BIBLIOTECA DI CULTURA MODERNA ENRICO TREITSCHKE LA FRANCIA DAL PRIMO IMPERO AL 1871 TRADUZIONE DI ENRICO RUTA VOLUME I BARI GIUS. LATERZA & FIGLI TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI 1917 LA FRANCIA DAL PRIMO IMPERO AL 1871 I. ENRICO VON TREITSCHKE LA FRANCIA DAL PRIMO IMPERO AL 1871 TRADUZIONE DI ENRICO RUTA VOLUME I BARI GIUS. LATERZA & FIGLI TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI 1917 PROPRIETÀ LETTERARIA OTTOBRE MCMXVI--45247 _Questa traduzione di un'opera straniera tanto notevole, e tanto utile alla conoscenza della storia del nostro paese, è dedicata da me, come amico e come italiano, a_ GIUSTINO FORTUNATO _come amico, pel bene indicibile che da Lui è venuto allo studioso e al lavoratore; come italiano, perché in quarant'anni di vita pubblica Egli ha dimostrato che un uomo politico possa non confondere mai, nemmeno in buona fede, la sincerità col tornaconto e l'onestà dell'azione con la vanità personale o con l'ambizione egoistica, e possa non sacrificare mai la verità; e, scrittore umanista e artista, oratore di cose e fatti, fugatore dei vecchi miti di terre edeniche meridionali, apostolo di giuste e doverose rivendicazioni, zelatore di cultura e di elevazione, ha meritato la venerazione di affetto che nasce spontaneamente pei savi e gli educatori, i quali hanno l'ingegno alto e potente, e moralmente augusto, tutto fondato sul cuore gentile e dolce di poeti; e nulla sanno concepire nell'esistenza fuori dei pensieri e delle opere ispirati dall'amore dei propri concittadini e dalla passione ardente alla sacra realtà della Patria._ ENRICO RUTA. PREFAZIONE ALLA TRADUZIONE La traduzione di qualcuno dei lavori più significativi del Treitschke tanto più urgeva, in quanto che pochi scrittori hanno aperto, come lui, un più vasto campo alla discussione, e pochi sono, come lui, andati incontro alla ventura dei giudizi avventati, rispondenti alle passioni, non alla valutazione serena, condotta sulla conoscenza diretta. La rettitudine della cultura esige che sia eliminata la possibilità di quelle impressioni passionate, che poi si consolidano e perpetuano come storture inveterate del pensiero e della scienza; anche oggi che da tanto tempo Darwin, per dirne una, è stato tradotto quasi tutto in italiano, non sentiamo tuttora spacciarlo da taluni per l'autore della teoria della derivazione dell'uomo dalla scimmia? E perché mai gl'italiani dovrebbero rassegnarsi a tollerare, che in casa loro si ripetano banalità e spropositi per sentita dire? Se si eccettua la bella monografia sul Cavour, tradotta dal Guerrieri Gonzaga e pubblicata dal Barbèra nel 1873, i volumi di Enrico von Treitschke non sono apparsi finora né in italiano, né in francese, né in inglese; e il volumetto di conferenze dell'inglese professore J. A. Cramb, pubblicato ultimamente in italiano (Torino, Lattes, Ed.), non mi pare il più adatto a dare un'idea precisa del pensiero dello scrittore tedesco, tanto, attraverso le critiche filosofiche e le riserve nazionali del conferenziere inglese, è riboccante di ammirazione per l'uomo più rappresentativo della Germania contemporanea. Il consenso o la riprovazione devono sorgere spontanei dalla lettura diretta e dalla meditazione dell'opera, se non si vuole che svaporino in parole senza senso e senza costrutto; e invece, quando nascono per moto intimo di coscienza in tutto illuminata e consapevole, la lode o il biasimo non vengono invano; ché essi sono i compagni naturali della condotta di azione opportuna o inopportuna. D'altronde, se è riprovevole leggerezza il parlare, senza sicura notizia, di fatti accettati per veri sull'impressione del momento o sulla fede altrui, tanto più è colpa il discorrere frivolamente, profferendo l'osanna o il crucifige, degli scrittori che rispondono storicamente non al proprio arbitrio, ma alle esigenze di un'età, e che scrutano e cavano dagli eventi umani la significazione eterna, il carattere essenziale, in virtù del quale quei dati eventi costituiscono gli elementi integranti dei tempi nostri e ce ne permettono l'intendimento. I veri scrittori, i pochissimi superstiti dell'universale sommersione dei dilettanti e vacui professionisti di scritture, sono per l'uman genere, evo per evo, le voci del destino; le loro opere sono le chiavi che aprono il Sancta sanctorum della storia. I cinque saggi raccolti nei presenti due volumi furono composti interpolatamente, il primo a Friburgo nel 1865, l'ultimo a Heidelberg nel 1871; e sotto il titolo complessivo _Frankreichs Staatsleben und der Bonapartismus_ furono pubblicati nel 1871 a Lipsia da S. Hirzel nel terzo volume degli _Historische und politische Aufsätze_. È quello, dunque, il testo che devono compulsare gli studiosi competenti, i quali volessero collazionare la traduzione con l'originale pei possibili errori in cui, non ostante la scrupolosa diligenza, fossi incespicato: cosa utilissima per qualche nuova edizione, che probabilmente non mancherà. Treitschke non è un autore facile: conosce tutta la sua lingua come un letterato di mestiere, e sa giovarsene nei modi più impensati e repentini come un artista; né è facilissimo pel traduttore rendere in un'altra lingua, anche nel caso che siano stati intuiti e capiti, tutti gl'inesprimibili atteggiamenti dell'arte, e tutti gli stati d'anima durevoli o fuggevoli e nostalgici o baldanzosi, la mestizia e l'allegrezza, l'accoramento e l'ebbrezza, il sarcasmo o il monito, l'ironia o la pietà, la canzonatura o la compassione, che sono connaturali di un'anima nobile, profondamente morale e del pari colta e sapiente, davanti a quel grandioso stato d'anima che è la visione storica. Se poi cotesta visione risponda effettivamente alla realtà, oppure se sia errata dalle fondamenta, giudicheranno i lettori secondo la persuasione onesta che si faranno. È sorte degli uomini rappresentativi, insita nella loro stessa azione, il non incontrare un giudizio eguale: Maometto, Machiavelli, Lutero, Sant'Ignazio ribellano, per varie ragioni, mille e mille cuori probi, che lealmente li credono pervertitori. Quasi tutti i nostri grandi del Rinascimento, alti animi che espiarono col carcere e col pugnale e col rogo l'indipendenza della mente, odiarono come un anticristo della scienza il massimo pensatore che ha avuto la famiglia umana. Un solo è il fatto sul quale il giudizio non può discordare; ed è, che, non ostante la forma esteriore di saggi, questo è un lavoro organico, costituente una vera e propria storia, perché una è l'idea fondamentale che si sviluppa e si fissa nella concretezza dell'opera. Che cosa è un'opera dell'ingegno, se non l'espressione concreta di un'idea? Vera e propria storia: la storia della Francia contemporanea giudicata dalla Germania. E se non basta conoscere esteriormente l'amico e il nemico sul flusso dell'ora, ma, per le note ragioni spiegate da Machiavelli, è necessario leggere loro nella _mens_, penetrarli nella coscienza, può all'uopo giovarci davvero proprio questo, che è per l'appunto il libro dell'amico e del nemico. Siamo nel fervore della battaglia delle armi e della politica e della diplomazia; e le battaglie non le vince l'impotente, che stordisce con gli atteggiamenti enfatici e coi tuoni e saette della rettorica la nullaggine dell'animo vuoto della comprensione del fine preciso da raggiungere, né il febbricitante infrenesito alla vicenda di solletico e di aombramento dei peli e travi degli odi smisurati e degli smisurati amori. Le vince la testa calma e austera, la quale dal senso della realtà apprende istante per istante che operare è provare, è errare, e che dagli errori propri e altrui ha sempre la mano pronta a spremere il profitto, come se fossero stratagemmi a decezione del nemico. Le vincono gl'imperturbabili nel turbine, i buoni cittadini, che sentono la responsabilità dell'ora e serbano anche in mezzo al gorgo degli eventi quel tranquillo e meditativo rifugio del senso storico, dove nasce, come da un osservatorio infallibile, il giudizio pacato e imparziale sulle cose e le azioni tanto degli amici che dei nemici. E con questo la traccia della via che arriva. L'ora corrente passa sulla nostra nazione, madre della civiltà antica, nel momento che, dopo essersi estenuata nel lungo puerperio della civiltà nuova generata all'Europa, era da poco risorta giovinetta, nuova affatto del mondo moderno, fresca nata della civiltà europea, figlia di sua figlia. E moveva i primi passi nella vita mondiale tra gli errori che la generosità accumula sulla giovinezza, tra le esaltazioni e le disperazioni degli anni giovanili tanto duri per ciò a passare, tra le inesperienze che più sono pericolose quando maggiore è l'innata bontà, tra le illusioni dietro le cui rose è l'aspide, tra le calamità di natura che è dato più ristorare alacremente che accortamente prevenire, tra i mali atavici alla cui radice di secoli non arrivano i decenni. Ma volonterosa e laboriosa, fervida del suo fervore antico, geniale della sua antica e inesausta genialità, aveva già in pochi anni acquistato nell'incivilimento oltremarino un merito enorme che, come avviene sovente delle opere sostanzialmente utili e veramente grandi, era passato quasi ignoto, coperto dal romore dei nuovi commerci e delle nuove industrie, che pure nulla potrebbero senza il bene fondamentale della coltura delle terre. L'Italia, rinata appena, aveva già dissodato mezzo continente nuovo, con lo stesso vigore di animo e di braccia di quei legionari antichi, di cui immemore e stupita sentiva sonare tuttora i nomi sulle strade consolari dei vecchi continenti. Le nazioni, amiche e nemiche, illuminate e guidate dalla Rinascita, abbeverate alla fontana corrente del genio italiano, devono a noi la parte migliore di sé stesse; e noi dobbiamo a loro la nostra esistenza politica, nel bene e nel male: nel bene, per l'aiuto che ci porsero, nel male, per l'insegnamento del dolore che ce ne venne. La nostra esistenza piena, ardente, libera di tutta la libertà del genio dell'arte e della scienza, è necessaria alla civiltà del mondo: nessuna giovinezza politica è stata mai così aggravata di responsabilità e di doveri come la nostra; ed è questa la situazione della nostra patria tra gli amici e i nemici, ora che sul vecchio continente si viene effettuando nella realtà il mito antico del giudizio universale. Ne sia vicino di mesi l'esito estremo, oppure lontano di decenni, questo giudizio universale delle nazioni implica sulla mitica terra di approdo del toro iniziatore il cominciamento di una nuova era. È perciò un pregiudizio il credere che la semenza sia legata unicamente alla sorte delle armi, e che significhi, di qua o di là, la compressione completa di una delle parti in contesa. Questo non è il duello di due popoli e di due stirpi che possa finire con uno schiantamento, come quello romano-punico o l'altro ispano-arabo, né un duello religioso come il giudizio di Dio ugonotto-cattolico. È una conflagrazione di popoli il cui punto faticante cade sull'incontro dei due rami principali della stessa stirpe germanica, l'inglese e il tedesco; e la sorte delle armi può coincidere con la sentenza solo perché può arridere ai più degni della