consolare Emilia, e le portò l'invito dell'abbadessa di un convento vicino al suo di recarsi da lei. La fanciulla non accettò l'offerta, ma rispose con molta riconoscenza. La pia conversazione del confessore, la dolcezza delle sue maniere, che somigliavano a quelle del defunto padre, calmarono un poco la violenza dei suoi trasporti: innalzò il cuore all'Ente Supremo, presente da per tutto.--Relativamente a Dio,--pensava Emilia,--il mio dilettissimo padre esiste come ieri esisteva per me: egli non è morto che per me; per Dio, per lui, veramente esiste.-- Ritirata nella sua cameretta, i suoi pensieri malinconici vagarono ancora intorno al padre. Immersa in una specie di sonno, imagini lugubri offuscaronle l'immaginazione. Sognò di vedere il genitore accostarsele con benevolo contegno. D'improvviso, sorrise mesto, alzò gli occhi, aprì le labbra; ma invece delle sue parole, udì una musica soave, trasportata sull'aere a grandissima distanza. Vide allora tutti i suoi lineamenti animarsi nella beata estasi d'un ente superiore: l'armonia diventava più forte; essa si destò. Il sogno era finito, ma la musica durava ancora, ed era una musica celeste. Tese l'orecchio, e si sentì agghiacciata da superstizioso rispetto: le lagrime cessarono, si alzò, ed affacciossi alla finestra. Tutto era oscuro, ma Emilia, distogliendo gli occhi dalle tetre selve che frastagliavan l'orizzonte, vide a manca quell'astro brillante ond'avea favellato il vecchio, e che trovavasi al di sopra del bosco. Ricordossi quanto avea detto, e siccome la musica agitava l'aere ad intervalli, aprì la finestra per ascoltar la dolce armonia, la quale poco dopo andò affievolendosi, ed essa tentò indarno scoprire donde partisse. La notte non le permise di nulla distinguere sul prato sottoposto, ed i suoni diventando successivamente più fiochi e soavi, cessero alfine il luogo ad un assoluto silenzio... Il giorno dipoi essa ricevè un nuovo invito dalla badessa; Emilia che non poteva risolversi ad abbandonare la casuccia finchè vi riposava il cadavere del padre, acconsentì con ripugnanza di andare quella medesima sera a rassegnarle il suo rispetto. Un'ora circa avanti il tramonto del sole, Voisin le servì di guida, e la condusse al convento traversando il bosco. Questo convento era situato, al par di quello dei frati di cui abbiam parlato, all'estremità di un piccolo golfo del Mediterraneo. Se Emilia fosse stata meno infelice, avrebbe ammirato la bella vista di un immenso mare, che si scopriva da un colle, sul quale sorgeva l'edificio; essa avrebbe contemplato quelle ricche spiaggie coperte d'alberi e di pasture, ma le sue idee erano fisse in un solo pensiero, e la natura non aveva ai suoi occhi nè forma, nè colore. Mentre passava per l'antica porta del convento la campana suonò a vespro, e le parve il primo tocco del funerale del padre. I più leggeri incidenti bastano per alterare uno spirito infiacchito dal dolore. Emilia superò la crisi penosa, da cui era agitata, e si lasciò condurre dalla badessa, la quale la ricevè con materna bontà. La di lei fisonomia interessante, i suoi sguardi benigni, penetrarono Emilia di riconoscenza; avea gli occhi pieni di lacrime, e non poteva parlare. La badessa la fece sedere vicino a lei e l'osservò in silenzio, mentre essa cercava di asciugare le lacrime. «Calmatevi, figliola,» le disse ella con voce affettuosa; «non parlate, io v'intendo, voi avete bisogno di riposo. Noi andiamo alla preghiera; volete accompagnarci? è una consolazione, fanciulla cara, il poter deporre i propri affanni in seno del nostro Padre celeste: egli ci vede, ci compiange, e ci castiga nella sua misericordia.» Emilia versò nuove lacrime, ma le più dolci emozioni ne mitigarono l'amarezza. La badessa la lasciò piangere senza interromperla, guardandola con quell'aria di bontà che pareva indicare l'attitudine di un angelo custode; Emilia divenne più tranquilla, parlando francamente, spiegò i suoi motivi di non lasciare l'abitazione di Voisin. La badessa approvò i di lei sentimenti ed il suo rispetto figliale, ma l'invitò a passare qualche giorno al convento, prima di ritornare al suo castello. «Procurate di distrarvi, figlia mia,» le disse ella, «per rimettervi un poco da questa scossa, prima di arrischiarne una seconda; non vi dissimulerò quanto il vostro cuore si sentirà lacerare alla vista del teatro della vostra passata felicità; qui voi troverete tutte le consolazioni che possono offrire la pace, l'amicizia e la religione; ma venite,» soggiunse vedendo che gli occhi le si riempivano di lacrime, «venite, scendiamo in cappella.» Emilia la seguì in una sala, ov'erano già riunite tutte le monache; la badessa la presentò dicendo: «È una giovane per la quale ho molta considerazione; trattatela come vostra sorella.» Andarono tutte insieme alla cappella, e l'edificante devozione colla quale fu recitato l'uffizio divino, elevò lo spirito di Emilia alle consolazioni della fede e d'una perfetta rassegnazione. L'ora era già avanzata, quando la badessa acconsentì a lasciarla partire. Ella uscì dal convento meno oppressa di quando v'era entrata, e fu ricondotta a casa da Voisin. Essa lo seguiva pensierosa in un sentieruzzo poco battuto, quando d'improvviso la sua guida si fermò, guardossi intorno, gettossi fuor del sentiero nello scopeto, dicendo d'avere smarrita la strada; camminava con molta velocità. Emilia, che non poteva seguirlo in un terreno lubrico e nella oscurità, restava a gran distanza, e fu costretta di chiamarlo: egli non voleva fermarsi, e l'invitava ad accelerare il passo con ruvidezza. «Se voi non siete certo della vostra strada,» disse Emilia, «non sarebbe meglio indirizzarvi a quel gran castello che scorgo là fra gli alberi? --No,» disse Voisin, «non ne vale la pena: quando saremo a quel ruscello dove voi vedete splendere un lume al di là del bosco, noi saremo a casa. Non capisco come ho potuto fare a smarrirmi: sarà forse perchè vengo rare volte da queste parti dopo il tramonto del sole. --È un luogo molto solitario,» disse Emilia. «Ma però non ci sono assassini? --No, signorina, non ve ne sono. --Cosa è dunque che vi spaventa tanto, amico mio? Sareste mai superstizioso? --No, non lo sono; ma, per dirvi la verità, signorina, nessuno ama trovarsi la notte nelle vicinanze di quel castello. --Da chi è dunque abitato per crederlo così formidabile? --Oh! signorina, se almeno fosse abitato! Il signor marchese è morto, come vi dissi; non ci era venuto da molti anni, ed i suoi servitori si sono ritirati in una casuccia poco lontana.» Emilia comprese allora che il castello era quello di cui aveva già parlato Voisin, e che aveva appartenuto al marchese di Villeroy, la cui morte aveva tanto sorpreso il di lei padre. «Ah,» disse Voisin; «com'esso è desolato! Era pure una bella casa; che bella situazione! quando me ne ricordo...» Emilia gli domandò il motivo di quel terribile cambiamento. Il vecchio taceva, ed essa, colpita dallo spavento ch'egli manifestava, occupata soprattutto dall'interesse manifestato da suo padre, ripetè la domanda, ed aggiunse: Se non sono gli abitanti che vi spaventano, e se non siete superstizioso, per qual ragione dunque, amico mio, non avete il coraggio di avvicinarvi la sera a quel castello? --Ebbene dunque, signorina, sarò forse un poco superstizioso, ma se ne sapeste la vera cagione, potreste divenirlo anche voi. Sono accadute colà cose stranissime; il vostro buon padre pareva aver conosciuto la marchesa. --Ditemi, vi prego, cos'è accaduto?» gli disse Emilia molto commossa. --Oimè!» rispose Voisin; «non mi domandate di più; i segreti domestici del mio padrone devono essere sempre sacri per me.» Emilia, sorpresa da quest'ultima espressione, e sopratutto dal tuono di voce con cui avevala pronunziata, non volle fare ulteriori domande. Un interesse più vivo, l'imagine di Sant'Aubert, occupava allora tutti i suoi pensieri, ella si rammentò la musica della notte precedente, e ne parlò a Voisin. «Voi non siete stata la sola,» le diss'egli; «l'ho udita anch'io; ma ciò m'accade così spesso a quell'ora, che non ci bado più. --Voi credete al certo,» disse Emilia, «che questa musica abbia rapporti col castello, ed ecco perchè siete superstizioso, n'è vero? --Può essere signorina; ma vi sono altre circostanze relative a quel castello, e delle quali io conservo tristamente la memoria.» Queste parole furono accompagnate da un profondo sospiro, e la delicatezza di Emilia trattenne la curiosità, che le avevano destato quei detti misteriosi. Tornata a casa, la sua disperazione ricominciò: pareva che non ne avesse sospeso il corso se non perdendo momentaneamente di vista colui che ne formava il soggetto; andò tosto a contemplare la salma del padre, e cedè a tutti i trasporti di un dolore senza speranza. Voisin avendola finalmente decisa di allontanarsene, se ne tornò nella sua camera. Oppressa dalle fatiche del giorno, si addormentò immediatamente, e quando si svegliò trovossi molto più sollevata. Sant'Aubert aveva domandato di essere sepolto nella chiesa delle monache di Santa Chiara; aveva scelta la cappella settentrionale, prossima alla sepoltura dei marchesi di Villeroy, e ne aveva indicato il posto. Il superiore vi acconsentì, e la processione funebre s'incamminò a quella volta. Il venerando padre, seguito da molti preti, venne a riceverla alla porta. Il canto del _Miserere_, il suono dell'organo, che rimbombò in chiesa quando vi entrò la bara, i passi vacillanti, e l'aria abbattuta di Emilia, avrebbero strappato le lacrime ai cuori più duri; ma essa non ne versò neppur una. Colla faccia semicoperta da un velo nero, camminava in mezzo a due persone che la sorreggevano; la badessa la precedeva, le monache la seguivano, ed il lamentoso loro canto faceva eco a quello lugubre del coro. Quando la processione fu giunta al sepolcro, Emilia abbassò il velo, e nell'intervallo dei canti si distinsero facilmente i di lei singulti. Il reverendo sacerdote cominciò la messa, ed Emilia riescì a frenarsi alquanto, ma quando il cadavere fu deposto nella tomba, quando udì gettar la terra che dovea ricoprirlo, le sfuggì un fioco gemito, e cadde in braccio alla persona che la sosteneva; ma si rimise prontamente, e potè intendere quelle parole sublimi:--_Il suo corpo riposa in pace, e l'anima è tornata a Chi glie l'ha data._--La sua disperazione allora fu sollevata da un diluvio di lacrime. La badessa la fece uscire di chiesa, la condusse nel suo appartamento, e le offrì tutti i soccorsi della santa religione e di una tenera pietà. La fanciulla facea sforzi per vincere la sua debolezza; ma la superiora, la quale l'osservava attenta, le fece preparare un letto e la indusse al riposo. Reclamò con bontà la promessa fatta da lei di passar qualche giorno al convento. Emilia, cui nulla più richiamava alla capanna, teatro del suo infortunio, ebbe agio allora di considerar la sua posizione, e si sentì incapace di ripartire immediatamente. Intanto la bontà materna della badessa e le dolci attenzioni delle monache nulla risparmiavan per calmare il di lei spirito e restituirla in salute; ma essa avea provato scosse troppo violente per ristabilirsi presto: fu adunque per parecchie settimane colta da lenta febbre, e cadde in uno stato di languore. S'affligea di lasciar la tomba dove riposavano le ceneri del padre; si lusingava che, se moriva colà, sarebbe a lui riunita. Intanto, Emilia scrisse alla signora Cheron sua zia ed alla sua vecchia governante per partecipar loro l'accaduto, ed informarle della sua situazione. Mentre l'orfanella stava in convento, la pace interna di quell'asilo, la bellezza de' dintorni, le attenzioni della superiora e delle monache fecero su lei un effetto sì attraente, che fu quasi tentata di separarsi dal mondo; essa avea perduto i suoi più cari amici, voleva chiudersi in quel chiostro, in un soggiorno che il sepolcro del padre rendeale sacro in sempiterno. L'entusiasmo del suo pensiero, ch'erale quasi naturale, avea sparso una vernice sì patetica sul santo ritiro d'una monaca, ch'ell'avea quasi smarrito di vista il vero egoismo