vittoria, cioè ai più virtuosi e benemeriti come popolo e, insieme, dimostratisi i meglio dotati per collaborare all'incivilimento mondiale. La forza bruta è una delle tante parole vuote, abusate irriflessivamente all'ombra fuggevole dei sentimenti passionati; non esiste fuori dell'astrazione matematica. Il mondo animale procede conforme al pensiero connaturato al mondo animale: tanto meno sono meccanismi i popoli, i quali tutti, dai più statici e selvaggi ai più avanzati, sono cooperatori dell'opera universale che si va senza principio e senza fine compiendo ininterrottamente sulla faccia della Terra, l'opera sempre più perfetta e sempre più perfettibile di realizzazione della mente umana. Perché mai la sorte delle armi fu tante volte e tanto arcigna agli ebrei, eppure i babilonesi e gli assiri dileguarono affatto, lasciando dietro di sé giogaie di asfalto, tombe immani di una civiltà sepolta che solo da un secolo il nostro pensiero ha sentito il bisogno di scoperchiare, e gli ebrei invece sono concittadini di tutti gli stati esistenti? Perché i poveri fellahs del Nilo, i cui antenati furono sommersi dalle armi di tanti invasori quante il fiume non ha cateratte, serbano tuttora i costumi agricoli dei villici della regina Hatschepsut? Perché gli adoratori del fuoco non furono affogati interamente dalle alluvioni uralo-altaiche, e celebrano ancora i benefizi dell'amabile Ahura e della salutare Anahita tra le valli interne dell'Indukush? E ieri, perché ieri, qui vicino a noi, dopo la rotta tremenda di Sédan non scemò punto in Europa il _prestige de la France_, anzi crebbe ai vinti, con meraviglia indicibile dei vincitori, la simpatia delle nazioni? Solo il Daniele del mito, ricordandosi degli anni ancor non nati, avrebbe facoltà di dirci fin da ora se, come nel corso dei secoli è avvenuto di regola, anche questa volta collimerà con la fortuna delle battaglie o sarà determinata da quella fortuna la sentenza del giudizio universale, che dichiarerà quali sono i migliori, e li presceglierà a dirigere le sorti del novello incivilimento. Ma per esperienza millenaria noi sappiamo quali sono i popoli che alla prova si riveleranno i predestinati. Sono quelli in cui è maggiore il numero dei cittadini, che in ogni ordinaria contingenza della vita quotidiana sono abituati a riconoscere il proprio animo nell'idea, che come al loro comportamento di ogni giorno sono sospesi l'onore e la sorte delle loro famiglie, così dalla loro virtù dipendono la riputazione e la fortuna del proprio paese. Sono quelli in cui è maggiore il numero degli uomini dabbene, i quali, come si sono prefissi per la propria famiglia un ideale onorato al cui raggiungimento lavorano con assiduità calma ed instancabile, così hanno costantemente innanzi agli occhi l'ideale di tutti, che la patria va realizzando con la mente e con l'opera dei suoi figli. Sono predestinate le nazioni profondamente e veracemente morali, che sentono ingenuamente il sentimento della patria nel sentimento intatto e schietto della famiglia; e che in questa coscienza semplice e naturale, in questa intimità della propria realtà vivente sentono la missione morale, la missione essenzialmente incivilitrice a cui le chiama nel mondo l'energia inarrestabile della vocazione. Perciò esse contemplano e vagheggiano davanti a sé la meta della propria missione come un quadro di felicità domestica, come una visione d'incantamento; perché la vestono di tutta la maestà e di tutti i colori e i fulgori di cui è capace il genio della stirpe, di cui è capace lo zelo di milioni e milioni di anime consenzienti in una speranza e in una fede. E perciò le grandi nazioni di avvenire sono le patrie delle grandi utopie, le quali, entro i termini dell'umano possibile, vengono a realizzarsi nella situazione storica secondo l'insito processo della realizzazione continua e irresistibile dell'ideale. Il popolo italiano è un popolo sostanzialmente morale. Tutto in noi, in casa e fuori, dalle Alpi e le Madonie alle lontane fazende, parla del sentimento semplice e intatto della famiglia, del culto tenace della terra natia; e, insieme, dai mari, dai monti, dalle città, dalle campagne, da ogni rivo e da ogni zolla italiana tutto parla di una missione che, sebbene sorti da così poco tempo alla vita politica mondiale, pure abbiamo già intrapresa e abbiamo il dovere di condurre a compimento. E se è concorporata con le radici stesse della nostra nazionalità, se davanti all'èra nuova che si annunzia alle genti costituisce la nostra ragion d'essere di nazione, essa si affermerà e varrà tra amici e nemici come un decreto del destino; si effettuerà in virtù del suo stesso valore intrinseco, come un'opera della mente arrivata a maturazione, come l'opera del genio che né fiamma, né mannaia, né ostilità alcuna di uomini o di natura può contrastare. La conflagrazione dei popoli europei dimostra che è sempre l'Europa il centro della civiltà mondiale, e che l'Europa non può avviarsi con risolutezza e certezza a un più esteso incivilimento, all'umanizzazione dei continenti antichi e nuovi, se non attraverso una revisione di sangue, una tragica epurazione di stirpi, che assegnerà alle più scadenti e infeconde il cómpito di rifarsi, alle più gagliarde e feconde l'espansione del lavoro e dei beni morali. Poche opere straniere, come questa di Treitschke, concorrono ad avvalorare la fiducia in noi stessi e la nostra fede. La passione, sia di odio che di amore, è la più penetrante scrutatrice di anime. Egli, morto nel 1896, ha amato intensamente l'Italia; e ne conobbe la storia politica, artistica, scientifica, letteraria, e tutta la vita regionale e nazionale, dai più antichi tempi di Roma ai giorni nostri: e ci comprese, con l'intuito dell'affetto. In un altro lavoro, parlando della vera immortalità, che il genere umano concede soltanto ai fondatori di religioni e agli eroi guerrieri, afferma che la storia universale conosce solo due uomini di stato, che hanno raggiunto la vetta più alta della gloria senza portare la spada: e l'uno dei due è Cavour. E noi, per la parte nostra, assentiamo; e soggiungiamo, che oggi è il popolo nuovo, il popolo di Cavour, quello che ha preso la spada, e che col sangue e le lacrime si guadagna il destino di assicurare la patria dai nemici per diffondere, dalla propria casa ben custodita, i benefizi del suo lavoro e del suo genio in ogni angolo del mondo. Napoli, ottobre 1916. E. R. PARTE PRIMA IL PRIMO IMPERO Il Primo Impero. [Scritto a Friburgo nel 1865.] I. Fra i tanti pericoli che insidiano lo storico, il maggiore è forse la tentazione di erigere altari al genio. Per converso, l'obbligo di rintracciare le linee del disegno divino in mezzo al disordine umano, non tarda a cambiarsi anche pel più animoso in una spossante fatica. Ma quando dallo spettacolo persistente e monotono di volontà malcerta e di azione incompleta, che ci è offerto dalla maggior parte delle pagine della storia, si stacca alla fine e ci viene incontro uno di quei potenti del Signore, che sembrano portare nel petto la legge della vita universale, allora si risolleva in giubilo l'anima di artista che sonnecchia nella coscienza di ogni vero uomo. Solo le menti ben solide, quando si trovano davanti allo splendore sparso dalle immagini degli eroi, non dimenticano punto di porsi il quesito decisivo, se cotesta forza originale che ci prende di ammirazione fu impiegata fedelmente in servigio di quello spirito della storia, che anche i padri dell'uman genere poterono secondare solo per virtù di ubbidienza devota. Il culto cieco degli eroi diventa un morbo molto diffuso precisamente in quei tempi, che sentono con orgoglio sulle proprie spalle il peso loro affidato di un enorme cómpito di civiltà, ma che con intima angoscia pure riconoscono, che la loro forza è appena adulta al fardello. Così si spiega il perché ai giorni nostri è potuta nascere e allignare la teoria dell'_hero-worship_ di Tommaso Carlyle. Solo che la smania di genuflettersi davanti agli dèi di carne e d'ossa porta agli uomini ben poco giovamento; e di ciò noi ci rendiamo subito conto, ogniqualvolta una testa fina tira le conseguenze pratiche dalle premesse del culto degli eroi, vale a dire ogniqualvolta il dispotismo cela il suo nudo aspetto dietro il nome di un genio. Da quando assunse la corona imperiale, Napoleone III solo di rado e con qualche parola cascatagli inavvertentemente ha tradito l'imperiosa coscienza cesarea che nasconde sotto il manto del silenzio. Così avvenne nel colloquio di Plombières, quando disse a Cavour: «In Europa vivono solamente tre uomini: noi due, e un terzo che non nomino». E il giorno che la vanità letteraria lo tirò poi fuori dalla ritenutezza che si addice alle teste coronate, egli ai tanti enimmi offerti ai suoi contemporanei, ne aggiunse uno nuovo, il più grande. Professò francamente la dottrina degli esseri privilegiati che, elevati di molto sopra le regole comuni della legge morale, s'innalzano come fari nella notte dei tempi e col sigillo del proprio genio marcano un'epoca nuova. Ognuno lesse tra le righe che lo stesso imperatore derivava il diritto della propria missione dalla discendenza degli antenati più illustri, che a un uomo sia dato scegliere a modello: da Cesare, Carlo Magno, Napoleone. Noi riudimmo stupefatti dalla bocca dell'imperatore tutte le vecchie e sdrucite frasi reboanti del bonapartismo, quante era lecito perdonarne, in altri tempi, a un pretendente: l'Europa spergiura ha crocifisso, empia ed accecata, il suo Messia, ma l'opera del salvatore, l'impero, è risorto! E coteste parole di ambigua esaltazione sonavano nella prefazione di un'infelice opera storica, la cui incontestabile debolezza minacciava quasi di travolgere la fama letteraria, molto procacciata, dell'autore. Erano scritte per esaltare un sistema politico, che certamente risponde ad alcune nobili e a molte pericolose inclinazioni dei francesi, ma che deve tuttora provare la sua vitalità e resistenza. Avrebbe fatto meraviglia, se un tal peana di vittoria prima della vittoria non avesse trovato un'eco di odio nel dileggio dei milioni e milioni di umili trattati con sprezzo. Quando l'imperatore stesso colloca il proprio trono accanto al sole e la turba venale dei servi celebra l'apoteosi del cesare, allora (tale è l'andazzo del mondo) non può mancare un Seneca, che con spirito mordente canta l'_incucurbitatio_ di Claudio. Come è naturale, i motteggi più acuti erano quelli dei partiti estremi, che non perdonavano all'imperatore le sue virtù. Più di tutti i radicali, che odiavano lo statista il quale aveva smascherato la menzogna della repubblica sola salvatrice, e aveva dimostrato a tutto il mondo lo spirito liberticida del suffragio universale. Né meno astiosi erano gli antichi amici dell'imperatore, quelli in bruna cocolla. Era ben passato il bel tempo, quando il campo ultramontano solennizzava il redentore della società e teneva il maresciallo di Saint-Arnaud come l'uomo di Dio. Da quando l'imperatore si era rivoltato così grossolanamente al santo Padre e all'Austria tre volte santa, scaturivano dalle pie labbra le maledizioni contro il macellaio del due dicembre, e la _Storia di Giulio Cesare_ era dipinta come una scuola del tradimento. Anche i collezionisti di allusioni avevano buon gioco. Gli uni trovavano in Achille Fould il Cornelio Balbo del nuovo Cesare, gli altri nel duca di Morny l'Agrippa del moderno Augusto; e l'imperatore poteva appena lagnarsi, se non sempre i paralleli cadevano a suo favore. L'accorto artista aveva aperto forse impensatamente le porte del suo tempio magico: si capisce, che al vivo lume del giorno parecchie cortine, parecchi pezzi decorativi mostravano il marcio e lo spacco, laddove invece, allo splendore ben distribuito delle lampade, tutto pareva magnificenza. Per colmo di disgrazia, l'opera storica dell'imperatore era venuta fuori in un momento, in cui in Germania si lavorava a spargere nelle strade il puro oro dell'indignazione morale. Notoriamente il libro sovrabbonda di osservazioni in parte di dubbia verità, ma generalmente di antichità indubbia. A queste si appiglia l'ardore dello spirito partigiano, che si batte il petto villoso domandando solennemente: come mai l'uomo del colpo di stato può affermare, che il sangue versato costituisce una barriera tra i figli di una stessa patria? Ma tutto ciò sarebbe assai edificante, se non fosse così ridicolo. L'uomo che parla tanto untuosamente della maledizione gettata dal sangue cittadino e della febbre denigratrice propria dei partiti vittoriosi, sa anche e confessa, che il costruttore deve costruire col materiale che gli viene alle mani. Un uomo di stato, che è anche un autore, non si vince così facilmente coi raffacci a buon mercato d'ipocrisia e d'inconseguenza. Solo che ogni sistema politico della Francia moderna si credeva di essere, sul momento, il più sicuro, perché i suoi giorni erano già contati. Quando le aquile di Napoleone che ritornava volavano di campanile in campanile, Talleyrand a Vienna assicurò: «Milioni di pugni si alzeranno contro il disturbatore della quiete pubblica». Carlo X attese con ferma fiducia l'esito delle ordinanze di luglio; e poco prima del febbraio 1848, sotto l'impressione del colloquio col Guizot, il generale Radowitz scrisse, che la monarchia di luglio non era mai stata così salda. Forse che cotesta dura esperienza, il cui ritorno regolare sembra dipendere da un male organico dello stato francese, è oggi per ripetersi? Forse che il secondo impero è già alla vigilia della sua caduta, mentre celebra il suo più alto trionfo e scrive sulla sua bandiera il nome più grande negli annali della monarchia? Noi lasciamo ad altri il cómpito di sollevare il velo del futuro, e ci contentiamo di meditare questi quesiti: «Il bonapartismo è fondato sul carattere e sulla storia del popolo francese? Costituisce la conclusione definitiva di dieci rivoluzioni? E qual diritto hanno questi Bonaparte di pavoneggiarsi con la gloria del sublime dominatore, il quale ancora una volta confermò la terribile frase di Aristotele: solo un dio può essere re?». Riescirà forse gradito ai nostri lettori seguire il corso di questi pensieri. Ci occorse già di difendere l'eretica opinione, che la nazione tedesca non dovesse permettere a un milione di tedeschi e danesi di decidere, giusta i dettami della sovranità, sopra questioni che concernono il bene della intera patria; e parimente l'affermazione anche più eretica, che non si promove l'unità della Germania, se a tanti re per grazia di Napoleone si aggiunga pure un duca per grazia di Francesco Giuseppe. Perciò abbiamo combattuto il particolarismo liberale e il liberaleggiante come i partiti più deleteri per la Germania, e abbiamo anelato l'annientamento delle signorie multiple per mezzo della monarchia. Per conseguenza, in forza di quella mirabile logica che si affretta a fiorire nei tempi di umori terroristici, è sorto tenace contro di noi il rimprovero, che noi occhieggiamo col cesarismo. Vediamo, dunque, se l'accusa regge. La più vuota delle frasi tenta oggi di avvelenare nell'animo del tedesco la gioia ispiratagli dalla monarchia nazionale e legittima, che si viene formando in un sicuro avvenire nel nostro settentrione. Guardiamo bene in faccia cotesto terribile spettro del cesarismo, per accertarci se è fatto del nostro sangue. È dispersa alla fine la nuvolaglia di rettorica pomposa, che coprì troppo in lungo e in largo gli avvenimenti del 18 brumaio. Adesso sappiamo, che l'avventura di quel giorno fu un colpo di stato preparato malamente, condotto senza abilità e senza sicurezza di mano, e con una profusione iniqua di brutalità e di menzogne. E che, ciò non ostante, sia riuscito, è questa la più sicura riprova della sua necessità e grandezza storica. Quando Bonaparte di ritorno dall'Egitto toccò il suolo di Francia, lo salutò il giubilo delle moltitudini, che aspettavano dall'eroe la difesa contro l'invasione degli eserciti stranieri; e non meno sincero di quella gioia fu il voto plebiscitario, che confermò il nuovo dominio dell'usurpatore. Niente è più infondato di quel motto di Lamartine, ripetuto poi con insistenza dalla democrazia, che il primo console abbia interrotto il corso della rivoluzione proprio nel momento in cui questa cessava di essere convulsa e principiava a diventare feconda. Era anzi palmare, che un decennio di febbre aveva essiccato la potenza creativa politica della nazione. Lo stesso desiderio di una monarchia costituzionale ben ordinata, quale era nutrito dalla più parte dei ben pensanti, cedeva davanti alla voglia onnipotente della quiete a ogni costo. E la triste gloria della Francia da ciò deriva, che le grandi lotte di principii della nostra Europa furono combattute a lungo su quel suolo con una passione ardente, con una sete selvaggia di sangue, come forse mai sotto altro cielo. Il forestiero, come mette il piede nelle vie di Parigi, sente subito quale fu la rabbia di odio dei partiti, quale la completa mancanza di pietà, che caratterizza la storia della Francia. Qui la tomba di un pensatore, le cui ossa una notte furono strappate alla pace del sepolcro dagli avversari inferociti; lì il monumento a un Borbone, nel medesimo posto dove sorgeva la statua di un generale bonapartista, e prima di questa una piramide in onore della repubblica, e prima ancora, in origine, l'effigie di un re. Ognuno sa in quale tremenda maniera cotesta ereditaria ferocia francese nelle lotte politiche si affermasse durante gli anni della Rivoluzione. Fu sparso a fiumi il sangue di tutti i partiti, e la spietata guerra dei contadini empì di terrore nelle campagne ogni villaggio. La Francia in un decennio aveva provato tutti i sistemi politici escogitabili, imitato in una vicenda affannata il diritto e il costume, perfino nelle fogge, delle epoche più sostanzialmente diverse, rovesciato tutti interi gli acquisti di una rivoluzione radicale. Ora il governo dello stato rifinito era nelle mani di quel Direttorio che, fiscale e discorde, violento eppure impotente, si batteva a morte e vita con le fazioni. Bonaparte col suo occhio singolare aveva in passato già visto, che il 10 agosto il potere regio precipitava per la fiacchezza dei suoi difensori, e da quella osservazione cavò la teoria che più tardi, salendo al trono, legò ai suoi successori come un monito della più alta sapienza politica: «la rovina della legge e il perturbamento dell'ordine sociale sono mere conseguenze della debolezza e incertezza dei principi». Fin da allora si era servito dei partiti repubblicani per collocare al debito posto gli uomini d'ingegno eminente; ma la sapienza politica pericolosamente precoce di quel cervello nemmeno per un istante aveva dubitato, che la durata della repubblica fosse tanto impossibile quanto il ritorno dei Borboni. Egli era padrone dello stato prima di conoscerlo; e con l'occhio del genio intuì ciò che più urgentemente era necessario alla vita sociale in brandelli. Dichiara: «io non appartengo a nessun partito, io appartengo alla Francia; chi ama la Francia e ubbidisce al governo è del mio partito»; e in questo modo si assicura l'appoggio di tutti coloro che tremavano alla tirannide dei partiti. Egli abroga le leggi crudeli contro gli ecclesiastici e gli emigrati, ma mantiene l'alienazione già compiuta dei beni dello stato, delle chiese e della nobiltà; e in tal modo non solo rassicura i borsisti che avevano dato mano alla preparazione del complotto del 18 brumaio, ma anche i centomila che temevano della malsicurezza del nuovo possesso. Così la furia dei partiti era, pel momento, contenuta dal nuovo dominatore, e la conversione di tutti i diritti di proprietà era legalmente ratificata. Ma Napoleone menò a compimento anche un'altra grande opera politica, alla quale ha collaborato tutta intera la storia di Francia: mercé sua, la rigida unità statale della nazione fu un fatto compiuto. Il tedesco guarda con antipatia una nazione, per la quale il nome di provincia suona, su per giù, sinonimo di stupidità e limitatezza. Noi osserviamo il carattere proprio di Parigi, la quale, nella sua mobilità turbinosa, pure per cinquecento anni si è serbata così portentosamente fedele a sé stessa; la città che nel medioevo era già un giardino di amore e l'albergo di tutti i dolci peccati e, ciò non ostante, era nello stesso tempo la lizza di tutte le grandi idee scotitrici del mondo; cotesta eterna vicenda di magnanimità e di sfrenata cupidigia, cotesta vita d'infaticabile lavoro e di godimento infaticabile, che pure non ha mai conosciuto la benedizione ricreatrice del lavoro, la libertà tranquilla e la contentezza; e scotiamo il capo domandando a noi stessi, se è vero che solamente un grande popolo ha potuto tollerare la dittatura di una città siffatta. Ben di rado noi apprezziamo, al giusto valore, di quali inestimabili benefizi la Francia è debitrice al dominio della sua capitale: la forza gagliardamente aggressiva dello stato, la fusione di tante stirpi di diversa natura in una nazione coniata recisamente nel suo peculiare carattere. Anche il tedesco, quando passa tra i filari di tombe del Père-Lachaise, non può pensare senza emozione quale considerevole rigoglio di forza umana ha operato qui, nella più splendida città del mondo. E con che veemenza nel cuore del francese deve far impeto l'orgoglio, sia l'orgoglio nobile o il comune, in cotesta culla delle più svariate forme di vita, dove ogni attitudine, ogni pensiero, ogni riputazione trova una grande scena, visibile dai punti più lontani! con che potenza cotesto foco centrale della vita della nazione ha sviluppato il dono particolare concesso al francese dal Creatore, il dono di far valere presto e stupendamente i meriti anche più umili! Insomma, l'enorme maggioranza dei francesi non è punto di opinione, che la magnificenza di Parigi sia scontata troppo cara dall'impoverimento spirituale delle provincie. E quando un popolo grande e geniale mantiene salda una tale persuasione attraverso tutte le vicende della sorte, allo straniero non è lecito sindacarvi su. Giova invece confessare modestamente, che in questo caso ci troviamo davanti a uno svolgimento particolare della vita sociale, che è sostanzialmente diverso dal nostro, e che in seguito potrà forse essere moderato dalla forza umana, ma cambiato non più. La Francia ricorda