che lo produce. Ma i colori che un'imaginazione malinconica, lievemente imbevuta di superstizione, prestava alla vita monastica, svanirono a poco a poco, quando le tornarono le forze, e ricondussero un'imagine ch'erane stata bandita soltanto passaggiermente. Tale memoria richiamolla tacitamente alla speranza, alla consolazione, ai più dolci sentimenti; bagliori di felicità mostraronsi da lunge, e benchè non ignorasse a qual punto potevano esser fallaci, non volle privarsene. Dopo parecchi giorni, ricevè una risposta dalla sua zia, gonfia di espressioni comuni di condoglianza, ma non d'un vero dolore; le annunziava che una persona da lei incaricata sarebbe andata a prenderla per ricondurla al castello della valle, giacchè le di lei occupazioni non le permettevano d'intraprendere un sì lungo viaggio. Sebbene Emilia preferisse la sua valle a Tolosa, fu nonostante colpita da una condotta così poco delicata e sconveniente. La zia permetteva ch'ella ritornasse al suo castello senza parenti e senza amici per consolarla e per difenderla; e questa condotta diveniva tanto più colpevole, in quanto che suo padre moribondo aveva affidata la derelitta figliuola alle cure della sorella, com'essa l'aveva avvisata nella lettera scrittale. Passarono alcuni giorni dall'arrivo dell'inviato della signora Cheron all'epoca in cui Emilia fu in grado di partire. La sera precedente alla sua partenza, andò a casa di Voisin per congedarsi da quella buona famiglia, ed attestarle la sua riconoscenza: trovò il buon vecchio assiso sulla porta, fra la figlia ed il genero, che, riposando in quel momento dai lavori della giornata, suonava una specie di flauto somigliante ad una zampogna. Essi avevano innanzi a sè imbandita una piccola mensa ben provvista di pane, frutti e vino; i ragazzi, tutti belli e pieni di salute, godevano intorno alla tavola della refezione che lor veniva distribuita con indicibile affetto dai genitori. Emilia si fermò un momento prima di avvicinarsi, contemplando il quadro interessante di quella buona gente; essa guardava attentamente quel vecchio rispettabile, e girando gli occhi sulla casa, l'immagine del padre le rammentò tutto l'orrore della sua situazione. Disse addio a tutta la famiglia con un'espressione la più tenera e sensibile; Voisin l'amava come sua figlia e versava lacrime. Emilia piangeva; evitò di entrare nella casetta, che le avrebbe rinnovato impressioni troppo dolorose, e partì. Tornata al convento, ella si decise di visitare ancora una volta la tomba del padre. Avendo inteso che un andito sotterraneo conduceva a quei sepolcri, aspettò che tutti fossero in letto, eccettuato una monaca che le aveva promessa la chiave della chiesa. Emilia restò in camera finchè l'orologio suonò mezzanotte, ed allora giunse la monaca colla chiave promessa. Scesero insieme una scaletta a chiocciola; la monaca si offrì di accompagnarla fino al sepolcro, aggiungendo spiacerle il lasciarla andar sola a quell'ora; ma Emilia la ringraziò, e non potè acconsentire di avere un testimonio del suo dolore. La buona religiosa aprì una porticina e le porse il lume. Emilia la ringraziò, si avanzò nella chiesa, e suora Maria si ritirò. Assalita da improvviso terrore, la fanciulla si riavvicinò alla porta, ed era tentata di richiamarla, ma al momento stesso, vergognandosi del suo timore, si avanzò nuovamente. L'aria fredda e umida di quel luogo, il cupo silenzio che vi regnava, e un fioco raggio di luna che traversava una finestra gotica, avrebbero senza dubbio risvegliata in chiunque la superstizione; ma essa in quel punto non aveva altro pensiero che il suo dolore. Tutto ad un tratto le parve vedere un'ombra fra le colonne; si fermò, ma non avendo udito i passi di alcuno, conobbe esser l'effetto della sua imaginazione alterata. Sant'Aubert era sepolto in un'urna semplicissima, la quale non portava altra iscrizione fuor del suo nome e cognome, la data della nascita e quella della morte, ed era situata al piè del pomposo mausoleo de' Villeroy. Emilia vi si trattenne in orazione finchè la campana del mattutino l'avvertì esser tempo di ritirarsi. Versò ancora qualche lacrima, baciò il prezioso sarcofago, e se ne tornò in camera abbandonando un luogo così tristo. Dopo quel momento di effusione gustò di un sonno tranquillo; svegliandosi, si sentì lo spirito più calmo, e parve più rassegnata di quello fosse stata dopo la morte del padre. Giunto il momento della partenza, tutto il suo dolore si rinnovò; la memoria di suo padre nella tomba, e la bontà di tante persone viventi, l'affezionavano a quella dimora; ella sembrava provare, per il luogo ove riposava Sant'Aubert, quella tenera affezione che si risente per la patria. La badessa, nel separarsi da lei, le diede tutte le più sensibili testimonianze di attaccamento, e l'impegnò a tornare, se altrove non avesse incontrata quella considerazione, che dovea aspettarsi. Le altre monache le esternarono i più vivi rammarici; alla perfine lasciò il convento colle lacrime agli occhi, portando seco l'affetto ed i voti di tutte le persone che vi restavano. Aveva già percorso un lungo tratto di paese prima che il magnifico spettacolo, che si offeriva alla sua vista, potesse distrarla. Assorta nella malinconia, non notò tanti oggetti incantevoli se non per rammentarsi meglio il padre perduto. Sant'Aubert trovavasi con lei quando prima li aveva veduti, e le di lui osservazioni su di essi le tornavano alla memoria. Quel giorno passò nel languore e nell'abbattimento; la notte essa dormì sulla frontiera della Linguadoca, ed il dì successivo entrò in Guascogna. Al tramontar del sole, Emilia si trovò nelle vicinanze della valle tutti quei luoghi che conosceva sì bene, richiamandola a rimembranze che le straziavano il cuore, ridestarono tutta la sua tenerezza ed il suo dolore; guardava piangendo le vette dei Pirenei colorite allora dalle più belle e vaghe tinte del tramonto. «Là,» sclamava essa, «là sono quelle medesime grotte; ecco là il medesimo bosco di abeti ch'egli guardava con tanta compiacenza quando passammo insieme da quei luoghi! Ecco là quella capanna sull'ameno colle del quale mi aveva fatto disegnare la veduta. Oh! padre mio, io non vi vedrò mai più.» La strada ad una svolta le lasciò scorgere il castello in mezzo a quel magnifico paesaggio; i fumaiuoli, imporporati dall'occaso, sorgevan dietro le piantagioni favorite di Sant'Aubert, il cui fogliame celava le parti basse dell'edifizio. Emilia non potè reprimere un profondo sospiro.--Quest'ora, pensava ella, era pure la sua ora prediletta.--E vedendo il paese sul quale allungavansi le ombre: «Qual quiete!» sclamava; «qual deliziosa scena! tutto è tranquillo, tutto è amabile, aimè! come già un tempo!» Ella resisteva ancora al peso terribile del suo dolore, quando udì la musica dei balli campestri che bene spesso aveva osservati passeggiando col padre sulle fiorite sponde della Garonna. Allora pianse amaramente fino al momento in cui si fermò la carrozza. Alzò gli occhi, e riconobbe la sua vecchia governante che apriva la porta della casa. Il cane di suo padre veniva festoso incontro di lei, e quando fu discesa la colmò di carezze; lo che aumentò il di lei vivo dolore. «Mia cara padroncina...» le disse Teresa, e poi si fermò; le lacrime di Emilia le impedivano di replicare; il cane saltellava intorno a lei; di repente corse alla carrozza. «Ah! signora Emilia, povero il mio padrone!» sclamò Teresa; «il suo cane è andato a cercarlo.» Emilia singhiozzò vedendo quell'animale amoroso saltare in carrozza, scendere, fiutare, e cercare con inquietudine. «Venite mia cara signorina,» disse Teresa, «andiamo; che cosa potrò io darvi per rinfrescarvi?» Emilia prese la mano della governante, sforzandosi di moderare il suo dolore, con interrogazioni sullo stato della di lei salute. Camminava lentamente verso la porta, si fermava, faceva un passo, e si fermava di nuovo. Qual silenzio! Qual abbandono, qual morte in quel castello! Temendo di rientrarvi, e rimproverandosi le sue esitanze, traversò rapidamente la sala, come se avesse temuto di guardarsi intorno, ed aprì il gabinetto che altre volte chiamava il _suo_. L'imbrunir della sera dava qualcosa di solenne al disordine di quel luogo: le sedie, i tavolini, e tutti gli altri mobili, che in tempi più felici osservava appena, parlavano allora troppo eloquentemente al suo cuore; ella sedette vicino ad una finestra che guardava sul giardino, d'onde, in compagnia del padre, aveva spesso contemplato l'effetto maraviglioso del sole all'occaso. Non si contenne più e si trovò sollevata da quello sfogo. «Vi ho preparato il letto verde,» disse Teresa portandole il caffè; «ho creduto che ora lo preferireste al vostro. Non avrei mai creduto che aveste a tornar sola. Qual giorno, gran Dio! La nuova, quando la ricevetti, mi trapassò il cuore: chi l'avrebbe detto, quando partì il mio povero padrone, che non doveva tornare mai più?» Emilia si coprì la faccia col fazzoletto, e le accennò di tacere e partirsene. La fanciulla rimase alcun tempo immersa in alta mestizia; non vedea un solo oggetto che non le ravvivasse il suo dolore: le piante favorite di Sant'Aubert, i libri scelti per lei, e cui leggevano spesso insieme, gli strumenti musicali onde amava tanto l'armonia e che suonava egli medesimo. Alla fine, fattasi coraggio, volle vedere l'appartamento abbandonato; sentì che la sua pena sarebbe aumentata se differiva. Traversò il cortile, ma il coraggio le venne meno nell'aprir la biblioteca; forse l'oscurità che la sera ed il fogliame diffondevano intorno accresceva il religioso effetto di quel luogo, dove tutto le parlava del padre. Scorse la sedia nella quale si poneva: rimase interdetta a tal vista, ed immaginossi quasi averlo visto in persona dinanzi a lei. Cercò scacciare le illusioni d'un'immaginazione turbata, ma non potè astenersi da un certo rispettoso terrore che mescolavasi alle sue emozioni. Inoltrò pian piano verso la sedia e vi s'assise; avea presso un leggìo, su cui stava un libro che suo padre non avea chiuso; riconoscendo la pagina aperta, rammentossi che la vigilia della sua partenza Sant'Aubert aveagliene letto qualcosa: era il suo autore favorito. Guardò il foglio, pianse, e tornò a guardarlo: quel libro era sacro per lei; essa non avrebbe chiusa la pagina aperta per tutti i tesori del mondo; ristette dinanzi al leggìo, non potendo risolversi a lasciarlo. In mezzo ai suoi tristi pensieri, vide la porta aprirsi lentamente; un suono cui udì in fondo alla stanza, la fece trabalzare; credette scorgere qualche movimento. Il subietto della sua meditazione, l'abbattimento de' suoi spiriti, l'agitazione de' sensi le cagionarono un repentino terrore; s'aspettò qualcosa di sovrannaturale. Ma la ragione vincendo la paura: «Di che ho io a temere?» disse; «se le anime di coloro che amiamo compariscono, non può essere che pel nostro meglio.» Il silenzio che regnava la fece vergognare del suo timore; frattanto il medesimo suono ricominciò; distinguendo qualcosa intorno a lei, che venne ad urtar leggermente la sua sedia, gettò un grido, ma non potè nel tempo stesso trattenersi dal sorridere con un po' di confusione, riconoscendo il buon cane che si accucciava vicino a lei, e le lambiva le mani. Emilia, non trovandosi in grado quella sera di visitare tutto il castello, uscì ed andò a passeggiare in giardino, sul terrazzo sovrastante al fiume. Il sole era tramontato, ma sotto i fronzuti rami de' mandorli distinguevansi le strisce di fuoco che indoravano il crepuscolo. La fanciulla si avvicinò al platano favorito, ove Sant'Aubert sedeva spesso vicino a lei, e dove la sua tenera madre le aveva tante volte parlato delle delizie della vita futura; quante volte ben anco suo padre aveva trovato conforto nell'idea di una eterna riunione! Oppressa da tale rimembranza, lasciò il platano, ed appoggiandosi al muro del terrazzo, vide un gruppo di contadini che ballavano allegramente sulle rive della Garonna, la cui vasta estensione rifletteva gli ultimi raggi del dì. Qual doloroso contrasto per la povera Emilia, infelice e desolata! Si voltò, ma oimè! dove poteva essa andare senza incontrar ad ogni passo oggetti fatti per aggravare il suo dolore? se ne tornava lentamente a casa quando incontrò Teresa, la quale sgridolla dolcemente di esporsi sola in giardino ed a quell'ora, dove non poteva ricevere alcuna consolante assistenza nello stato penoso in cui si trovava. «Ve ne prego, Teresa, lasciatemi tranquilla,» disse Emilia; «la vostra intenzione è ottima, ma l'eloquenza è male adattata in questo momento. --Intanto la cena è preparata,» rispose la governante. --Non posso mangiare,» disse Emilia. --Fate malissimo, mia cara padrona, bisogna nutrirsi. Vi ho preparato un fagiano, che m'ha mandato stamattina il signor Barreaux: avendolo incontrato ieri, gli dissi che vi aspettava; vi giuro che non ho mai veduto un uomo più afflitto di lui, quando gli diedi la trista nuova...» Emilia, malgrado tutte le premure di Teresa, non volle mangiare, e si ritirò nella sua camera. Qualche giorno appresso ricevè lettere di sua zia. La signora Cheron, dopo alcune espressioni di consolazione e di consiglio, la invitava ad andare a Tolosa, aggiungendo che il defunto fratello avendole affidata la sua educazione, si credeva in obbligo d'invigilare sopra di lei. Emilia avrebbe preferito di restare alla valle; essendo esso l'asilo della sua infanzia ed il soggiorno di coloro che aveva perduti per sempre, poteva piangerli liberamente senza essere molestata da alcuno; ma desiderava parimenti non dispiacere alla sola parente che le restava. Quantunque la di lei tenerezza non le permettesse di dubitare un istante sulle ragioni che avevano determinato Sant'Aubert a fare questa scelta, Emilia comprendeva benissimo che la sua felicità andava ad essere esposta ai capricci della zia. Rispondendole, ella chiese il permesso di restare ancora qualche tempo nella valle, allegando il suo estremo abbattimento, ed il bisogno che aveva di riposo e di solitudine, per ristabilirsi dai dispiaceri sofferti; sapeva benissimo che i di lei gusti differivano assai da quelli di sua zia, la quale amava la dissipazione, e le sue ricchezze le permettevano di goderne. Dopo avere scritta questa lettera, Emilia si sentì più sollevata. Ricevè la visita di Barreaux, il quale compiangeva sinceramente la perdita dell'amico. «Non posso rammentarmene senza il più vivo interesse,» diceva egli; «io non troverò alcuno che lo somigli. Se avessi incontrato un uomo solo come lui nel mondo, non ci avrei rinunciato.» L'affezione di Barreaux per Sant'Aubert lo rendeva estremamente caro ad Emilia; la di lei maggior consolazione consisteva nel parlare de' suoi genitori con un uomo che stimava moltissimo, e che, sotto un esteriore poco gradevole, nascondeva un cuore tanto sensibile ed uno spirito così coltivato. Scorsero parecchie settimane, ed Emilia nel suo pacifico ritiro passò gradatamente dal dolore ad una dolce malinconia; poteva già leggere, e leggere perfino i libri che aveva percorsi col padre, sedere al suo posto nella biblioteca, inaffiare i fiori da lui piantati, suonare il pianoforte, e cantare di tempo in tempo qualcuna delle sue arie favorite. Quando il suo spirito fu un poco rimesso da questa prima scossa, comprese il pericolo di cedere all'indolenza, e pensando che un'attività sostenuta avrebbe potuto restituirle la forza, si attaccò scrupolosamente ad impiegare con metodo tutte le ore del giorno. Allora conobbe più che mai il pregio dell'educazione ricevuta. Coltivando la di lei mente, Sant'Aubert le aveva assicurato un rifugio contro l'ozio e la noia. La dissipazione, i brillanti divertimenti e le distrazioni della società da cui separavala la sua posizione attuale, non eranle punto necessari. Ma, nel tempo medesimo, il padre aveva sviluppato le preziose qualità del suo spirito; spargendo le sue beneficenze intorno a sè, con la bontà e la compassione addolciva i mali di coloro che non poteva alleviare coi soccorsi; in una parola, sapeva compatire tutti gli esseri che si trovavano vittima dei mali inseparabili della vita umana. Non ricevendo nessuna risposta dalla Cheron, Emilia cominciava a lusingarsi di poter prolungare il suo soggiorno nella valle; e sentendosi bastantemente in forza, si arrischiò a visitare quei luoghi, ove il passato rappresentavasi più vivamente al di lei spirito; recossi dunque alla peschiera, e per aumentare la malinconia, che tanto le piaceva, portò seco il liuto, e vi andò in una di quelle ore della sera che tanto si affanno all'immaginazione e al cuore: quando la fanciulla fu tra i boschi e vicina a quel luogo delizioso, si fermò, appoggiossi contro un albero, e pianse qualche minuto prima di avanzarsi. La stradella che menava al padiglione era allora tutta ingombra di erbe; i fiori seminati da suo padre sui margini, ne parevan quasi soffocati; le ortiche, il caprifoglio crescevano a cespi; ed ella osservava tristamente quella passeggiata negletta; ove tutto annunziava il disordine e la noncuranza, aprì la porta tremando. «Ah!» disse; «ogni cosa è al suo posto come ve la lasciai quando ci stava in compagnia di chi non rivredrò mai più.» Se ne stava ella così pensierosa, senza riflettere ch'era imminente la notte, e che gli ultimi raggi del sole indoravano già la cima de' monti; sarebbe rimasta senza dubbio più a lungo in quella situazione, se non fosse stata risvegliata da un rumore di passi dietro l'edifizio. Poco dopo fu aperta la porta, comparve uno straniero, e stupefatto di vedere Emilia, la supplicò di scusare la sua indiscretezza. Al suono di quella voce, svanì il timore di lei, ma crebbe la sua commozione. Quella erale famigliare, e sebbene non potesse riconoscerne l'oggetto, la memoria le serviva troppo bene perch'ella conservasse paura. L'ignoto ripetè le sue scuse. Emilia rispose qualche parola, ed allora avanzandosi esso con vivacità, esclamò: «Gran Dio! è mai possibile? Certo, io non m'inganno, è la signorina Sant'Aubert. --È vero,» disse Emilia, riconoscendo Valancourt, la cui fisonomia sembrava molto animata. Mille rimembranze penose rinnovarono le sue tristi afflizioni, e lo sforzo che fece per contenersi, non servì se non ad agitarla davvantaggio. Valancourt intanto s'informava premurosamente della salute di Sant'Aubert. Un torrente di lacrime gli fece conoscere pur troppo la fatal notizia. Egli la condusse ad una sedia, e si assise vicino a lei che continuava a piangere, mentre il giovane teneva una mano stretta fra le sue. «Io so,» disse finalmente, «quanto in simili casi sono inutili le consolazioni: dopo una sì gran disgrazia, non posso che affliggermi con voi.» Quando Valancourt intese che Sant'Aubert era morto in viaggio, ed aveva lasciato Emilia in mano a persone estranee, esclamò involontariamente: «Dov'era io?» quindi mutò discorso, e parlò di sè medesimo. Le raccontò che, dopo la loro separazione, aveva errato qualche giorno sulla riva del mare, ed era tornato in Guascogna passando per la Linguadoca. Dopo questa breve narrazione, egli tacque: Emilia non era disposta a riprendere la parola, e s'incamminarono verso il castello. Quando furono giunti alla porta, egli si fermò come se avesse creduto di non dover andar più oltre; disse ad Emilia che contando recarsi il giorno seguente ad Estuvière, domandava il permesso di venire a congedarsi da lei, ed essa non ebbe coraggio di negarglielo. Giunta la notte, non potè prender sonno, essendo più che mai occupata dalla memoria del padre. Rammentandosi in qual maniera precisa e solenne le aveva ordinato di bruciare le sue carte, rimproverò a sè stessa di non avere obbedito più presto, e decise di riparar la domane a questa negligenza. CAPITOLO IX La mattina seguente, Emilia fece accendere il fuoco nella camera da letto del padre, e vi andò ond'eseguire scrupolosamente i di lui ordini: chiuse la porta per non essere sorpresa, ed aprì il gabinetto dov'erano i manoscritti; là, in un canto, presso un seggiolone, eravi il medesimo tavolino ove avea veduto assiso il padre la notte precedente alla loro partenza, ed essa non dubitò più che le carte di cui le aveva parlato, non fossero quelle stesse la cui lettura gli cagionava allora tanta emozione. La vita solitaria vissuta da Emilia, i malinconici subietti de' suoi consueti pensieri avevanla resa suscettibile di credere a spettri e fantasime. Era in ispecie passeggiando la sera in una casa deserta, ch'ella avea rabbrividito più volte a pretese apparizioni, che non l'avrebbero mai colpita quand'era felice: tal fu la causa dell'effetto da lei provato, allorchè, alzando gli occhi per la seconda volta sulla sedia posta in un canto oscuro, vi scorse l'imagine del genitore. Fu colta da terrore, ed uscì a precipizio. Poco stante rimproverossi la sua debolezza nel compiere un dovere così serio, e riaperse il gabinetto. A tenore delle istruzioni ricevute trovò ben presto il nodo che doveva servirle di guida: calcò col piede, e la tavola scorse da per sè sotto la contigua. Emilia vi ritrovò il fascio di carte, la borsa dei luigi, e qualche altro foglio sparso; prese tutto con mano tremante, richiuse il segreto, e disponevasi a rialzarsi, quando si vide ancora dinanzi l'imagine che l'avea spaventata: ella si precipitò nella camera, e cadde sopra una sedia svenuta; poco dopo rinvenne, e superò in breve quella spaventevole, ma pietosa sorpresa dell'immaginazione. Tornò alle carte, ma avea la testa sì poco a casa, che fissò gli occhi quasi involontariamente sopra le pagine aperte, senza pensare che trasgrediva agli ordini formali del padre; una frase di estrema importanza risvegliò l'attenzione e la memoria di lei. Abbandonò le carte, ma non potè cancellare dallo spirito le parole che rianimavano così vivamente il suo terrore e la sua curiosità; essa erane estremamente commossa. Più meditava, e più la sua immaginazione accendevasi. Spinta dalle più imperiose ragioni, voleva conoscere il mistero che si nascondeva in quella frase; si pentiva del giuramento fatto, ed arrivò perfino a dubitare di essere obbligata ad osservarlo; ma il suo errore non fu di lunga durata. «Ho promesso,» diss'ella, «e non devo discutere, ma obbedire: allontaniamo una tentazione che mi renderebbe colpevole, giacchè mi sento forza bastante per resistere.» E all'istante tutto fu arso. Aveva lasciata la borsa sul tavolino senza aprirla; ma accorgendosi che conteneva qualcosa di più grosso dei dobloni, si mise ad esaminarla. «La sua mano ve li pose,» dicea ella baciando ogni moneta ed irrigandola di lagrime; «la sua mano, che or non è più se non fredda polvere!» Vi trovò in fondo un pacchettino, contenente una scatoletta d'avorio nella quale esisteva il ritratto d'una signora. Stupì e sclamò: «È la stessa dinanzi la quale piangeva mio padre!» Per quanto la considerasse attentamente, non potè precisarne la somiglianza: essa era di peregrina beltà. La sua espressione particolare era la dolcezza, ma vi regnava un'ombra di tristezza e rassegnazione. Sant'Aubert non le aveva prescritto nulla a proposito di questa pittura. Emilia credè poterla conservare, e rammentandosi in qual modo le avesse parlato della marchesa di Villeroy, s'immaginò facilmente che quello ne fosse il ritratto: pur non sapeva comprendere per qual ragione egli l'avesse conservato. La fanciulla osservava la miniatura, senza comprendere l'interesse che prendeva a contemplarla, e il movimento d'affetto e di pietà che sentiva in sè. Ricci di capelli bruni scherzavano trascuratamente sovra un'ampia fronte: avea il naso quasi aquilino. Le labbra sorridevano, ma con malinconia: sollevava gli occhi cilestri al cielo con amabil languore, e la specie di nube sparsa su tutta la sua fisonomia parea esprimere la più viva sensibilità. Emilia fu scossa dalla profonda meditazione in cui l'aveva gettata quel ritratto, sentendo aprire la porta del giardino: conobbe che Valancourt ritornava al castello, e le abbisognarono alcuni momenti per rimettersi. Quando lo incontrò nel salotto, fu colpita dal cambiamento della sua fisonomia dopo la loro separazione nel Rossiglione: il dolore e l'oscurità le avevano impedito di accorgersene