con orgoglio la lotta dei suoi re contro i feudatari, e quel gran cardinale che si gloriava di aver compiuto il livellamento del suolo francese. Questo impulso all'unità assoluta dello stato si manifestò imperiosamente, non appena la rivoluzione svelò le più segrete inclinazioni del popolo. «Purtroppo», gridò sdegnosamente Mirabeau, «noi non siamo ancora una nazione, ma un mucchio di provincie raccozzate sotto un capoluogo». La notte del quattro agosto non furono sacrificate soltanto le prerogative degli alti stati, ma anche i privilegi delle provincie. Perfino ai nomi delle provincie tradizionalmente le più celebrate toccò la sorte di sparire; l'intero paese fu spartito nell'uniformità dei dipartimenti. Così la licenza indisciplinata dell'epoca condusse a un'apparente contraddizione. La Costituente stabilì che tutti i comuni e i distretti avessero magistrati liberamente eletti e indipendenti, e per alcuni anni di anarchia lo stato parve costituito di più migliaia di staterelli indipendenti. Ma, in questo stesso tempo, proprio la volontà della capitale decise la sorte del paese; e all'appello di Danton, invocante un energico governo nazionale, la Convenzione intraprese senza indugio la guerra di annientamento contro le provincie. Fu proclamata la repubblica una e indivisibile, l'esempio della grande confederazione germanica fu espressamente respinto. Dopo le lotte sanguinose della Vandea, di Lione e di Tolone, il paese fu completamente assoggettato all'esclusiva potenza del governo centrale. Così la massima, che l'autonomia amministrativa delle provincie si concilia con l'autorità dello stato, parve alla maggioranza dei francesi altrettanto inconcepibile, quanto al contrario parve ai tedeschi la verità, che il libero diritto delle parti trovi le sue giuste limitazioni nell'interesse del tutto. La boria municipale e provinciale si riscosse ancora di quando in quando, in convulsioni repentine, come nel 1815, allorché fu fatta agli alleati istanza di elevare Lione a città libera. Gli eventi hanno dimostrato che questi desiderii non hanno forza vitale. «Le località non sono e non possono essere», ha scritto in due parole il signor Dupont-White, ed ha espresso l'opinione nazionale predominante. Sotto l'antico regime il volere del re e dei suoi trenta intendenti era attuato con un'opera assidua di usurpazione; giacché attraverso le mille vie della forza e dell'astuzia e dell'influenza, non si faceva che eludere o minare i diritti delle signorie feudali, dei consigli municipali, delle magistrature ereditarie. Un governo altrettanto tumultuario aveva esercitato la Convenzione per mezzo dei suoi commissari e del dispotismo demagogico dei clubs. Solo Napoleone I seppe trovare la forma proporzionata all'accentramento del potere, la forma ben ordinata, che nella sostanza, purtroppo, ancora perdura: tanto i bisogni e le mire di questo popolo non possono radicalmente mutarsi. Subito dopo l'istituzione del Consolato, egli mandò in tutte le divisioni militari i suoi delegati con pieni poteri a sorvegliare e deporre gl'impiegati. Poi la legge del 28 piovoso dell'anno VIII fondò la gerarchia delle nuove magistrature francesi. A capo di ogni distretto amministrativo è un funzionario, il quale, secondo la parola di Napoleone, è nel suo distretto un piccolo primo console: tutti i prefetti, sottoprefetti e sindaci sono nominati dal capo dello stato o dai suoi organi. Furono ripristinati i comuni, che la Convenzione aveva aboliti, ma furono sottoposti incondizionatamente ai funzionari del governo. In mezzo a questa rete siede, come un gran ragno, il consiglio di stato, e attira a sé le forze più fattive della burocrazia e completa con fili sempre nuovi la trama della potenza monarchica. Il sovrano sa bene scegliere con occhio sicuro gli _specialisti (les specialités)_ per le sezioni del consiglio di stato, vale a dire gli uomini docili, senza umori partigiani, che accoppiano la cultura del tempo antico con la laboriosità del nuovo. Ai consiglieri sono aggiunti 350 uditori, i quali sono destinati ad appropriarsi tutto ciò che risponde allo spirito di questa burocrazia e ad impiegarlo poi a suo tempo nell'amministrazione dipartimentale. L'intero sistema era rispondente, conforme, pratico, ordinato sommariamente sul principio della divisione del lavoro, abbastanza attivo per ristabilire in sei mesi l'ordine nello stato sconvolto; ma era anche dispendioso, privo d'intelligenza e sempre più dispotico. Questo ordinamento amministrativo è la costituzione odierna della Francia. In questo consiste il «capitale di autorità» che, come oggi i napoleonidi hanno ben ragione di affermare, l'imperatore ha lasciato in eredità a tutti i governi avvenire della Francia. In uno stato siffatto ogni sovrano poteva ben ripetere fedelmente il detto dell'imperatore: «coi miei prefetti, i miei gendarmi e i miei preti, io farò sempre ciò che mi pare». In virtù di codesto accentramento amministrativo, che naturalmente aveva elaborato nella propria organizzazione il diritto amministrativo più tecnicamente perfetto del mondo, l'unità della Francia era effettuata e avviata a successivi sviluppi radicali, e il vertice del sistema non poteva essere che monarchico. I corifei della giovine Germania tempo addietro solevano buttarci in viso, come uno sprezzante rimprovero, che l'ardimentoso francese fosse un repubblicano nato e il docile tedesco un monarchico nato. Oggidì, invece, le persone intelligenti tengono per fermo, che solo la passione e il pregiudizio fondato su astrazioni possono negare l'istinto affatto monarchico del popolo francese. Solamente la lingua francese conosce l'espressione «souveraineté», e un francese, Bodin, ha pel primo spiegato scientificamente cotesto concetto. Per lo spazio di secoli, mentre il potere regio si rinforza e lotta pel dominio assoluto, i giuristi della corona difendono la maestà dell'idea di stato personificata nel modo più potente nella monarchia. Essi risuscitano le idee politiche dell'impero romano, e non si rifanno mai abbastanza ai proverbi che esprimono l'unità, l'immortalità, l'esistenza assolutamente politica del monarca giganteggiante a spese del diritto privato. Questi pionieri della monarchia hanno trovato panegiristi convinti in Thierry, Mignet e nella gran maggioranza degli storiografi francesi, e recentemente passionati sostenitori in Tocqueville e nei seguaci in Francia della scuola dei pubblicisti inglesi. Il tedesco può rinvenire ben pochi motivi di ammirazione nella violenta politica dell'assolutismo, ma pure deve riconoscere che era una dura necessità. La rivoluzione non riuscì punto a sradicare queste tradizioni monarchiche. Nel 1789 il popolo non mostrò in nessun luogo la più indispensabile delle virtù repubblicane, ossia la seria e decisa volontà di assumersi come un ambito onore il duro dovere di amministrarsi da sé. Si domandava solo, che l'elezione dei magistrati pubblici fosse commessa di diritto ai cittadini; e quando questo desiderio anarchico condusse alle più inevitabili ripercussioni, si trovarono nuovamente una di fronte all'altra, come già sotto l'antico regime, due grandi classi: la classe governante, e la grande maggioranza di quelli che guardano al governo solo con occhio critico. Nel carattere pieno di contraddizioni di questo grande popolo fin dal tempo antico si riscontra accanto a una forma magnanima di amor di patria, che nei giorni del pericolo sale fino all'eroismo, un'avversione decisa al sacrifizio quotidiano inerente al compimento del dovere da parte del libero cittadino; accanto a una forte passione politica il senso poco o nulla sviluppato dell'ordine e del diritto dei singoli. Napoleone III fin da quando era un pretendente si accorse, che proprio sopra codesti difetti si sosteneva, dura e senza discrezione, la monarchia burocratica. Con altrettanta necessità l'accentramento richiamava la monarchia. Solamente una cieca illusione poteva indurre gli oratori della Costituente, per esempio un Thouret, alla fiduciosa affermazione, che sull'accentramento riposava la solidità e la costanza dello sviluppo politico. Piuttosto, invece, la cospirazione di tutte le forze vive della nazione concentrate a Parigi offriva a quella minoranza la possibilità d'impadronirsi di tutto lo stato con un colpo di mano audace. Soltanto una energica potestà monarchica era scudo contro un tale enorme pericolo. E così il primo console poté avere sulle labbra, almeno per un altro po' di tempo, le frasi repubblicane e celebrare con lutto solenne la morte di Washington, a cui era toccato di combattere per gli stessi beni che i soldati di Bonaparte: ma fin dal 18 brumaio la Francia aveva un padrone. Un trattato della repubblica dell'anno 1801 già parla di sudditi del primo console: la fondazione dell'impero legittimò alla fine anche il nome di quel regime, che per la Francia era una necessità, e che solo nella vertigine delle passioni era stato possibile abbandonare. Se non che il ripristinamento della monarchia non era affatto una restaurazione dell'antico reggimento. Napoleone capì, che con un semplice ritorno al passato egli si sarebbe bandito da sé. Sapeva quale strappo potente il 1789 aveva aperto nella storia della Francia, e seguì animosamente il pregiudizio nazionale, che cotesto popolo avesse insegnata al mondo la libertà e iniziata un'êra affatto nuova. Riconosce la sovranità popolare, deriva il proprio potere dal diritto del suffragio universale: _le vieux système est à bout_. Lusinga quindi le inclinazioni democratiche del tempo e accresce smisuratamente il pieno potere della propria corona. L'eletto della nazione possiede una potenza illimitata, indefinita, quale non appartiene in alcun modo a un legittimo re dei nostri giorni. Qualunque altro potere dello stato scompare davanti al suo, che riposa sulla fiducia di milioni di cittadini. Egli solo è il rappresentante della nazione: alla imperiale consorte proibisce di parlare dei rappresentanti del popolo come corpo legislativo. L'intima parentela della democrazia con la tirannide non si è mai rivelata con maggiore evidenza di fatto. «La natura della democrazia è di personificarsi in un uomo», disse il nipote: parola di una terribile verità in una nazione accentrata. Precisamente col sovrano divenuto tale per le sue virtù si era realizzata a pieno l'idea madre della democrazia francese; l'idea dell'eguaglianza. La _égalité_, quantunque accolta fin dal 1793 tra le più attraenti grandi parole dei diritti dell'uomo, si era poi affermata come la più vitale delle acquisizioni rivoluzionarie. Se vogliamo apprezzare corrispondentemente il fanatismo di eguaglianza della nuova Francia, dobbiamo ricordarci dell'odio atroce che in quel paese fin dai tempi antichi separava gli _stati_. Ognuna delle classi più alte guardava le più basse con un disprezzo senza limiti. L'antico nome del quarto stato, dei _vilains_, è ancora oggi un'ingiuria. La nobiltà, come Napoleone III dice incisivamente, traduceva la generosa parola _noblesse oblige_ nell'altra _noblesse exempte_. Mentre nel secolo decimottavo il benessere e la cultura del terzo stato era in poderoso aumento e la dottrina dei diritti illimitati dell'uomo trovava numerosi apostoli ispirati, le barriere giuridiche tra l'uno e l'altro stato erano alzate anche più alte che nel medioevo. La maggioranza dei francesi era legata alla professione dei loro padri, la parte più grave dei pesi pubblici era sostenuta dal quarto stato travagliatissimo. Perfino durante la rivoluzione apparvero fogli volanti, sui quali l'aristocrazia con cinica franchezza bandiva principii come questi: «La società può ridurre schiavi gli uomini, quando ne ridonda vantaggio ad alcuni dei suoi membri. La legge rispetto a una classe di cittadini deve tollerare le violenze e i misfatti, che rispetto a un'altra punisce severamente». Siffatte massime bastano a spiegare la guerra di distruzione contro gli stati più alti, che occupò gli anni della rivoluzione. Disgraziatamente nella vita francese, come apparve manifesto, non sopravvisse nulla della schiettezza e semplicità democratica. Si sparsero anzi nel mondo le teorie dell'onore cavalleresco e della galanteria, le stesse, purtroppo, dei tempi della cavalleria; e la nazione ha serbato fino al presente cotesto carattere cavalleresco, con tutto il suo eroismo e con tutta la sua vanità. Nel caso speciale, la sentenza di Machiavelli, che il cittadino può farsi grande solamente nella pratica degli affari dello stato, si comprende, ma nel senso più esoso. L'ambizione e l'egoismo premevano la corona da tutte le parti, domandando impieghi, titoli, benefizi. Guardare allo stato con occhio cupido divenne un'abitudine. E quando un tal popolo leva il grido di eguaglianza, si comprende in tutto il suo vigore la dura parola del poeta: _Le rêve d'envieux, qu'on nomme égalité!_ Varie ragioni spinsero Napoleone I a realizzare compiutamente quel sogno dell'invidia che si chiama eguaglianza. Il borghese arrivato vedeva necessariamente negli stati privilegiati del tempo antico i suoi nemici irreconciliabili. Nei momenti di debolezza si sentiva piacevolmente lusingato, quando un cortigiano gli parlava dell'antichissima nobiltà della casa Bonaparte. Nei giorni del suo più alto orgoglio attirò a disegno alla sua corte i gentiluomini delle antiche stirpi; di più, egli con le nozze austriache si sforzò di dare alla sua recente corona il lustro dell'antico legittimismo. Ciò non ostante, in tutti i momenti di difficoltà egli ritornò alla chiara conoscenza di sé stesso: «per me esiste una nobiltà solo nei sobborghi, un volgo solo nella nobiltà». Per altro, della necessità dell'eguaglianza dei cittadini egli era sinceramente persuaso quanto forse un neolatino. Sentiva di parlare dall'intimità dell'animo alla propria nazione, quando nella costituzione dichiarava vano ogni tentativo di ripristinare il feudalismo. Opinava di aver animato anche gli altri popoli allo stesso fervore di eguaglianza. Nelle lettere ai principi vassalli inculcava instancabilmente l'idea di rimovere «coteste futili e risibili differenze di stato». I popoli della Germania, dice una lettera a Girolamo del novembre 1807, non nutrono desiderio più vivo, se non quello che anche il non nobile abbia adito a tutti gl'impieghi, e che scompaia ogni forma di schiavitù e ogni potere intermedio tra le popolazioni e i principi. Egli chiama costituzionale uno stato che mena a termine questa riforma: con questo mezzo la Westfalia avrà una preponderanza naturale sulla Prussia dispotica. Il suo occhio acuto riconosce nella completa distruzione delle distinzioni di casta la leva più potente del dispotismo. E dire, che ancora oggigiorno gli uomini del rigido bonapartismo tradizionale non vogliono vedere nel movimento dell'89 se non un puro fatto sociale: l'abolizione delle caste feudali. L'eguaglianza che Napoleone effettuava, era l'eguaglianza dei cinesi al cospetto del Figlio del Cielo. Egli aveva trovato, come si esprime il nipote, _la société en poussière_; e l'imperatore si accinse a «riorganare la società, ad assegnare a ciascuno il suo posto, a _irreggimentare_ il popolo intero», a collocare al luogo degli antichi stati «la gerarchia dei meriti riconosciuti dallo stato». L'appagamento incondizionato dell'ambizione comune diventa la molla del nuovo stato. D'ora in poi la libertà non consiste nel diritto che ha ciascuno di perfezionare spontaneamente sé stesso, ma nella gara sfrenata e senza limiti di tutti i cittadini a prendere i posti assegnati dal potere dello stato. Tutta quanta la nazione si accalca in tal modo in una vana caccia agli onori esteriori: il ragazzo, che ostenta superbamente la croce di latta dal nastro tricolore, il _prix de sagesse_; l'adulto, che ghermisce la stella dal nastro rosso. L'imperatore diede a divedere con parole indimenticabili quale meschina opinione avesse del suo popolo. «Non è vero», disse al consiglio di stato, «che i francesi amano la libertà e l'eguaglianza. Al popolo tutto è indifferente; bisogna dargli la direzione. Gli uomini si guidano con dei balocchi». E balocchi da fanciulli erano anche i titoli della nobiltà bonapartista. A torto l'istituzione di cotesta nuova nobiltà è stata rimproverata all'imperatore come una diffalta ai suoi propri principii. Una nobiltà di tal fatta, non legata alla nazione né da grandi tradizioni storiche né da un potente interesse all'autonomia, non poteva mai in alcun modo riuscire pericolosa all'assolutismo livellatore: era semplicemente un mezzo di più per ridurre la comune ambizione al servizio di cotesta monarchia. Anche il famoso decreto del 1810, che permetteva l'istituzione dei maiorascati senza titoli di nobiltà, non cade in contraddizione con l'idea di eguaglianza quale è intesa dal bonapartismo. Se quella mostruosa legge fosse stata applicata, senza dubbio una gran parte del suolo sarebbe stata sottratta al libero scambio; ma a ogni francese era data facoltà di acquistare l'università di beni appartenenti a un maggiorasco, e la dipendenza della proprietà fondiaria rendeva tanto più completo l'eguale assoggettamento della nazione ai poteri dello stato. Come l'unità dello stato, così pure l'onnipotenza statale menata a compimento da Napoleone era in tutto fondata sulla storia del paese. In tutte le epoche creatrici la legislazione francese mostra il tanto celebrato _caractère d'abondance inspirée_. Perciò in Francia lo stato non trova la sua prosperità nell'attività privata di uomini liberi, ma nell'ammasso potente di tutte le forze del popolo cospiranti insieme nei colpi poderosi all'estero e nelle grandi intraprese all'interno. Già Enrico III dichiara che il diritto al lavoro è una concessione della corona, e da Colbert in poi l'economia è assoggettata a un indirizzo imperiosamente imposto dallo stato. Non a caso, quindi, in Francia molti cervelli elevati riuscirono a quella dottrina del comunismo, che in Germania e in Inghilterra ha a stento suscitato proseliti tra spiriti di poveri diavoli. S'intende, quindi, come quelle utopie siano una forma più avanzata e ardimentosa dell'iniziativa dello stato già predominante da gran tempo, laddove presso noi Germani offendono crudamente tutte le consuetudini statali e sociali. La Francia ha sacrificato beni inestimabili all'onnipotenza dello stato, e, principalmente, il libero sviluppo della religione e, insieme, di tutta la vita dello spirito. Si tenta di cercare nel genio nazionale la spiegazione della fedeltà serbata dai francesi al cattolicismo. Si dice, che l'indole superficiale del popolo, non dotato di intelligenza speciale per le intime e profonde lotte scientifiche del protestantismo, e la serena sensualità innamorata di bellezza dei paesi meridionali, abbiano avuto un sopravvento decisivo a spese dell'acuto intelletto critico. In verità la vittoria della chiesa cattolica fu determinata da ragioni politiche. C'era un senso profondo, un'inconscia ironia nel nome _les religionnaires_ o _ceux de la religion_, che si dava agli ugonotti: la fede era il più alto dei beni solamente per loro, per gli affiliati alla loro setta, non era affatto tale anche per gli avversari. La nazione era abituata ad una uniformità di cultura, a una stretta identità del costume, che appunto si poteva benissimo qualificare come un cattolicismo sociale: a nessuno, dunque, permetteva di prevaricare dalla media dei sentimenti della maggioranza. La corona temé nell'anarchia religiosa anche l'anarchia politica; l'istinto delle moltitudini avvisò con terrore nella scissione della fede la rovina della più gagliarda potenza unitaria dello stato; la gelosia di dominio della capitale, cattolica per tradizione, lottò contro le idee castali, separatiste, delle antiche casate feudali voltesi all'evangelismo nelle provincie. La sapienza di Enrico IV accordò in fine al paese rifinito dalle lotte di tre generazioni una libertà religiosa sufficientemente sicura, che fu inizio di un periodo fecondo, sul quale in verità posarono le basi del potente rigoglio della cultura francese, del secolo di Luigi XIV. Eppure lo stesso re, che elevò la corona al fastigio della potenza, osò, insieme, di perpetrare la più atroce e, quanto agli effetti, la più incancellabile violenza della nuova storia francese: bandì gli ugonotti, e la maggioranza della nazione gli fu di fedele aiuto nel vessare l'infelice «Chiesa del deserto». Da allora la vita spirituale mostra quell'instabile ondeggiamento tra la grossolana credulità alla dottrina ortodossa e l'oltraggiosa frivolezza, che urta così sgarbatamente la nostra anima tedesca: la tradizionale bigotteria celta e lo spirito di sfrontato motteggio si accompagnano grossolanamente, talvolta strettamente congiunti nell'anima di uno stesso uomo; la libertà di pensiero appare scioltezza di spirito dissoluto, forza rivoluzionaria. Ma la potenza dello stato aveva ricevuto un nuovo lievito per la crescita; la fede unica rispondeva all'unico re e all'unica legge. Il protestantismo era incomprensibile tanto a un Voltaire che a un Bossuet, era disprezzato come non francese tanto dai credenti che dagl'irrisori, e la chiesa sola dominatrice era schiava dello stato. Durante la rivoluzione l'attività dello stato va poi vagando nell'indeterminato. La Convenzione arrischia l'insensato esperimento del comunismo pratico, s'impegola nella proposta di Billaud di «ricreare» il popolo francese. Subito dopo l'istituzione del Consolato, Napoleone, appunto seguendo il genio di queste antiche tradizioni francesi, dichiara che è suo proposito «creare lo spirito pubblico». Proclama sé stesso il genio tutelare della Francia, al cui apparire la società anelante ha gridato: _le voilà!