la sera precedente; ma l'abbattimento di Valancourt cedè alla gioia di vederla. «Voi vedete,» le disse, «ch'io faccio uso del permesso da voi accordatomi. Vengo per dirvi addio, sebbene abbia avuto la fortuna d'incontrarvi ieri soltanto.» Emilia sorrise debolmente, e, come imbarazzata di ciò che dovrebbe dire, gli domandò da quanto tempo fosse tornato in Guascogna. «Vi sono da...» disse Valancourt facendosi rosso, «dopo aver avuta la disgrazia di separarmi da amici che mi avevano reso così delizioso il viaggio dei Pirenei; ho fatto un giro assai lungo.» Una lacrima scorse dagli occhi d'Emilia mentre Valancourt parlava; egli se ne avvide e parlò di tutt'altro; lodò il castello, la sua bella situazione ed i punti di vista che offriva. Emilia, imbarazzatissima per quel colloquio, scelse con piacere un soggetto indifferente. Andarono sul terrazzo, e Valancourt fu incantato dalla vista del fiume, dei prati, e dei quadri molteplici che presentava la Guienna. Si appoggiò al parapetto, contemplando il rapido corso della Garonna. «Non è molto tempo,» diss'egli, «che sono rimontato fino alla sua sorgente; io non aveva allora la fortuna di conoscervi, poichè in tal caso avrei dolorosamente sentita la vostra assenza.» Il giovane tacque, e sedette accanto a lei, muto e tremante; finalmente disse con voce interrotta: «Questo luogo delizioso.... dovrò abbandonarlo, e abbandonerò anche voi, forse per sempre. Questi momenti possono non tornar più; non voglio perderli: soffrite intanto che, senza offendere la vostra delicatezza e il vostro dolore, vi esprima una volta tutta l'ammirazione, e la riconoscenza che m'inspira la vostra bontà. Oh! se io potessi avere un giorno il diritto di chiamare amore il vivo sentimento che...» La commozione di Emilia non le permise di rispondere, e Valancourt, avendo gettato gli occhi su di lei, la vide impallidire e sul punto di venir meno: fece un moto involontario per sostenerla, e questo moto bastò a farla rinvenire con certo quale spavento. Quando Valancourt riprese la parola, tutto in lui, e perfino la voce, manifestava l'amore il più tenero. «Io non ardirei,» soggiunse egli, «parlarvi più a lungo di me: ma questo momento crudele avrebbe meno amarezza, se potessi portar meco la speranza, che la confessione, testè sfuggitami, non mi escluderà in avvenire dalla vostra presenza.» Emilia fece un nuovo sforzo per vincere la confusione delle sue idee. Temeva di tradire il suo cuore, e di lasciar conoscere la preferenza che accordava a Valancourt. Ella esitava a manifestare i sentimenti ond'era animata, non ostante che il cuore ve la spingesse con molta vivacità. Nonpertanto, riprese coraggio, per dirgli che si trovava onorata dalla bontà d'una persona, per la quale suo padre aveva avuto tanta stima. «Egli mi ha dunque giudicato degno della sua stima?» disse Valancourt con dubbiosa timidezza; poi, rimettendosi, soggiunse: «Perdonate questa domanda; io so appena ciò che voglia dirmi. Se ardissi lusingarmi della vostra indulgenza, se voi mi concedeste la speranza di avere qualche volta le vostre nuove, mi separerei da voi con maggior tranquillità.» Dopo un momento di silenzio, Emilia rispose: «Io sarò sincera con voi; voi vedete la mia situazione, e son certa che vi ci adatterete. Vivo in questa casa, che fu quella del padre mio, ma ci vivo sola. Oimè! Io non ho più genitori, la cui presenza possa autorizzare le vostre visite... --Non affetterò di non sentire questa verità,» disse il giovane. Poi aggiunse tristamente: «Ma chi m'indennizzerà del sacrificio che mi costa la mia franchezza? Almeno mi permetterete voi di presentarmi ai vostri parenti.» La fanciulla confusa, non sapeva che rispondere conoscendone la difficoltà. Il suo isolamento e la sua posizione non le lasciavano un amico del quale potesse ricevere un consiglio. La Cheron, unica sua parente, era occupata solo de' propri piaceri, e trovavasi talmente offesa della ripugnanza di Emilia a lasciar la valle, che sembrava non pensar più a lei. «Ah! io lo vedo,» disse Valancourt, dopo un lungo silenzio, «conosco che mi sono lusingato di troppo. Voi mi credete indegno della vostra stima. Viaggio fatalissimo! Io lo riguardava come l'epoca più fortunata della mia vita: quei giorni deliziosi avveleneranno il mio avvenire.» Qui si alzò bruscamente, e passeggiando a gran passi sul terrazzo, gli si vedeva la disperazione dipinta in volto. Emilia ne fu vivamente commossa. I movimenti del suo cuore trionfarono della di lei timidezza, e quando egli le fu vicino, gli disse con una voce che la tradiva: «Voi fate torto ad amendue, quando dite ch'io vi credo indegno della mia stima; devo confessare che la possedete da molto tempo, e che....» Valancourt aspettava impaziente la fine della frase, ma le parole le spirarono sul labbro: i suoi occhi nullameno manifestavano tutte l'emozioni del di lei cuore; Valancourt passò rapidamente dall'imbarazzo alla gioia. «Emilia,» esclamò egli, «mia cara Emilia. O cielo! come resistere a tanta felicità!» Si accostò alla bocca la mano della fanciulla; essa era fredda e tremante, e Valancourt la vide impallidire; si rimise però prontamente, e gli disse sorridendo: «mi pare di non essere ancora ristabilita dal colpo terribile che ha ricevuto il mio povero cuore. --Perdonatemi,» le rispose il giovane, «io non parlerò più di ciò che può eccitare la vostra sensibilità.» Poi, obliando la sua risoluzione, cominciò a parlare nuovamente di sè medesimo. «Voi non sapete,» le disse, «quanti tormenti ho sofferti vicino a voi, quando senza dubbio, se mi onoravate d'un pensiero, voi dovevate credermi molto lontano di qui. Non ho cessato di vagolar tutte le notti intorno a questo castello avvolto in una profonda oscurità; quanto m'era delizioso il sapermi vicino a voi! Godeva nell'idea che vegliava intorno al vostro ritiro, e che voi gustavate sonno tranquillo. Questi giardini non sono nuovi per me. Una sera scavalcai la siepe, e passai una delle più felici ore della mia vita sotto la finestra, che credeva la vostra.» Emilia s'informò quanto tempo Valancourt fosse stato nel vicinato. «Molti giorni,» rispos'egli; «io voleva profittare del permesso accordatomi da Sant'Aubert. Non capisco com'egli avesse questa bontà, ma sebbene lo desiderassi vivamente, quando si avvicinava il momento, io perdeva il coraggio, e differiva la mia visita. Era alloggiato in un villaggio poco discosto, e scorreva co' miei cani i dintorni di questo bel paese, anelando la fortuna d'incontrarvi, senza aver l'ardire di venire a trovarvi.» Passarono circa due ore in questa conversazione; finalmente Valancourt, alzandosi: «Bisogna ch'io parta,» disse tristamente, «ma colla speranza di rivedervi, e con quella di offrire il mio rispetto e la mia servitù ai vostri parenti. La vostra bocca mi confermi in tale speranza. --I miei parenti si chiameranno fortunatissimi di far la conoscenza d'un antico amico del padre mio.» Valancourt le baciò la mano, e restarono immobili senza potersi allontanare. Emilia taceva, teneva gli occhi bassi, e quelli di Valancourt stavano fissi in lei. In quel punto, udirono camminare frettolosamente dietro al platano. La fanciulla, voltandosi, vide la signora Cheron; arrossì, e fu assalita da improvviso tremito; pure si alzò, e corse incontro alla zia. «Buon giorno, nipote mia,» disse la Cheron gettando uno sguardo di sorpresa e curiosità su Valancourt, «buon giorno, nipote mia, come state? Ma la domanda è inutile; il vostro volto indica bastantemente che vi siete già consolata della vostra perdita. --Il mio volto in tal caso mi fa torto, signora; la perdita da me fatta non può mai essere riparata. --Bene!... Bene!... non voglio affliggervi. Voi somigliate moltissimo a vostro padre... e certo sarebbe stata una fortuna pel pover'uomo se avesse avuto un carattere diverso.» Emilia non volle replicare, e le presentò l'afflitto Valancourt; il giovane rispettosamente salutò la signora Cheron, la quale gli restituì una fredda riverenza, guardandolo con piglio sdegnoso. Dopo qualche momento egli si congedò da Emilia con un'aria che le faceva bastantemente conoscere il suo dolore di allontanarsi, e lasciarla in compagnia della zia. «Chi è quel giovine?» disse questa con asprezza; «suppongo sarà uno dei vostri adoratori; ma io credeva, nipote mia, che aveste un po' più rispetto delle convenienze, per ricevere le visite d'un giovinetto nello stato di solitudine in cui siete. Il mondo osserva questi falli; se ne parlerà, credetelo a me, che ho più esperienza di voi.» Emilia, punta da un rimprovero così violento, avrebbe voluto interromperla, ma la zia continuò: «È necessariissimo che vi troviate sotto la direzione d'una persona in grado di guidarvi più di quello che possiate farlo voi stessa. In verità, ho poco tempo per un compito tale; nondimeno, giacchè il vostro povero padre, negli ultimi istanti di sua vita, mi ha pregato di vegliare sulla vostra condotta, sono obbligata d'incaricarmene; ma sappiate, nipote cara, che se non vi determinate alla massima docilità, non mi tormenterò troppo a riguardo vostro.» Emilia non si provò neppure a rispondere. Il dolore, l'orgoglio ed il sentimento della sua innocenza la contennero fino al momento in cui la zia aggiunse: «Io son venuta a prendervi per condurvi a Tolosa; mi dispiace però che vostro padre sia morto con sì tenue sostanza: malgrado ciò, vi prenderò in casa mia. Quel benedetto vostro padre è stato sempre più generoso che previdente; in caso diverso egli non avrebbe lasciato sua figlia alla discrezione dei parenti. --E così appunto non ha fatto,» disse Emilia freddamente; «il disordine della sua fortuna non proviene tutto da quella nobile generosità che lo distingueva: gli affari del signor Motteville possono accomodarsi, come spero, senza rovinare i creditori, e fino a quell'epoca mi stimerò fortunatissima di risiedere nella valle. --Non ne dubito,» rispose la Cheron, con un sorriso pieno d'ironia. «Oh! non ne dubito; e vedo quanto la tranquillità ed il ritiro furono salutari al ristabilimento del vostro spirito. Non vi credeva capace, nipote mia, di una simile doppiezza. Quando mi allegavate questa scusa, io ci credeva in buona fede, e non mi aspettava certo di trovarvi in una compagnia tanto amabile come quella del signor La.... Va.... me ne sono scordata il nome. Si vede che osservate bene le convenienze!...» Emilia si fece di fuoco, raccontò la relazione di Valancourt e di suo padre, la circostanza della pistolettata, e il seguito de' loro viaggi; vi aggiunse l'incontro fortuito del giorno precedente, e confessò infine che Valancourt le aveva dimostrato qualche interesse, e domandato il permesso di rivolgersi a' suoi parenti. «E chi è quel giovine avventuriere?» disse la Cheron; «quali sono le sue pretese? --Ve le spiegherà egli stesso, o signora; mio padre lo conosceva, ed io lo credo irreprensibile. --Sarà un cadetto,» sclamò la zia, «e per conseguenza un mendico. Così dunque mio fratello s'appassionò per cotesto giovine in pochi giorni! già fu sempre così; nella sua gioventù prendeva inclinazione o avversione, senza potere indovinarne il motivo; ed ho osservato più volte, che le persone dalle quali si allontanava, erano sempre più amabili di quelle che l'interessavano; ma dei gusti non si può disputare. Era assuefatto a fidarsi molto della fisonomia; qual ridicolo entusiasmo! Cos'ha di comune il volto d'un uomo col suo carattere? Un uomo dabbene non potrà forse qualche volta avere una fisonomia spiacevole?» La Cheron pronunziò questa sentenza col tuono trionfante di una persona, la quale, credendo aver fatta una grande scoperta, se ne applaudisce, e pensa non si possa contraddirla. Emilia, desiderando finire quel colloquio, pregò la zia di accettare qualche rinfresco. Appena giunta a casa, questa le ordinò di fare i suoi preparativi della partenza per Tolosa fra due o tre ore. Essa la scongiurò di differire almeno fino al giorno seguente, e l'ottenne con qualche difficoltà. Il resto del giorno fu passato nell'esercizio di una pedantesca tirannia per parte della zia, e nei disgusti