_ Imperatore, egli in brevi e secche parole si vanta di aver la gloria e l'onore di «essere la Francia». Tutte le manifestazioni della vita del popolo vengono sottomesse a un'assidua e infaticabile tutela. L'attività gigantesca del monarca abbraccia le cose più grandi come le più piccole, l'edifizio del nuovo ordine giuridico come il prezzo dei posti all'Opera. Ogni dipartimento deve all'imperatore importanti miglioramenti locali; sotto l'impero la mestola non può restare un minuto. Come sotto l'antico regime una massima favorita diceva: _la gendarmerie c'est l'ordre_; ora sotto il bonapartismo dice: la polizia, provvidenza dei liberi cittadini e terrore dei perturbatori. Questa potenza dello stato che tutto in sé abbraccia, ristà davanti a una sola barriera. L'imperatore sa, che la proprietà è più forte di lui e del suo esercito; perciò in testa alla nuova costituzione egli dichiara: «essa è fondata sui sacri diritti di proprietà, di eguaglianza e di libertà»: che è una serie molto significativa. Del resto l'attività esagerata dello stato è rimasta la malattia ereditaria della Francia sotto tutti i regimi, e una gran parte dei francesi esalta come un titolo di superiorità cotesta provvidente onnipotenza dello stato, e con ragioni, che un tedesco intende a mala pena. Sogliono affermare, che nei popoli individualisti lo stato si contenta di inibire il torto, laddove nei popoli accentratori esso si propone un più nobile scopo: qui intende egli stesso di creare il bene e la grandezza, qui sorge ogni iniziativa che accresce la gloria della nazione, dai principii del diritto alle istituzioni statali. «In questo paese dell'accentramento», ha detto molto giustamente Napoleone III, «l'opinione pubblica imputa tutto senza eccezione, il bene come il male, al capo del governo». La riforma giudiziaria è connessa all'accentramento dell'amministrazione. Durante la Rivoluzione i tribunali erano fondati sulla sabbia del voto popolare. La monarchia restituisce loro la stabilità e l'inamovibilità: essa nomina i magistrati, e alla corte di cassazione istituita dalla rivoluzione subordina un appropriato sistema subalterno di corti di appello e di tribunali di prima istanza. La codificazione generale, tentata dalla Convenzione, fu magnificamente compiuta, e fu effettuata l'unità ed eguaglianza di diritto di tutte le classi e di tutte le provincie. Portalis e Tronchet, insigni romanisti e conoscitori esperti del diritto delle _coutumes_, lavorarono insieme al diritto comune del paese. Il nuovo codice risponde a tutte le tendenze delle popolazioni e, insieme del dispotismo, giacché tra lo stato e i singoli non riconosce alcun potere autonomo: la sua logica, sommaria semplicità esige e favorisce nel popolo la chiarezza dei concetti giuridici del diritto privato. Rimase, come concessione alle idee della Rivoluzione, l'istituto dei giurati; ma la grande influenza dei prefetti nella formazione delle liste, l'autorità prevalente dei presidenti delle corti e, sopra tutto, la prerogativa dell'accusa riservata al pubblico ministero, infusero lo spirito burocratico anche nella procedura penale. Né è meglio assicurata, secondo il nuovo ordinamento giudiziario, l'indipendenza dei giudici. L'impero riapplicò in gran parte le spietate punizioni dell'antico regime. Agli stessi critêri s'ispirò Napoleone in materia di finanze. La rivoluzione aveva abolito tutte le esenzioni e stabilito un nuovo sistema d'imposte dirette. La Convenzione aveva, sul disegno di Roederer, rimosso il variopinto guazzabuglio delle antiche tariffe doganali e avviato lo stato all'unità della politica commerciale, ma, per soddisfare le passioni del popolo, vale a dire, come è notorio, delle popolazioni urbane, aveva abolito tutti gli altri tributi indiretti. Napoleone spiega tutta la potenza del suo genio matematico in cotesto suo campo favorito. E anche qui sa scovare i suoi uomini, i tecnici di prim'ordine, i Mollien e i Gaudin. Con loro mette l'ordine nel caos dell'economia nazionale, introduce l'opportuno sistema di gestione commerciale, e alla contabilità generale dà una chiave potente nella corte dei conti. L'istituzione dei ricevitori, obbligati a sottoscrivere le cedole sull'importo delle contribuzioni scadute, assicura alle casse immediate dello stato l'afflusso regolare. L'imposta autonoma comunale è rimossa di un colpo, e l'amministrazione burocratica è effettuata con tale seguenza, che il ministro delle finanze non è nemmeno circondato da un consiglio tecnico. La monarchia dà alle imposte dirette una base sicura nel catasto: e come complemento aggiunge la varietà saggiamente calcolata delle contribuzioni indirette. Il principio dell'eguaglianza è in tal modo pienamente realizzato, il potere tributario del paese è messo in valore da innumerevoli punti, e l'economia nazionale è conformata agli scopi belligeri del sovrano; perché l'imperatore sa, che in tempi di guerra soltanto le imposte dirette possono prelevarsi con successo, e formula pubblicamente il principio, che l'imposta non ha limiti e trova la sua misura solamente nei bisogni del governo. Il primo console diede alla borsa un nuovo centro: Perregaux e altri banchieri devoti fondarono la banca di Francia. La quale fu anch'essa via via sviluppata in senso sempre più burocratico: più tardi un governatore nominato dall'imperatore soppiantò la commissione che la dirigeva. L'unità di peso e di misura, preparata dalla Convenzione, fu condotta a termine sotto il Consolato. Di pari con la giustizia e le finanze anche l'esercito francese ha battuto finora la via tracciata da Napoleone. «Onore, gloria e ricchezza», aveva promesso il generale Bonaparte all'armata d'Italia; e da allora fissò gli scopi che stanno sempre davanti agli occhi degli ufficiali dell'esercito francese. Il monarca mantiene la coscrizione, che era stata opera di Jourdan e del direttorio; ma si guarda bene di applicare al servizio militare l'idea dell'eguaglianza. L'usurpatore deve risparmiare l'egoismo delle classi possidenti: un popolo in armi è una minaccia per un despota: egli non sa risolversi ad una _levée en masse_ nemmeno tra le urgenze della campagna invernale del 1814. Ciò non ostante, ogni soldato porta nello zaino il bastone di maresciallo, e la libera gara di emulazione forma l'orgoglio dell'esercito. Perfino i Borboni doverono riconoscere questo principio nella legge del 1817. È palmare quanto vantaggio ne sia venuto all'efficienza bellica dell'armata, ma anche quanto ne siano state eccitate e fomentate, insieme con lo spirito da lanzichenecchi cresciuto nelle guerre della Rivoluzione, la morbosa ambizione, la voglia erratica di conquista, la sommissione cieca al dominatore. Farebbe assai bene la nostra democrazia, se considerasse un poco anche il rovescio di cotesto sistema del libero avanzamento, troppo e senza misura levato al cielo. La libertà popolare e il tranquillo sviluppo politico riescono con maggior sicurezza alla regola di Scharnhorst, che il diritto alle spalline sia conferito, in pace, dalla cultura scientifica e, in guerra, dal contegno segnalato davanti al nemico; beninteso, quando cotesta regola sia integralmente e imparzialmente applicata. L'istituzione dei tribunali militari, già del pari opera del Direttorio, rimase in vigore sotto l'impero. In tal modo il soldato è tolto agli ordinamenti della vita civile e dato, come un tronco senza volontà, nelle mani del comandante. Un sistema scaltramente immaginato di ricompense e di adulazioni, e la formazione di una guardia scelta con particolare favore (vetusto contrassegno di tutti gli stati militari), fanno il resto, per fortificare nell'esercito lo spirito di corpo. È chiaro, che il congegno potente di questo sistema è l'argano del più intelligente, del più orgoglioso, del più consequente assolutismo, che la storia moderna conosca. Cotesto edifizio statale è fondato sulle cattive passioni, sulle passioni basse degli uomini. Secondo la natura di ogni dispotismo, anche questo si regge sull'ambizione comune, così vicina al cupo delirio, sulla cupidigia, sulla vanità e, non ultima, sulla paura. Il dominatore intravvide con occhio acuto il bisogno servile di tranquillità e di sicurezza, che dominava gli sgomentoni delle classi possidenti. Subito dopo il 18 brumaio rappresenta il grande spettacolo col fido granatiere Thomé. Il bravo, che ha salvato il primo console dalla pretesa minaccia di vita fatta dal preteso pugnale sguainato dal rappresentante del popolo, viene coperto di onori e presentato teatralmente all'entusiasmo del pubblico. Ne segue la lunga filza dei processi politici. Giorno per giorno il buon borghese deve convincersi che la sicurezza della società pesa sulle spalle di un uomo solo, e pensare quali gravi pericoli circondano quell'uno. Ciò che ancora sopravvive dell'idealismo politico è soffocato dal delirio di sensualità, che l'autocrata fomenta dal fondo. L'azzardo e il lotto, la voluttà e la lascivia da per tutto devono distogliere dal dominio politico la passione di Parigi, calda tuttora di sangue. Le poche veramente immorali tra le sue poesie, Béranger le ha scritte sotto l'impero. Più tardi confessò, che in quei così fatti giorni del dispotismo il veleno dell'immoralità pareva penetrare tutti i pori della società. Una etichetta bizantina con una filza innumerevole di gradi misurava il respiro alla vanità dei parigini, e dai palazzi dei nuovi principi e re della borsa, dei marescialli e degli alti funzionarii capetingiamente montati, traboccava sul paese un lusso petulante e senza gusto, una goffa burbanza denarosa, una brutale lussuria. A cotesta corte di avventurieri ubbriachi di vittoria e di lanzichenecchi incolti rimase affatto estraneo quel fascino gentile di grazia leggera e di squisito godimento estetico, quell'amabile frivolezza celta ebbra di cose belle, che in altri tempi avevano tanto potuto alla corte di Francesco I e nei migliori giorni di Luigi XIV. E non solo il senso politico della libertà e la purezza morale vanno intristendo, ma perfino il talento particolare e il carattere personale sembrano tramontare sotto quell'ordinamento burocratico livellatore, con in cima un genio che opprime ogni altro spirito. Noi cerchiamo d'intendere l'animo di coloro che furono i cooperatori del genio, e rimaniamo atterriti nel vedere come sono nudi, come son miseri, come ogni giorno si rivelano grossolani quegli spiriti, con tutto il loro orgoglio, con tutta la loro celebrità, con tutta la loro virtuosità tecnica, e come corse vana la loro esistenza in quei giorni così pieni di avvenimenti mondiali. Tra loro appena una decina possono con piena verità chiamarsi persone, uomini a sé e per sé. Il rimanente di questi abili esecutori si scambiano facilmente tra loro, si distinguono appena per un maggiore o minor grado di alterigia, di attività ed efficacia, di devozione al padrone, di talento nelle specialità tecniche. Si confrontino le figure dei marescialli napoleonici, non dico con gli eroi della nostra guerra d'indipendenza, ma semplicemente coi capitani e uomini di stato di Federico il Grande o di Luigi XIV, che pure doverono piegarsi anch'essi davanti a un potente autocrata. Ebbene, per un Turenne, per un Podewils o per un Ferdinando di Braunschweig, non ci sarebbe stato posto nell'impero di Napoleone. Nei momenti lucidi, l'imperatore ha riconosciuto la debolezza del regime violento e convenuto, che chi opprime le idee lavora alla propria perdita. Effettivamente il suo governo si risolveva in una lotta incessante contro ogni movimento di libertà dello spirito. Alcuni dotti specialisti devono alla spedizione di Egitto un acquisto di tesori alla loro scienza. Laplace poté scoprire sotto l'impero le leggi della meccanica celeste. Le scienze esatte ebbero incremento dal politecnico, creato dalla rivoluzione, che mercé i grandi matematici derivò proprio dal trono la propria importanza. Ma gli storici, il cui bisogno immediato è la libertà e la cui prima condizione è la fortezza del carattere, sono diseredati; a loro deve bastare, che l'imperatore permetta a Lediard la traduzione della storia di Marlborough. L'arte rifugge dagli stati manovali. Gli edifizi eretti dall'imperatore, massicci, pretensiosi, ma senza grazia e nobiltà, ricordano le costruzioni del cadente impero romano. Perfino sotto l'imbronciata signoria di Cromwell poté fiorire un Milton: invece a capo della poesia dell'impero è l'eroe della chiarezza corretta, della nuda prosa, Fontanes. Ciò che forse, come fa la schietta poesia, attira l'anima in un lontano albeggiamento, ogni cosa profonda, infervorante, anelante, scade in vaga ideologia nell'espressione assegnata di quest'arte cortigiana, tutta regole ed etichetta. Mentre in Germania la giovine poesia romantica arrischia i suoi voli ardimentosi, nell'impero francese vige soltanto quella tradizionale soggezione letteraria, che si fa devotamente misurare dall'accademia la lunghezza delle composizioni, e ammira doverosamente l'orribile seccaggine di Boileau. Perciò madama di Staël vive in esilio, e lo stesso Chateaubriand all'ultimo non può più respirare l'aria del dispotismo, mentre i poeti di corte fanno a gara coi senatori e coi consiglieri di Stato a chi riesce meglio a _ruere in servitium_, a chi con più banali piaggiamenti sa dire, che è tempo di _éterniser l'ère de la gloire_. Un solo artista, veramente significativo, impregna la propria opera con lo spirito del primo impero: qualche cosa della pretensiosa gloria della grande armata echeggia nell'armonia sonora di Spontini, rullante come tamburi. Come il consiglio di stato è il centro organico dell'amministrazione, l'università è dell'istruzione. Non si poteva fondare nessuna scuola dell'impero senza l'approvazione del corpo universitario: di là vengono tutti gl'insegnanti dei licei. Lo stesso programma in ogni liceo, gli stessi libri in ogni biblioteca, la stessa uniforme per gli allievi: a proposito della quale, Napoleone III in modo assai toccante spiegò, che naturalmente solo così i ragazzi più poveri potevano non sentirsi umiliati dal loro modesto vestito. L'istruzione elementare è affatto trascurata: la scuola obbligatoria, che nemmeno la selvaggia energia della Convenzione era riuscita a tirare avanti, non è condotta in porto; e il compito principale dell'insegnamento religioso nelle scuole popolari si restringe a questo, d'inculcare l'ubbidienza all'imperatore come all'immagine di Dio sulla terra. Presso che soffocata la stampa da una compressione, che solo in altri tempi era stata sorpassata, sotto il regno del terrore; ogni associazione di più di venti persone fatta dipendere dal beneplacito della polizia; soppressa la libertà personale da quella legge feroce, che permetteva all'autorità l'arresto arbitrario in nome del bene pubblico senza allegazione di altri motivi; l'ampio impero vigilato da migliaia di spie segrete fino là, sulle Alpi, sulle strade deserte del San Bernardo. Anche nel commercio la famosa eguaglianza finì col rivelarsi come eguaglianza di sopraffazione a tutti, perché il sistema continentale condotto sempre più rigidamente rovinò dalle radici la libertà del traffico. Il carattere del bonapartismo si manifesta forse nel modo più chiaro nei suoi rapporti con la Chiesa. Quantunque Napoleone non si sia mai sottratto interamente ai lontani riverberi della sua educazione cattolica, pure è certo che nel suo contegno verso Roma gli diedero sempre il tono le considerazioni politiche. Il tedesco Federico tra gravi dubbi e lotte spirituali inclinava a libero pensatore, il côrso per calcolo politico propendeva a papista. Una morale senza religione è una giustizia senza tribunale, disse il suo fido Portalis; ma già il primo console nel 1801 aveva parlato anche più netto al clero milanese: «la Chiesa cattolica è la sola, che possa consolidare le basi di un governo». In cotesto senso, come mezzo di asservimento degli spiriti, Bonaparte risollevò il cattolicismo a Chiesa dominante: ognuno però vede, quanto una siffatta chiesa collimi con la mente dell'assolutismo burocratico. Giacché, come un tempo la Chiesa cattolica aveva ricalcato la propria gerarchia sull'ordinamento amministrativo e politico dell'impero bizantino, così essa medesima era divenuta più tardi un modello per lo stato officioso dei re francesi. Più sorprendente ancora è l'affinità del cattolicismo con l'idea della monarchia universale. Nessuno fra quanti nei tempi moderni si sono sforzati di dominare l'Europa, ha potuto fare a meno dell'intesa con Roma. Sotto il Direttorio circa otto milioni di cattolici erano spontaneamente rientrati nel grembo dell'antica Chiesa; tanto la separazione della Chiesa dallo stato contraddiceva alla tradizione dell'onnipotenza statale. L'ordinamento sommamente aristocratico dell'antica Chiesa gallicana era cresciuto insieme con l'antico regime troppo strettamente, perché l'usurpatore potesse rifarla a nuovo ai propri fini. Tanto meno l'assolutismo poteva convocare un vero concilio nazionale o tollerare nella Chiesa un sistema rappresentativo. Bonaparte dichiarò: «il popolo abbia una religione, e questa religione sia nelle mani del governo»; per questo fondò una Chiesa di stato, di cui il papa e il monarca si dividono il dominio in parti uguali. A mano a mano le nuove diocesi e tutti gli uffici ecclesiastici furono assegnati alle recenti nomine; il clero fu stipendiato dallo stato senza alcun diritto o ragione sui beni ecclesiastici depredati; posti i seminari sotto la sorveglianza dello stato; il matrimonio ridotto un contratto civile; eppure, ciò non ostante, l'autorità del papa sul clero era anche più forte che non fosse stata ai tempi di San Luigi: perché il tutto costituiva una rigida burocrazia ecclesiastica. Arcivescovi, vescovi e parrochi si tenevano stretti gli uni con gli altri e col rispettivo gregge, né più né meno come prefetti, sotto-prefetti e sindaci se l'intendevano tra loro e con le popolazioni da loro amministrate. La legge presta volentieri il braccio al fanatismo dei teologi, vieta «ogni accusa diretta o indiretta a una chiesa riconosciuta», val quanto dire, ogni seria disputa religiosa; e il clero riconoscente di Lione dichiara: «noi glorifichiamo in Vostra Maestà la stessa Provvidenza!». Anche quando più tardi, infido ai suoi propri disegni, manomise con brutale violenza la curia e borbottava stizzito ai prelati irremovibili: «la vostra coscienza è una matta»; anche allora l'imperatore non smarrì la consapevolezza, che aveva bisogno della chiesa, e che l'_unité catholique_ era una colonna del suo dominio universale. Al tempo delle beghe col papa minacciò d'intendersela coi protestanti; ma nei giorni di comunella aveva assicurato: «io credo a tutto ciò che crede il mio parroco». Frivola fede la sua, senza radici nel cuore; ma smascherò il suo dispotismo affidante su Roma come ausiliaria alla servitù, quando, bandito a Sant'Elena, predisse che l'Inghilterra sarebbe ridiventata cattolica e la Francia sarebbe ridiventata religiosa. Chi non vuol chiudere gli occhi deve riconoscere, che in un tale stato, in cui la minima faccenda pubblica attende l'impulso dall'alto, un corpo parlamentare non poteva non rimaner sospeso in aria dondoloni. Secondo i concetti di Napoleone, lo scopo di tutte le rappresentanze popolari era quello di _chicaner le pouvoir_; e per lo stato concepito da lui, egli diceva senz'altro la verità. Il tribunato e il corpo legislativo non consistevano in niente di meglio che in una pesante superfetazione, in una concessione affatto contraddittoria con le idee della Rivoluzione. Era un tratto da maestro, quello con cui il primo console aveva messo a profitto la mania di eguaglianza della nazione per cavarne l'unificazione dei corpi parlamentari. I possidenti tremavano davanti alle elezioni generali dirette, e nessuno avrebbe voluto sopportare un censo. Perciò il popolo sovrano elegge una volta per tutte una lista di candidati, dalla quale il senato nomina i tribuni e i deputati. Ma il pensiero dispotico ha un altro colpo da maestro, quando separa la consultazione dalla deliberazione: il tribunato discute, il corpo legislativo decide. Il colpo ferisce il nervo della vita parlamentare. La rappresentanza popolare, per confessione del suo presidente, osserva che il suo cómpito più importante è quello di «scoprire i benefizi del governo e notificarne i meriti». Nessuno può meravigliarsi, se l'imperatore a suo capriccio caccia via l'opposizione, e prima riduce il tribunato a metà dei membri, poi lo sopprime addirittura. Il potere legislativo va in fumo davanti al potere esecutivo, e gli schiavi tripudiano: «la creazione è compiuta, principia la vita». Il despota, di ritorno dall'Elba, annunziò, che finora contro sua volontà, costretto dall'inimicizia dell'Inghilterra, aveva dovuto aggiornare il governo di libertà per condurre a compimento la confederazione degli stati europei; e concesse alla nazione quell'atto addizionale, che appagò tutti i desiderii del liberalismo in moda e limitò per giunta la giurisdizione militare. Il celebre teorico del liberalismo, Beniamino Constant, profferse pieno di fiducia la sua assistenza al despota convertito; l'organo dei costituzionali, il _Censore_ di Dunoyer, proclamò giubilando, che con l'elezione della rappresentanza popolare, con la libertà di stampa, col diritto di petizione il reggimento di libertà era stabilito; e in seguito tutti i rappresentanti del liberalismo francese, da Thiers a Ollivier, hanno concordemente assicurato, che mai prima di allora la libertà era stata conosciuta con maggior pienezza. Solo che a chi osserva spregiudicatamente, tali panegirici dimostrano quanto poca consistenza hanno in Francia i concetti giuridici elementari dello stato di libertà. Una vera rappresentanza popolare accanto all'eletto da milioni di voti, accanto all'idolo dell'esercito, il cui sovrano disprezzo degli uomini si era tanto più acuito, dopo che già due volte tutta intera la capricciosa nazione lo aveva abbandonato; accanto al governo dispotico dell'assolutismo militare, che sotto i Borboni, come nei cento giorni, continuava a vigere immutato del pari che sotto il consolato; un assurdo siffatto non prometteva una lunga durata. Dato pure che la campagna del 1815 fosse andata bene all'imperatore, la Francia non avrebbe tardato a sperimentare ciò che i furbi capirono subito, quando Napoleone tornò dall'Elba: che, cioè, agli occhi di un tale uomo un sovrano costituzionale era stato e rimaneva un _cochon d'engrais_. Non ostante la finitezza del suo meccanismo burocratico, l'impero non ha mai rinnegato la propria essenza di potere illegittimo, tirannico. Purtroppo anche questo è un tratto caratteristico della tradizione francese. Durante i lunghi secoli in cui la corona dominava solo su pochi funzionari assolutamente devoti e affermava il proprio potere con la violazione continua delle leggi, con le leggi eccezionali e con gli arresti arbitrari, il senso della legalità, per altro non troppo forte dei