e nel dolore per parte della nipote. Appena quella si fu ritirata, Emilia diede l'ultimo addio alla casa, ch'era stata la sua culla. La lasciava senza sapere il tempo della sua assenza, e per un nuovo genere di vita che ignorava assolutamente; ma non poteva vincere il presentimento che non sarebbe mai più ritornata nella valle. Mentre era nella biblioteca paterna, e che sceglieva qualche libro per portar seco, Teresa aprì la porta onde assicurarsi, secondo il consueto, se tutto era in ordine, e restò sorpresa di trovare colà la padroncina. Emilia le diede le opportune istruzioni pel mantenimento del castello. «Oimè!» le disse Teresa; «voi dunque partite? Se non m'inganno però mi sembra che voi sareste più felice qui, che non dove vogliono condurvi.» Emilia non le rispose, e tornò nella sua camera. Ivi giunta, si mise alla finestra, e vide il giardino fiocamente illuminato dalla luna che sorgea allora al disopra dei fichi. La placida bellezza della notte accrebbe il di lei desiderio di gustare un tristo piacere, facendo pure i saluti ai luoghi prediletti della sua infanzia. Si sentì spinta a scendere, e gettandosi indosso il velo leggero col quale soleva passeggiare, entrò a cauti passi nel giardino, e si diresse celeremente verso i boschetti lontani, lieta di respirar ancora un'aura libera e sospirare senza essere osservata da veruno. Il profondo riposo della natura, i soavi effluvi diffusi dal notturno zeffiro, la vasta estensione dell'orizzonte e l'azzurro firmamento stellato rapivano in dolce estasi l'anima sua e la portavano gradatamente a quelle altezze sublimi donde le orme di questo mondo svaniscono. Emilia fissò gli occhi sul platano, e vi riposò per l'ultima volta. Quivi, ancor poche ore prima, ella discorreva con Valancourt. Ricordossi la confessione da lui fatta che spesso vagolava la notte intorno alla sua dimora, che ne scavalcava il recinto; e d'improvviso pensò che in quel momento stesso egli poteva trovarsi forse in giardino. La paura d'incontrarlo, il timore altresì delle censure della zia la indussero a ritirarsi in casa. Si fermava spesso ad esaminare i boschetti prima di traversarli; vi passò senza vedere alcuno; ma giunta ad un gruppo di mandorli più vicino alla casa, ed essendosi voltata per vedere ancora il giardino, credette scorgere una persona uscire dai pergolati più tenebrosi ed avviarsi lentamente per un viale di tigli, allora illuminato dalla luna. La distanza, la luce troppo fioca, non le permisero d'accertarsi se fosse illusione o realtà. Continuò a guardare alcun tempo, e poco dopo credette udir camminare a sè vicino. Rientrò a precipizio, e tornata nella sua stanza, aprì la finestra nel momento in cui qualcuno penetrava sotto i mandorli, nel luogo stesso da lei lasciato poc'anzi. Chiuse la finestra, e, benchè agitatissima, potè gustare qualche ora di sonno. CAPITOLO X La carrozza che doveva condurre Emilia e la zia a Tolosa fu alla porta di buonissim'ora. La signora Cheron comparve alla colazione prima che vi giungesse la nipote, e piccata dall'abbattimento in cui la vide quando comparve, glielo rimproverò in un modo poco acconcio a farlo cessare. Non senza molta difficoltà, Emilia potè ottenere di condur seco il cane tanto amato da suo padre. La zia, premurosa di partire, fece avanzare la carrozza; la vecchia Teresa stava sulla porta per congedarsi dalla sua padrona. «Dio vi accompagni, signorina,» le disse. Emilia non potè rispondere che stringendole teneramente la mano. Molti degl'infelici che ricevevano soccorsi da suo padre, erano dinanzi alla porta del giardino, e venivano per salutare l'afflittissima Emilia. Essa distribuì tutto il danaro che aveva in tasca, e si ritirò nella carrozza con un profondo sospiro. I precipizi, l'altezza gigantesca dei Pirenei, e tutte le altre magnifiche vedute, rammentarono a Emilia mille interessanti rimembranze; ma questi oggetti d'ammirazione entusiastica, non eccitavano più allora in lei che il dolore ed i dispiaceri. Valancourt intanto era ritornato a Estuvière col cuore tutto pieno di Emilia. Qualche volta si abbandonava ai sogni di un avvenire felice, più spesso cedeva alle inquietudini, e fremeva dell'opposizione che potrebbe trovare nei parenti di Emilia. Egli era l'ultimo figlio di un'antica famiglia di Guascogna. Avendo perduto i genitori nell'infanzia, la sua educazione e la sua tenue legittima erano state affidate al conte Duverney, suo fratello maggiore di vent'anni. Egli aveva un'elevazione di spirito ed una grandezza d'animo che lo facevano brillare negli esercizi in allora chiamati _eroici_. La sua sostanza era diminuita ancora per le spese della sua educazione; ma il fratello maggiore parea pensare forse che il suo genio e i suoi talenti avrebbero supplito alle ingiurie della fortuna; offrivano essi una prospettiva brillante a Valancourt nella carriera militare, il solo allora che potesse essere abbracciato ragionevolmente da un gentiluomo; ed in conseguenza entrò al servizio. Aveva ottenuto un congedo dal reggimento, quando intraprese il viaggio dei Pirenei, all'epoca in cui aveva conosciuto Sant'Aubert. Il suo permesso stando per ispirare, aveva perciò maggior premura di presentarsi ai parenti di Emilia: temeva di trovarli contrari ai suoi voti. Il suo patrimonio, col mediocre supplemento di quello di Emilia, sarebbe bastato ad entrambi, ma non potea soddisfare nè la vanità, nè l'ambizione. Frattanto le nostre viaggiatrici avanzavano: Emilia si sforzava di mostrarsi contenta, e ricadeva nel silenzio e nell'abbattimento. La Cheron attribuiva la sua malinconia al dispiacere di allontanarsi dall'amante; persuasa che il dolore della nipote per la morte del padre non fosse che un'affettazione di sensibilità, costei faceva di tutto per metterlo in ridicolo. Finalmente giunsero a Tolosa. Emilia essendovi stata molti anni addietro, glie n'era rimasta una debolissima rimembranza. Restò sorpresa del fasto della casa e dei mobili; forse la modesta eleganza cui era assuefatta, fu la cagione del suo stupore. Seguì la Cheron traverso una vasta anticamera piena di servi vestiti di ricche livree, entrò in un bel salotto ornato con più magnificenza che gusto, e la zia ordinò che servissero la cena. «Son contenta di trovarmi nel mio castello,» diss'ella abbandonandosi su di un gran canapè; «ci ho tutta la mia gente intorno; detesto i viaggi, sebbene dovessi amarli, perchè tutto ciò che vedo fuori di qua, mi fa sempre trovare ogni cosa più bella nel mio palazzo. Ebbene! non dite nulla? Perchè sì muta, Emilia?» Questa trattenne le lacrimo che le sfuggivano, e finse di sorridere. La sua zia si diffuse molto sullo splendore della casa, sulle conversazioni, e finalmente su ciò che aspettava da Emilia, il cui riserbo e la cui timidezza passavano ai di lei occhi per orgoglio ed ignoranza. Ne prese motivo par rimproverarla, non conoscendo ciò ch'è necessario per guidare uno spirito, il quale, diffidando delle proprie forze, possedendo un discernimento delicato, e immaginandosi che gli altri abbiano maggiori lumi, teme di esporsi alla critica, e cerca rifugio nell'oscurità del silenzio. La cena interruppe l'altiero discorso della signora Cheron, e le riflessioni umilianti ch'essa vi mescolava per la nipote. Dopo cena, la Cheron si ritirò nel suo appartamento, ed una cameriera condusse Emilia al suo; salirono una larga scala, traversarono diversi corridoi, scesero qualche gradino, e passarono per uno stretto andito in una parte remota della casa; infine la cameriera aprì la porta di una stanzuccia, e disse esser quella destinata per la signora Emilia: la fanciulla, rimasta sola, si diede in preda a tutto l'eccesso del dolore che non poteva più contenere. Coloro che sanno per esperienza a qual punto il cuore s'affezioni agli oggetti anche inanimati allorchè ne ha preso l'abitudine, quanto stenti a lasciarli, con qual tenerezza li ritrovi, con qual dolce illusione crede vedere gli antichi amici, costoro soli comprenderanno l'abbandono in cui si trovava allora Emilia, bruscamente tolta dall'unico ricetto ch'ella riconoscesse dall'infanzia, e gettata sopra un teatro e fra persone che le spiacevano ancor più pel carattere che per la novità. Il fido cane di suo padre era con lei nella cameretta, l'accarezzava, e le leccava le mani mentr'ella piangea. «Povera bestia,» diceva essa; «non ho più nessun altro che te per amico.» CAPITOLO XI Il castello della signora Cheron era vicinissimo a Tolosa, e circondato da immensi giardini; Emilia, alzatasi di buon'ora, li percorse prima della colazione. Da un terrazzo che si estendeva fino all'estremità di questi giardini, scoprivasi tutta la Bassa Linguadoca. Emilia riconobbe le alte cime dei Pirenei; e la sua immaginazione le dipinse tosto la verzura ed i pascoli che sono alle falde di essi. Il suo cuore volava verso la sua placida dimora. Provava un piacere inesprimibil nel supporre di vederne la situazione, sebbene potesse appena scorgerne i monti. Poco occupata del paese in cui si trovava, fissava gli occhi sulla Guascogna, ed il suo spirito pascevasi delle rimembranze interessanti destate in lei da tal vista. Un servitore venne ad avvertirla che la colazione era pronta. «Dove siete stata così di buon'ora?» disse la Cheron quando entrò la nipote. «Non approvo queste passeggiate solitarie. Desidero che non usciate tanto presto la mattina senz'essere accompagnata. Una fanciulla, che al castello della valle dava appuntamenti al chiaro di luna, ha bisogno d'un poco di sorveglianza.» Il sentimento della propria innocenza non impedì il rossore di Emilia. Essa tremava, e chinava gli occhi tutta confusa, mentre la zia le lanciava sguardi arditi, ed arrossiva ella stessa: ma il di lei rossore era quello dell'orgoglio soddisfatto, quello di una persona che si compiace della propria penetrazione. Emilia, non dubitando che la zia non intendesse parlare della sua passeggiata notturna prima di lasciar la valle, credè dovergliene spiegare i motivi; ma essa, col sorriso del disprezzo, ricusò di ascoltarla. «Non mi fido,» le disse, «delle proteste di alcuno; giudico le persone dalle loro azioni, e proverò la vostra condotta per l'avvenire.» Emilia, meno sorpresa della moderazione e del silenzio misterioso della zia, di quello nol fosse stata dell'accusa, vi riflettè profondamente, e non dubitò più non fosse Valancourt ch'ella avea veduto la notte ne' giardini della valle, e che la zia poteva bene aver riconosciuto. Intanto, non lasciando un soggetto penoso se non per trattarne un altro che non eralo meno, parlò di Motteville e della perdita enorme che la nipote faceva nel suo fallimento. Mentr'essa ragionava con fastosa pietà degl'infortunii che opprimevano Emilia, insisteva sui doveri dell'umanità e della riconoscenza, facendo divorare alla povera fanciulla le più crudeli mortificazioni, ed obbligandola a considerarsi non solo sotto la di lei dipendenza, ma sotto quella ben anco di tutta la servitù. L'avvertì allora che in quel giorno si aspettava molta gente a pranzo, e le ripetè tutte le lezioni della sera precedente sul modo di contenersi in società: aggiunse che voleva vederla abbigliata con gusto ed eleganza, e poscia si degnò mostrarle tutto lo splendore del suo castello, farle osservare tutto quanto brillava d'una magnificenza particolare, e che si faceva distinguere nei vari appartamenti; dopo di che si ritirò nel suo gabinetto di toletta. Emilia si chiuse nella sua camera, tirò fuori i suoi libri, e ricreò lo spirito colla lettura, fino al momento di vestirsi. Quando i convitati furono riuniti, Emilia entrò nella sala con un'aria di timidezza che non potè vincere, per quanto vi si sforzasse. L'idea che la zia l'osservava con occhio severo, la turbava vie maggiormente. Il suo abito di lutto, la dolcezza, l'abbattimento della sua bella fisonomia, non meno che la modestia del contegno, la resero interessantissima a quasi tutta la società. Riconobbe essa Montoni ed il suo amico Cavignì, che aveva trovati in casa di Quesnel; avevano questi nella casa della Cheron tutta la famigliarità di antichi conoscenti, ed anch'essa sembrava accoglierli con molto piacere. Montoni portava nel suo contegno il sentimento della superiorità: lo spirito ed i talenti co' quali poteva sostenerla obbligavano tutti gli altri a cedergli. La finezza del suo tatto era fortemente espressa nella sua fisonomia; ma sapeva dissimulare quando bisognava, e potevasi notare spesso in lui il trionfo dell'arte sulla natura. Aveva il viso lungo e magro, eppure lo dicevano bello; elogio forse più da attribuirsi alla forza e vigoria dell'anima, che delineavansi in tutti i suoi tratti. Emilia concepì per lui una specie d'ammirazione, ma non quell'ammirazione che poteva condurre alla stima; essa vi univa una specie di timore, di cui non sapeva indovinare il motivo. Cavignì era giocondo ed insinuante come la prima volta. Sebbene quasi sempre occupato della signora Cheron, trovava il mezzo di parlar con Emilia. Le indirizzò da principio qualche motto spiritoso, e prese in seguito un'aria di tenerezza di cui ella si accorse benissimo, e che non la spaventò. Ella parlava poco, ma la grazia e dolcezza delle sue maniere l'incoraggirono a continuare; non fu interrotta se non quando una giovine signora del circolo, che parlava sempre, e di tutto, venne a mescolarsi ai loro discorsi; questa signora, che spiegava tutta la vivacità e la civetteria francese, affettava d'intender tutto, o piuttosto non vi mettea nemmeno affettazione. Non essendo mai uscita da una perfetta ignoranza, s'immaginava che non avesse nulla da imparare; obbligava tutti ad occuparsi di lei, divertiva talvolta, stancava dopo un momento, e poi era abbandonata. Emilia, quantunque ricreata da tutto quanto aveva veduto, si ritirò senza rincrescimento, e si abbandonò volentieri di nuovo alle rimembranze che tanto le piacevano. Passarono quindici giorni in una folla di visite e di dissipazioni; Emilia accompagnava per tutto la Cheron, si divertiva di rado, e annoiavasi spesso. Fu colpita dell'apparente istruzione e delle cognizioni di cui facean mostra intorno a lei le persone che componevano la conversazione; non fu se non molto dopo che riconobbe l'impostura di tutti quei pretesi talenti. Ciò che la ingannò maggiormente fu quell'aria di brio continuato, e soprattutto di bontà ch'ella osservava in ciascun personaggio. S'immaginava che un'affabilità consueta e sempre pronta ne fosse il vero fondamento. Finalmente, l'esagerazione di qualcuno, meno abile degli altri, le fece sospettare che, se il contento e la bontà sono i soli principii d'una dolce amenità, gli eccessi smoderati ai quali uno si abbandona ordinariamente sono il risultato della più perfetta insensibilità. Emilia passava i momenti più graditi nel padiglione del terrazzo. Vi si ritirava con un libro, per godere della sua malinconia, o col liuto, per vincerla. Assisa cogli occhi fissi sui Pirenei e sulla Guascogna, essa cantava le ariette più interessanti del suo paese, imparate nell'infanzia. Una sera, Emilia suonava il liuto nel padiglione con un'espressione che veniva dal cuore. Il sole all'occaso illuminava ancora la Garonna, che fuggiva a qualche distanza, e le cui acque erano passate dinanzi alla valle. Emilia pensava a Valancourt; non ne avea udito più parlare dopo il suo soggiorno a Tolosa; ed ora, lontana da lui, sentiva tutta l'impressione che aveva fatta sul proprio cuore. Prima di aver conosciuto Valancourt, non aveva incontrato alcuno, il cui spirito ed il gusto si accordassero tanto bene col suo. La Cheron avevale parlato di dissimulazione, di artifizi; pretendeva essa che quella delicatezza, cui ammirava nell'amante, non foss'altro che un laccio per piacerle, eppure essa credeva alla di lui sincerità. Un dubbio nondimeno, per debole che fosse, bastava opprimerle il cuore. Il rumore d'un cavallo sulla strada, sotto la sua finestra, la scosse da questi pensieri: vide un cavaliere il cui personale ed il portamento le rammentavano Valancourt, giacchè l'oscurità non le permetteva di distinguerne i lineamenti. Si tirò indietro temendo d'esser veduta, e desiderando al tempo stesso di osservare. L'incognito passò senza guardare, e quando si fu ravvicinata alla finestra, lo vide nel viale che conduceva a Tolosa. Questo lieve incidente la rese di cattivo umore, e, dopo alcuni giri sul terrazzo, tornò presto al castello. La Cheron rientrò più ruvida del solito; ed Emilia non fu contenta se non quando le fu permesso di ritirarsi nella sua cameretta. Il giorno dopo essa fu chiamata dalla zia, la quale ardeva di collera, e che, appena la vide, le presentò una lettera. «Conoscete voi questo carattere?» le disse con voce severa, e guardandola fiso, mentre Emilia esaminava la lettera con attenzione. --No, signora, io non lo conosco,» le rispose. --Non mi fate perder la pazienza,» disse la zia; «voi lo conoscete, confessatelo subito, esigo che diciate la verità.» Emilia taceva e stava per uscire. La Cheron la richiamò. «Oh! voi siete colpevole: vedo adesso che conoscete il carattere. --Ma se ne dubitavate, signora,» disse Emilia con dignità, «perchè accusarmi di aver detto una bugia? --È inutile negarlo,» disse la signora Cheron; «vedo dal vostro contegno che voi non ignorate il contenuto di questa lettera. Son sicurissima che in casa mia, e senza mia saputa, avete ricevute lettere da quel giovine insolente.» Emilia, indispettita dalla villania di quell'accusa, ruppe il silenzio, e si sforzò di giustificarsi, ma senza convincere la zia. «Non posso supporre che quel giovine avrebbe ardito scrivermi, se voi non l'aveste incoraggito. --Mi permetterete di rammentarvi, signora,» disse Emilia con voce timida, «alcune particolarità d'un colloquio che avemmo insieme a casa mia: vi dissi allora con franchezza di non essermi opposta che il signor Valancourt s'indirizzasse alla mia famiglia. --Non voglio essere interrotta,» disse la signora Cheron; «io.... io... perchè non gliel'avete proibito?» Emilia non rispose. «Un uomo sconosciuto a tutti, assolutamente straniero; un avventuriere che corre dietro ad una ricca fanciulla! Ma almeno, sotto questo rapporto, si può dire ch'egli si è ingannato d'assai. --Ve l'ho già detto, signora, la sua famiglia era conosciuta da mio padre,» disse Emilia modestamente, e fingendo di non avere udita l'ultima frase. --Oh! non mi fido niente affatto del suo giudizio favorevole,» replicò la zia colla sua solita leggerezza. «Egli aveva idee così guaste! Giudicava la gente alla fisonomia. --Signora, poco fa mi credevate colpevole, eppur lo giudicavate dalla mia fisonomia.» Emilia si permise questo rimprovero per rispondere in qualche modo al tuono poco rispettoso col quale la Cheron parlava di suo padre. «Vi ho fatta chiamare,» soggiunse la zia, «per significarvi che non intendo essere importunata dalle lettere o dalle visite di tutti i giovinastri che pretenderanno adorarvi. Questo signor di Valla... non so come lo chiamate, ha l'impertinenza di chiedermi che gli permetta di offerirmi i suoi rispetti; ma gli risponderò come va. Quanto a voi, Emilia, lo ripeto una volta per sempre, se non vi uniformate alla mia volontà, non m'inquieterò più per la vostra educazione, e vi metterò in un convento. --Ah! signora,» disse Emilia struggendosi in lacrime, «come posso io aver meritato questo trattamento?» La Cheron in quell'istante avrebbe potuto ottenere da lei la promessa di rinunziare per sempre a Valancourt. Colta dal terrore, non voleva più acconsentire a rivederlo; temeva d'ingannarsi, e temeva finalmente di non essere stata abbastanza riservata nella conferenza avuta alla valle. Sapeva benissimo di non meritare i sospetti odiosi formati dalla zia, ma era tormentata da infiniti scrupoli. Divenuta timida, e dubitando di far male, risolse di obbedire a qualunque suo comando, e glie ne fece conoscere l'intenzione; ma la Cheron non le prestava fede, e non iscorgeva in lei che l'artifizio, o la paura. «Promettetemi,» disse alla nipote, «che non vedrete quel giovine, e non gli scriverete senza mio permesso. --Ah! signora,» rispose Emilia, «potete voi supporre ch'io fossi capace di farlo? --Io non so cosa supporre; la gioventù non si capisce, chè manca troppo di buon senso per desiderar di essere rispettata. --Io mi rispetto da me stessa,» replicò Emilia; «il padre mio me ne ha sempre insegnata la necessità. Egli mi diceva che, colla mia propria stima, otterrò sempre quella degli altri. --Mio fratello era un buon uomo,» soggiunse la Cheron, «ma non conosceva il mondo. Ma... in somma, non mi avete fatta la promessa che esigo da voi.» Emilia fece la promessa, e andò a passeggiare in giardino. Arrivata al suo padiglione favorito, sedette vicino alla finestra che guardava in un boschetto. La calma di quella solitudine le permetteva di raccogliere i suoi pensieri e di giudicare da per sè della sua condotta. Si rammentò il colloquio avuto al castello, e si convinse con gioia, che nulla poteva allarmare il suo orgoglio, nè la sua delicatezza; si confermò nella stima di sè medesima, e della quale sentiva tanto bisogno. In ogni caso, si decise a non alimentare una corrispondenza segreta, e ad osservare la medesima riserva con Valancourt allorchè lo incontrerebbe. Nell'atto che faceva queste riflessioni, versò alcune lacrime, ma le asciugò prontamente, quando sentì camminare, aprire il padiglione, e, girando la testa, ebbe riconosciuto Valancourt. Un misto di piacere, di sorpresa e terrore s'impadronì tanto del suo cuore, che ne fu vivamente commossa. Impallidì, arrossì, e restò alcuni istanti nell'impossibilità di parlare, e di alzarsi dalla sedia. Il volto di Valancourt era lo specchio fedele di ciò che doveva esprimere il suo: la di lui gioia fu sospesa quando s'accorse dell'agitazione di Emilia. Rinvenuta dalla prima sorpresa, essa rispose con un dolce sorriso; ma una folla di contrari affetti assalirono nuovamente il di lei cuore, e lottarono con forza per soggiogar la sua risoluzione. Era difficile conoscere se la vinceva in lei o la gioia di veder Valancourt, o la paura de' trasporti ai quali si abbandonerebbe la zia allorchè saprebbe quest'incontro. Dopo qualche parola altrettanto laconica che imbarazzata, lo condusse in giardino e gli domandò se avesse veduta la signora Cheron. «No,» diss'egli, «non l'ho veduta, mi fu detto ch'era occupata, e quando ho saputo ch'eravate in giardino, mi sono affrettato di venirvi a trovare.» Poi soggiunse: «Posso io arrischiare di dirvi il soggetto della mia visita senza incorrere nel vostro sdegno? Posso io sperare che non mi accuserete di precipitazione, usando del permesso che mi accordaste, d'indirizzarmi ai vostri parenti?» Emilia non sapea che cosa rispondere, ma la sua perplessità non fu di lunga durata, e fu di nuovo assalita dal terrore allorchè, alla svolta del viale, vide la signora Cheron. Ella aveva ripreso il sentimento della propria innocenza, ed il suo timore ne fu affievolito in guisa, che, in vece di evitare la zia, le andò incontro tranquillissima con Valancourt. Il malcontento e l'impaziente alterigia con cui li osservava la Cheron sconcertarono però Emilia: comprese che quell'incontro sarebbe stato creduto premeditato; presentò il giovane, e, troppo agitata per restar con loro, corse a chiudersi in casa, ove aspettò lungamente e con estrema inquietudine il risultato della conferenza. Non sapeva immaginarsi come l'amante avesse potuto introdursi in casa della zia prima di avere ottenuto il permesso che domandava. Ignorava essa una circostanza che doveva rendere inutile questo passo, nel caso ben anco che la Cheron l'avesse accolto. Valancourt, nell'agitazione del suo spirito, aveva obliato di datare la sua lettera; in conseguenza, non avrebb'ella potuto rispondergli. La signora Cheron ebbe un lungo colloquio con Valancourt, e quando rientrò in casa, il suo contegno esprimeva più cattivo umore che quell'eccessiva severità di cui aveva fremuto Emilia. «Finalmente,» disse la zia, «ho congedato quel giovinetto, e spero che non riceverò più simili visite, mi ha assicurata che il vostro abboccamento non era concertato. --Signora,» disse Emilia commossa, «voi glie ne faceste domanda? --Certo che glie l'ho fatta! non dovevate credermi imprudente tanto da pensare che l'avrei trascurata. --Cielo» sclamò la fanciulla; «quale idea si farà egli di me, signora, se voi stessa gli dimostrate tali sospetti? --L'opinione che si farà di voi,» ripigliò la zia, «è d'or innanzi di pochissima conseguenza. Ho messo fine a questa faccenda, e credo che avrà qualche opinione della mia prudenza. Gli lasciai travedere che non era una stolida, e soprattutto non tanto compiacente da soffrire un commercio clandestino in casa mia. Quanto fu indiscreto vostro padre,» continuò poi, «d'avermi lasciata la cura della vostra condotta! Vorrei vedervi accasata; se dovessi trovarmi importunata più a lungo da quel signor Valancourt, o da altri pari a lui, vi metterò certamente in un chiostro. Ricordatevi dunque dell'alternativa. Quell'audace ha avuto l'impertinenza di confessarmi che la sua sostanza è tenuissima, ch'egli dipende da suo fratello maggiore, e che questa sostanza dipende dal suo avanzamento nella carriera militare. Stolto! avrebbe almeno dovuto nascondermelo se voleva persuadermi. Egli aveva dunque la presunzione di supporre ch'io avrei maritata mia nipote ad un uomo nullatenente, ad un miserabile che lo confessa egli stesso...» Emilia fu sensibile alla sincera confessione fatta da Valancourt; e quantunque la sua povertà rovesciasse le loro speranze, la franchezza della sua condotta le cagionò un piacere che superò momentaneamente tutti i suoi affanni. La Cheron continuò: «Egli ha altresì creduto bene di dirmi che non avrebbe ricevuto il suo congedo se non da voi, ciò ch'io negai positivamente. Conoscerà così esser sufficientissimo che non lo aggradisca io, e colgo questa occasione di ripeterlo: se voi concerterete con lui il menomo abboccamento a mia insaputa, preparatevi ad uscir di casa mia all'istante. --Come mi conoscete poco, se credete che sia, necessario un ordine simile!» La signora Cheron si mise alla toletta, essendo invitata per quella sera ad una conversazione. Emilia avrebbe voluto dispensarsi dall'accompagnarla, ma non ardì domandarlo pel timore d'una falsa interpretazione. Quando fu nella sua camera, diè libero sfogo al proprio dolore: si ricordò che Valancourt, sempre più amabile per lei, era bandito dalla sua presenza, e forse per sempre. Essa impiegò nel pianto quel tempo che la zia consacrava ad abbigliarsi. Quando si rividero a tavola, i suoi occhi tradivano le lacrime, e ne fu duramente rimproverata. Fece grandi sforzi per parer lieta, nè le riuscirono affatto infruttuosi. Andò colla zia dalla signora Clairval, vedova di certa età, e stabilita da poco tempo a Tolosa in una villa del marito. Ella aveva vissuto diversi anni a Parigi con molta eleganza: era naturalmente allegra, e dopo il suo arrivo a Tolosa, aveva date le più belle feste che vi fossero vedute. Tutto ciò eccitava non solo l'invidia, ma anche la frivola ambizione della signora Cheron, e non potendo gareggiare nel fasto e nella spesa, voleva almeno esser creduta l'intima amica della Clairval. A tal uopo, le usava le maggiori cortesie; e quando si trattava di essere invitata da lei, taceva qualunque altro impegno. Ne parlava da per tutto, e si dava grandi arie d'importanza, facendo credere che fossero amiche intrinseche. Il divertimento di quella sera consisteva in una festa da ballo ed una cena. Il ballo era d'un genere affatto nuovo. Si danzava a diversi gruppi in giardini estesissimi. I grandi e begli alberi sotto i quali si dava la festa, erano illuminati da infiniti lampioni disposti con tutta la varietà possibile. Le diverse fogge aumentavano l'incanto di quella scena. Mentre alcuni ballavano, altri, seduti sulle erbose zolle, parlavano con libertà, criticavano le acconciature, prendevano rinfreschi o cantavano ariette accompagnandosi colla chitarra. La galanteria degli uomini, le civetterie delle donne, la leggerezza e il brio delle danze, il liuto, il flauto, il cembalo, e l'aria campestre, che i boschi davano a tutta la scena, facevano di questa festa un modello piccantissimo dei piaceri e del gusto francese. Emilia considerava questo quadro ridente con una specie di diletto malinconico. Sarà facile comprendere la sua sorpresa allorchè, gettando a caso gli occhi su di una contraddanza, riconobbe l'amante che ballava con una bella e giovine signora, e sembrava aver per lei le più premurose attenzioni: si volse tosto volendo condurre altrove la zia, che discorreva con Cavignì senza avere veduto Valancourt. Un'improvvisa debolezza l'obbligò a sedere, e l'estremo pallore che comparve sul di lei volto, fece credere ai circostanti ch'ella fosse incomodata. La Cheron continuava a parlare con Cavignì, e il conte di Beauvillers, che si era occupato di Emilia, le fece alcune maligne osservazioni a proposito del ballo, alle quali ella rispose quasi con incoerenza, tanto l'idea di Valancourt la tormentava, tanto essa era inquieta di restare sì a lungo vicino a lui. Le osservazioni del conte sulla contraddanza l'obbligarono intanto a fissarvi gli occhi, che nello stesso momento s'incontrarono in quelli di Valancourt. Tremò e voltò via tosto gli sguardi, ma non senza aver distinta l'alterazione di lui nel vederla. Si sarebbe volentieri allontanata all'istante medesimo da quel luogo, se non avesse pensato che questa condotta gli avrebbe fatto conoscere troppo l'imperio ch'egli aveva sul di lei cuore. Si provò a continuare il discorso col conte, il quale le parlò della dama che ballava con Valancourt: il timore di lasciar travedere il vivo interesse ch'ella vi prendeva, l'avrebbe senza dubbio tradita, se gli sguardi del conte non si fossero fissati allora sulla coppia di cui parlava. «Quel giovine cavaliere,» diss'egli, «sembra un uomo compito in tutto, fuorchè nel ballo: la sua compagna è una delle bellezze di Tolosa, e sarà ricchissima. Voglio sperare che saprà fare una scelta migliore per la felicità della sua vita, di quel che non l'abbia fatto per la contraddanza; m'accorgo ch'egli imbroglia tutti gli altri. Mi sorprende però che quel giovane, col suo bel portamento, non abbia imparato a ballare.» Emilia, alla quale batteva forte il cuore ad ogni parola, volle troncare il discorso informandosi del nome di quella signora: prima che il conte potesse risponderle, la contraddanza finì; ed Emilia, vedendo che Valancourt si avanzava verso di lei, si alzò tosto, e andò accanto alla zia. «Ecco qua il cavaliere Valancourt, signora,» le disse sottovoce; «di grazia ritiriamoci.» La zia si alzò, ma il giovane le aveva raggiunte; egli salutò la signora Cheron con rispetto, e sua nipote con dolore. Siccome la presenza di quest'ultima gl'impediva di restare, passò oltre con un contegno, la cui tristezza rimproverava a Emilia di aver potuto risolversi ad aumentarlo: se ne stava essa pensierosa, allorchè il conte Beauvillers le tornò accanto. «Vi domando perdono, signorina,» le disse egli, «di un'inciviltà involontaria. Quando criticava così liberamente il cavaliere nel ballo, ignorava ch'ei fosse di vostra conoscenza.» Emilia arrossì e sorrise. La Cheron però gli rispose: «Se voi parlate del giovane passato poco fa, posso assicurarvi che non è, nè di mia conoscenza, nè di quella della signorina Sant'Aubert. --Gli è il cavaliere Valancourt,» disse Cavignì con indifferenza. --Lo conoscete voi?» riprese la signora Cheron. --Non ho con lui nessuna relazione,» rispose Cavignì. --Non sapete i motivi che ho di qualificarlo d'impertinente? Esso ha la presunzione di ammirare mia nipote. --Se, per meritare l'epiteto d'impertinente, basta ammirare madamigella Emilia,» soggiunse Cavignì, «temo che ve ne siano molti, ed io m'inscrivo nella lista. --Oh! signore,» disse la Cheron con sorriso forzato, «mi accorgo che imparaste l'arte dei complimenti dopo il vostro soggiorno in Francia; ma non bisogna adulare le fanciulle, perchè esse prendono l'adulazione per verità.» Cavignì girò un momento la testa, e disse con voce studiata: «A chi si possono dunque allora far complimenti, signora? Perchè sarebbe assurdo di rivolgersi ad una donna, il cui gusto è già formato: essa è superiore a qualunque elogio.» Terminando questa frase, egli guardava Emilia di soppiatto, e l'ironia brillava nei di lui occhi. Essa lo intese, ed arrossì per la zia; ma la Cheron rispose: «Voi avete perfettamente ragione, signore; una donna di gusto non può, nè deve soffrire un complimento. --Ho inteso dire al signor Montoni,» soggiunse Cavignì, «che una donna sola ne meritava. --Da vero,» esclamò la Cheron con un sorriso pieno di fiducia; «e chi sarà mai? --Oh!» replicò egli: «è facile conoscerla. Non vi è certo più di una donna al mondo che abbia insieme il merito d'inspirare la lode e lo spirito di ricusarla.» Ed i suoi occhi si voltavano ancora verso Emilia, la quale arrossiva sempre più per la zia. --Ma bravo signore,» disse la Cheron, «io protesto che voi siete Francese. Non ho mai udito uno straniero esprimersi con tanta galanteria. --È verissimo, signora,» rispose il conte cessando dalla sua parte mutola; «ma la galanteria dei complimenti sarebbe stata perduta, senza l'ingenuità che ne scuopre l'applicazione.» La Cheron non conobbe il senso satirico di questa frase, e non sentiva la pena che Emilia provava per lei. «Oh! ecco qua il signor Montoni in persona,» disse la zia; «voglio raccontargli tutte le belle cose che mi avete dette.» Ma l'Italiano passò in un altro viale. «Vi prego di dirmi che cosa può occupar tanto stasera il vostro amico? Non si è lasciato vedere neppur un momento, disse madama Cheron con aria dispettosa. --Egli ha,» disse Cavignì, «un affare particolare col marchese Larivière, che, da quanto vedo, l'ha occupato fino ad ora, perchè non avrebbe mancato al certo di venire ad offrirvi i suoi omaggi.» Da tutto quel che intese, Emilia credè accorgersi che Montoni corteggiava seriamente la zia, e che non solo essa lo aggradiva, ma si occupava con gelosia delle di lui menome negligenze. Che la signora Cheron, alla sua età, volesse scegliere un secondo sposo, sembrava partito ridicolo; pure, la di lei vanità non lo rendeva impossibile; ma che, col suo spirito, il suo volto e le sue pretese, Montoni potesse scegliere la zia, ecco ciò che sorprendeva Emilia. I suoi pensieri però non fissaronsi a lungo su questo oggetto; essa era tormentata da interessi più pressanti. Valancourt, rifiutato dalla zia, Valancourt aveva ballato con una bella giovine signora... Traversando il giardino, essa guardava da tutte le parti, sperando, e temendo di vederlo comparire nella folla. Nol vide, e la pena che ne risentì le fece conoscere aver ella più sperato che temuto. Montoni le raggiunse di lì a poco, e balbettò qualche parola sul dispiacere d'essere stato tanto tempo occupato altrove. La zia ricevè questa scusa coll'aria dispettosa d'una bambina, ed affettò di parlar soltanto a Cavignì, il quale, guardando Montoni ironicamente, parea volergli dire: «Io non abuserò del mio trionfo, e sosterrò la mia gloria con tutta umiltà.» La cena fu servita nei vari padiglioni del giardino ed in una gran sala del castello; la Cheron e la sua comitiva vi cenarono insieme alla signora Clairval, ed Emilia potè reprimere a stento l'emozione, quando vide Valancourt prender posto alla medesima tavola dov'era lei. La zia lo vide egualmente, e chiese al vicino: «Chi è quel giovine? --È il cavaliere Valancourt,» le fu risposto. --So anch'io il suo nome,» soggiuns'ella; «ma chi è mai cotesto cavaliere Valancourt che s'introduce a questa tavola?» L'attenzione della persona da lei interrogata fu distratta prima di ottenerne risposta. La tavola era lunghissima; Valancourt stava verso il mezzo colla sua compagna, ed Emilia, ch'era in un angolo della medesima, non l'aveva ancora veduta; ciò le diede motivo di fare mille riflessioni tutte egualmente per lei disgustose. Le osservazioni su tal proposito facevano il tema di una conversazione indifferente, e qualcuno si compiaceva d'indirizzarle alla signora Cheron, sempre intenta ad avvilire Valancourt. «Ammiro quella bella signora,» diss'ella, «ma condanno la sua scelta. --Oh! il cavaliere Valancourt è il giovine più amabile ch'io conosca,» rispose la signora alla quale era stato rivolto quel discorso; «si dice perfino che la signora Demery lo sposerà quanto prima, e gli porterà in dote le sue ricchezze. --Ciò è impossibile,» sclamò la Cheron, facendosi di fuoco; «egli ha sì poco l'aria d'un uomo di qualità, che se non lo vedessi alla tavola della signora Clairval, non mi sarei mai persuasa che potesse esser tale; d'altra parte, ho forti motivi per dubitare della voce che corre. --Ed io non posso dubitarne,» disse l'altra signora, alquanto piccata di quella contraddizione. --Posso io domandarvi,» disse la Clairval, «signore mie, quale è il soggetto della vostra quistione? --Vedete voi,» le disse la Cheron, «quel giovine quasi in mezzo alla tavola, e che parla colla signora Demery? Ebbene! quell'uomo, che non è conosciuto da alcuno, ha pretese presuntuose su mia nipote, e questa circostanza, almeno io lo temo, ha dato luogo a credere ch'egli si spacciasse per mio adoratore; considerate ora quanto una tal ciarla sia offensiva per me. --Ne convengo, mia buona amica,» rispose la Clairval, «e potete esser certa ch'io lo smentirò da per tutto.» E si voltò da un'altra parte. Cavignì, che fino a quel punto era stato freddo spettatore di quella scena, fu in procinto di rompere in una risata, e lasciò il posto bruscamente. «Vedo bene che voi ignorate,» disse alla Cheron la dama seduta accanto a lei, «che il giovine di cui parlaste alla signora Clairval è suo nipote!.... --È impossibile!» sclamò la Cheron, accorgendosi del suo grossolano sbaglio; e da quel momento cominciò a lodar Valancourt con altrettanta bassezza, quanta malignità aveva impiegata fino allora per denigrarlo. Emilia era stata assorta durante la massima parte del discorso, e fu così preservata dal dispiacere di udirlo; fu sorpresissima dunque nel sentire le lodi delle quali sua zia colmava Valancourt, ed ignorava ancora ch'egli fosse nipote della Clairval; epperò vide senza rammarico la zia, più imbarazzata di quello che volesse parere, cercar di ritirarsi subito dopo la cena. Montoni venne allora a darle la mano per condurla alla carrozza, e Cavignì, con ironica gravità, la seguì accompagnando Emilia. Nel salutarli e nel rialzar la portiera, essa vide l'amante tra la gente, alla porta. Egli sparve prima della partenza della vettura; la zia non disse nulla ad Emilia, ed elleno si separarono giugnendo a casa. La mattina seguente, essendo Emilia a colazione colla zia, le fu presentata una lettera, di cui, al solo indirizzo, riconobbe il carattere; la ricevè con mano tremante, e la zia domandò tosto donde venisse. Emilia la disigillò con suo permesso, e vedendo la firma di Valancourt, gliela consegnò senza leggerla. La Cheron la prese con impazienza, e mentre la leggeva, Emilia procurava d'indovinarne il contenuto nei di lei sguardi; gliela restituì quasi subito, e siccome gli sguardi della nipote domandavano se potesse leggere: «Sì, leggete, leggete, figliuola,» le disse con minor severità di quello che si aspettava. Emilia non aveva mai obbedito tanto volentieri. Valancourt nella sua lettera, parlava poco dell'abboccamento del dì prima; dichiarava che non avrebbe ricevuto congedo se non da lei sola, e la scongiurava di riceverlo quella sera medesima, mentre leggeva, stupiva che la Cheron mostrasse tanta moderazione, e, guardandola timidamente, le disse: «Che debbo rispondergli? --Eh! bisogna vederlo quel giovine, sì certo,» disse la zia; «bisogna vedere ciò che può dire a favor suo; fategli dire che venga.» Emilia osava credere appena a' propri orecchi. «No, no, restate, gli scriverò io stessa,» aggiunse la zia; e chiese carta e calamaio. Emilia non ardiva fidarsi ai dolci motti che l'animavano; la sorpresa sarebbe stata meno grande, se avesse inteso la sera innanzi ciò che la zia non avea scordato, cioè che Valancourt era nipote della signora Clairval. Ella non conobbe i segreti motivi della zia; ma il risultato fu una visita, la sera stessa, di Valancourt, che la Cheron ricevè sola nel suo gabinetto. Ebbero essi insieme un lungo colloquio prima che Emilia fosse chiamata: quando essa entrò, la zia parlava con dolcezza, e gli occhi del giovane, il quale alzossi prontamente, scintillavano di gioia e di speranza. «Noi parlavamo di affari,» disse la zia; «mi diceva qui il cavaliere, che il fu signor Clairval era fratello della contessa Duverney, sua madre: avrei voluto ch'egli mi avesse parlato più presto della sua parentela colla signora Clairval; l'avrei riguardato come un motivo più che sufficiente per riceverlo in casa mia.» Valancourt s'inchinò, e voleva presentarsi ad Emilia, ma la Cheron lo prevenne. «Ho acconsentito che voi riceviate le sue visite, e sebbene non intenda impegnarmi in alcuna promessa, nè dire che lo considererò come mio nipote, permetterò la vostra relazione e riguarderò l'unione ch'egli desidera, come un fatto che potrà aver luogo fra qualche anno, se il cavaliere avanzerà di grado, e se le sue circostanze gli permetteranno di ammogliarsi; ma il signor Valancourt osserverà, e voi pure, Emilia, che, fino a quel punto, v'interdico positivamente qualunque idea di matrimonio.» La figura d'Emilia, durante questa brusca aringa, cambiava ad ogni momento; e, verso la fine, la sua confusione fu tale, che stava per ritirarsi. Valancourt, intanto, quasi imbarazzato quanto lei, non osava guardarla. Allorchè la zia ebbe finito, egli le rispose: «Per quanto lusinghiera possa essere per me la vostra approvazione, per quanto mi trovi onorato dalla vostra stima, nulladimeno temo tanto, che oso appena sperare. --Spiegatevi,» disse la Cheron. L'inattesa risposta turbò talmente il giovine, che se fosse stato spettatore di quella scena, non avrebbe potuto far a meno di ridere. «Fino a che la signora Emilia non mi permetta di profittare delle vostre bontà,» diss'egli con voce sommessa, «fintantochè ella non mi permetta di sperare... --Se non c'è altra difficoltà, m'incarico io di risponder per lei. Sappiate, signore, ch'essa è sotto la mia custodia, ed io pretendo ch'ell'abbia ad uniformarsi in tutto alla mia volontà.» Sì dicendo, si alzò, e ritirossi nella sua camera lasciando Emilia e Valancourt in pari imbarazzo: finalmente il giovine, la cui speranza era maggiore del timore, le parlò colla vivacità e franchezza a lui naturali: ma Emilia non si rimise se non dopo qualche tempo prima di intendere le domande e le preghiere sue. La condotta della signora Cheron era stata diretta dalla sua vanità personale. Valancourt, nel suo primo abboccamento con lei, le aveva ingenuamente confessata la sua posizione attuale, e le sue speranze per l'avvenire; e con maggior prudenza che umanità, aveva severamente ed assolutamente respinta la sua domanda: desiderava che la nipote facesse un gran matrimonio, non già perchè le augurasse la felicità che si suppone unita al grado ed alla opulenza, ma per voler dividere l'importanza che un illustre parentado potea darle. Quando seppe che Valancourt era nipote d'una persona come madama Clairval, desiderò un'unione il cui splendore per certo avrebbela avvolta nella sua aureola. Fondando le sue speranze sulla ricchezza della Clairval, obliava ch'essa aveva una figlia. Valancourt però non l'aveva dimenticato, e contava sì poco sopra l'eredità della propria zia, che non aveva neppure parlato di lei nel suo primo colloquio colla Cheron; ma comunque potesse esser per l'avvenire la fortuna d'Emilia, la distinzione che le procurava questo parentado era certa, giacchè la brillante situazione della Clairval formava l'invidia di tutti, ed era un oggetto d'emulazione per quelli che potevano sostenerne la concorrenza. Essa aveva dunque acconsentito di abbandonar la nipote all'incertezza d'un impegno la cui conclusione era dubbiosa e lontana; e di tal modo poco combinata la sua felicità o col consenso, o coll'opposizione: avrebbe però potuto render questo matrimonio sicuro e vantaggioso insieme, ma una tal generosità non entrava allora per nulla nei suoi progetti. Da quel punto, Valancourt fece frequenti visite alla signora Cheron, ed Emilia passò nella sua società i più felici momenti dei quali avesse goduto dopo la morte del padre. Erano ambidue troppo dolcemente occupati del presente, per interessarsi molto del futuro: amavano, erano riamati, e non sospettavano che quell'istesso attaccamento, il quale formava la loro felicità, potesse cagionare un giorno la disgrazia della loro vita. In questo intervallo, la relazione della Cheron colla Clairval divenne sempre più intima, e la vanità della prima si pasceva di già bastantemente, pubblicando da per tutto la passione del nipote della sua amica per Emilia. Montoni divenne anch'egli l'ospite giornaliero del castello, ed Emilia si accorse, col massimo dispiacere, ch'egli era l'amante di sua zia, e amante favorito. I nostri due giovani passarono così l'inverno, non solo nella pace, ma anche nella felicità. Il reggimento di Valancourt era in guarnigione vicino a Tolosa, per cui potevano vedersi di frequente. Il padiglione del terrazzo era il teatro favorito delle loro conferenze; la zia ed Emilia vi andavano a lavorare, e Valancourt leggeva loro opere di spirito. Egli osservava l'entusiasmo d'Emilia, esprimeva il suo, e si convinceva infine, ogni giorno più, che le loro anime erano fatte l'una per l'altra, e che con il medesimo gusto, la medesima bontà e nobiltà di sentimenti, essi soli reciprocamente potevano rendersi felici. FINE DEL PRIMO VOLUME 1875. Milano, Tip. Ditta Wilmant. NOTA DEL TRASCRITTORE Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annnotazione minimi errori tipografici. In particolare, l'uso di trattini e virgolette per introdurre il discorso diretto, molto irregolare e incoerente, è stato per quanto possibile regolarizzato. I seguenti refusi sono stati corretti [tra parentesi il testo originale]: P. 5 - ora lasciando scorgere bizzarre [bizzare] forme, si mostravano " 10 - senso per preferire le attrattive [attrattative] alla virtù " 11 - gli oggetti che la colpivano, dava soprattutto [soprattuto] " 14 - l'entusiasmo [l'entusiamo] del sentimento le diveniva " 16 - trovò difatti i coniugi [cuniugi] Quesnel nel salotto. " 19 - ma l'ira fe' presto luogo al disprezzo [disprezeo]. " 26 - è passato, e quando lo si prolunga all'eccesso [acesso], " 36 - grandiose, internaronsi nell'angusta valle [vallea]. " 39 - altrove mi vergognerei [vergogneri] di offrirvelo. " 42 - della più soave fragranza [fraganza]. " 54 - non sapeva pensare a sè medesima, e Valancourt [Valancorut], " 62 - superficie [superfice] scorrevano molte vele sparse, " 67 - d'un tal Motteville [Monteville] di Parigi, ma ignoravi che la " 68 - scuopriva il lago di Leucate, il Mediterraneo [Meditarraneo] " 73 - La carrozza [carozza] si fermò di nuovo; egli " 76 - si adagiò sopra una specie [spece] di poltrona. " 84 - alla finestra, sperando e temendo [tememdo] nel tempo istesso " 85 e altre - Sant'Aubert [Sant'Auber] " 93 - lenivano alquanto la di lei disperazione [dispezione]. " 96 - a lasciarla [lascirla] partire. Ella uscì dal convento " 98 - perchè siete superstizioso [saperstizioso], n'è vero? " 100 - fu deposto [doposto] nella tomba, quando udì gettar la terra " 100 - avea provato scosse troppo violente [violenti] " 103 - alla perfine [perfino] lasciò il convento colle lacrime " 106 - La fanciulla rimase [rimasa] alcun tempo immersa in alta " 114 - sebbene abbia avuto la fortuna [fotuna] d'incontrarvi " 115 - poi, rimettendosi [rimettandosi], soggiunse: «Perdonate questa " 121 - rapivano in dolce estasi l'anima sua e la portavano [porvano] " 122 - il timore altresì [altresi] delle censure della zia " 129 - di aver conosciuto [conasciuto] Valancourt, " 130 - No, signora, io non lo conosco [conoscono], " 138 - essa è superiore [superiora] a qualunque elogio. " 141 - conosciuto da alcuno, ha pretese presuntuose [prosuntuose] Grafie alternative mantenute: colta / côlta sopratutto / soprattutto --- Provided by LoyalBooks.com ---