francesi, era devastato dalle fondamenta. La nazione fece l'animo alla credenza, che Chateaubriand esprime ingenuamente: «i mezzi di un governo sono di continuo incommensurabili». La Rivoluzione, quindi, aveva combattuto l'antico regime con le sue stesse armi. Il tribunale di sangue della Convenzione e le corti speciali di Richelieu sono figli di uno stesso spirito. Quando lo stato accentrato ricevé finalmente da Bonaparte gli organi legittimi indispensabili, a cotesto enorme potere statale fu, nello stesso tempo, aperta la via alla tentazione quasi sovrumana di abusarne; e, col fatto, nessun sistema politico in Francia fino a oggi, nemmeno la monarchia di luglio, ha governato senza leggi eccezionali. Bonaparte ereditò dal Direttorio un terribile armamentario di leggi di urgenza, sullo stato d'assedio, contro la stampa, e via dicendo. Il suo governo trascorse tra guerre continue; all'usurpatore mancava il senso della sicurezza sul trono; la sua natura soldatesca propendeva all'imperiosità e alla violenza. Tanto meno inclinava a lasciarsi cader di mano l'arme a due tagli delle leggi eccezionali; egli per l'appunto, per cui l'indeterminatezza del potere aveva il valore di supremo principio di governo. Il senato, cieco strumento dell'imperatore, «decise sopra tutto, che nella costituzione non vi sieno eventualità previste»; e questo principio costituisce la pietra angolare del sistema napoleonico. «Una costituzione è l'opera del tempo; bisogna lasciare aperta la via più estesa possibile al miglioramento», aggiunge esplicitamente lo zio; e il nipote, che ha scaltramente accettato cotesto gioiello del bonapartismo nella costituzione che egli stesso ha fatta, ammira l'uomo di stato, che è anche navigato uomo di mondo, il quale non volle regolare tutta la materia in anticipazione, alla maniera dei dottrinari. Per conseguenza la volontà del despota non trovò nemmeno una sola limitazione nei regolamenti di servizio del suo personale burocratico. In forza delle vecchie e delle nuove leggi di pubblica sicurezza, poteva inviare di botto i suoi nemici sulle coste malariche della Guiana; sospendere di botto il giurì in 14 dipartimenti, o incorporare a uno a uno in un reggimento di artiglieria gli alunni di un seminario a lui ostili; far pronunziare di botto da un tribunale militare una sentenza capitale o rinviare a giudizio i giurati di Anversa, perché il loro verdetto non aveva corrisposto al desiderio dell'imperatore. Nel 1810 apre altre otto prigioni di stato «per coloro che non si possono rinviare a giudizio, ma che nemmeno possono tenersi in libertà». E che la torre di Vincennes sotto l'impero celasse raccapriccianti misteri come soltanto la Bastiglia sotto Luigi XV, ce lo dicono sommariamente gli scritti postumi di Tocqueville, che ne dà una descrizione sinistra su ragguagli di testimoni oculari. Lo spirito dell'arbitrio finisce con l'insinuarsi in tutti i rami della vita pubblica. L'imperatore viola di continuo le sue proprie leggi: vieta il commercio con l'Inghilterra e accorda a particolari favoriti la concessione di contravvenire al divieto. Sotto il bonapartismo l'eguaglianza svela il suo vero aspetto: nessuno in Francia gode un privilegio, salvo che per grazia dell'imperatore. Questa incertezza di tutti i rapporti sociali era il peggiore di tutti i mali del tempo. Nessuno si sentiva contento di un oggi tollerabile, perché ognuno tremava pel domani incerto. L'imperatore finisce come il console aveva principiato: durante la guerra del 1814, come allora dopo il 18 brumaio, Napoleone manda nelle provincie commissari con poteri illimitati. La serpe si morde la coda, il dispotismo ha descritto il suo cerchio sciagurato. Al postutto, facilmente si spiega il perché madama di Staël chiamasse l'imperatore il _Robespierre à cheval_, e il nostro Schlosser, per contro, non avesse mai saputo contenere l'entusiasmo per l'eroe democratico, mentre altri liberali lo maledicono come il nemico mortale della libertà, il restauratore dell'antica tirannide; e il nipote lo deifica come l'esecutore testamentario della Rivoluzione, il quale col pugno possente ne ha scosso via i frutti bugi e condotto con cura a maturità i promettenti. Nessuna di coteste affermazioni è stata rovesciata interamente, nessuna dice interamente la verità. Ciò che irriflessivamente si presume di significare con la frase fatta «le idee del 1789», in effetto era un torbido caos di idee dispotiche e liberali, che si escludevano a vicenda. Napoleone con tatto meraviglioso ha condotto a compimento degli sforzi della Rivoluzione tutta la parte che serviva al dispotismo livellatore, e ha soffocato tutta l'altra che giovava alla libertà. Tale è il senso vero del vanaglorioso aforismo, messo in testa alla costituzione consolare: «la Rivoluzione è ricondotta ai principii con cui cominciò: essa è finita». L'onnipotenza dello stato, l'assoluta unità e l'accentramento, l'eguaglianza di tutti i francesi, il fondamento del potere statale sulla volontà del popolo sovrano, tutte queste sono «idee dell'89» che annullano la libertà. Napoleone le ha effettuate e, insieme, ha riconosciuto la nuova vita economica prodotta dalla rivoluzione e ne ha raccolto i frutti benefici. In tali termini è davvero figlio della Rivoluzione, e noi intendiamo il perché gl'irriducibili dottrinari della nostra emigrazione democratica si compiacciono di vituperare le condizioni sociali, pure tanto più prospere, della propria patria, e di levare al cielo «la bella eguaglianza» del bonapartismo. La giustizia, l'esercito, le finanze, la circolazione monetaria, l'intera amministrazione hanno ottenuto da Bonaparte la forma, che ha sfidato finora ogni vicenda della storia. Rispetto a questa parte della vita dello stato, che è la più importante per le popolazioni, nessuna delle più recenti rivoluzioni ha apportato mutamenti sostanziali. Tutte coteste hanno toccato soltanto la cima dello stato. L'uomo comune in ogni cambiamento di sistema ha visto solo una vicenda di signoria e una variazione dell'incidenza tributaria; giacché sotto tutti i sistemi piovono parimente dalle prefetture innumerevoli decreti principianti col sovrano «Noi, prefetto», che regolano con onniscienza e onnipotenza ogni più grande e ogni più piccolo affare dell'amministrazione locale. E siccome governanti e governati non possono esser mai della stessa opinione sulla durata del governo, e manca affatto, intermedia tra loro, una classe che partecipi volontariamente e onorariamente all'amministrazione, consegue, che sotto una tale tutela il popolo vivace e mobile si lascia andare a continue e sempre nuove agitazioni. Ciò non ostante, la maggioranza dei francesi riguarda sempre con orgoglio il proprio ordinamento burocratico militare; e tanto più Napoleone è considerato una gloria nazionale. Egli, al contrario, distrasse la libertà e sicurezza personale, la libertà del commercio e della vita spirituale, la partecipazione del popolo alla legislazione e all'amministrazione. Fino a questo segno fu nemico della Rivoluzione e nemico del proprio popolo, che abbonda anche troppo di genialità e di senso del bello, e che ha troppo spesso combattuto magnanimamente contro la tirannide, perché potesse trovare nel deserto spirituale del dispotismo un acquietamento durevole. Cotesta peculiare situazione dell'uomo nel suo tempo non permette di riassumere in poche parole il giudizio storico su di lui. La menzogna, la diabolica mezza verità è l'essenza del bonapartismo, come di ogni altro dispotismo livellatore. Quando Napoleone istituisce le sue otto Bastiglie e comanda di preporre al relativo decreto due pagine ridondanti di ragioni liberali giustificatorie; un caso, cotesto, che, come nessun altro, mette a nudo i gelosi intimi segreti del sistema; noi pensiamo di udire il Tiberio di Tacito. E il carattere della bilateralità, della mezza verità, si manifesta in Napoleone in modo assai più stridente che in altri despoti. Spesso l'imperatore è stato detto l'ultimo dei monarchi assoluti illuminati del secolo decimonono, e si è pensato che la Francia, la quale prima della Rivoluzione aveva conosciuto solamente la monarchia cortigiana, sia stata per la prima volta introdotta da lui nell'era del dispotismo illuminato. Senza dubbio la sua divisa «tutto pel popolo, niente dal popolo», designa anche la politica di Federico il Grande e di Giuseppe II: egli compì ciò che l'uno e l'altro iniziarono, senza per altro avere l'elevato e regale senso del dovere del re di Prussia, ma più risoluto di lui, più radicale, perché aveva trovato un mondo in frantumi. Ma con ciò non è punto esaurita la valutazione del posto che egli occupa nella storia di Francia. Egli non si trova affatto sullo stesso piano con cotesti riformatori legittimi. Era un usurpatore, ereditava la sua forza dalla distruzione fondamentale del diritto storico, e perciò si ergeva nemico fino alla morte contro le dinastie legittime. La coscienza dell'usurpazione non lo ha abbandonato mai. Nel primo mese del suo regno scrive la famosa lettera, così tagliente ed aspra, a Luigi XVIII; e, poco dopo, l'uccisione del duca d'Enghien mostra l'atteggiamento che assume coi Borboni: incessantemente, fino al tramonto della sua fortuna, sorveglia perplesso le mene della corte cacciata, e nel 1814 fa ancora fucilare un partigiano borbonico. Ma la corte e la sua nobiltà serbano verso le opere della Rivoluzione una condotta di gran lunga più ostile che non Napoleone, e non solo combattono come questo le idee liberali del 1789, ma anche il livellamento della società compiuto dal novello potentato. Perciò la fama di eroe della libertà, Napoleone la deve sostanzialmente all'indocile pertinacia dei legittimisti. Cosa che fu verificata nei cento giorni. Non c'era ponte, che dal mondo sommerso, in cui vivevano e si agitavano i legittimisti, conducesse al cuore del popolo. Quando il bandito dell'Elba osò il colpo avventuroso, quell'abbagliante trionfo della potenza del genio, quell'evento della storia moderna che più ancora della guerra dei sette anni trasporta irresistibilmente al culto degli eroi; allora «una rivoluzione dei sergenti e del povero popolino» scoppiò in tripudio incontro all'imperatore della plebe. Appetto a un Artois e un Blacas egli parve davvero l'uomo della libertà, appetto ai clienti delle baionette straniere l'eroe della nazione. Solamente la classe media pensante e calcolante si tenne in disparte covando il rancore: essa conosceva il despota, presentiva nuove guerre, nuovi scompigli al benestare. Ma per poco che Napoleone fosse invece, come arguiva l'astuto Fouché, ritornato nel 1820, chi sa che i peccati della Restaurazione dentro e fuori la Francia non avrebbero spinto tra la nobiltà imperiale anche il ceto medio, e preparata all'imperatore una vittoria duratura? Fatto sta, che il despota rivoluzionario era nemico del feudalismo insieme e del liberalismo, e noi non possiamo in nessun modo stimare, insieme col nipote, una tal situazione come un giusto mezzo prudente e ragionevole. Un uomo come lui, noi non lo giustifichiamo col servile luogo comune, che un'età di partiti in lotta deve necessariamente finire nella monarchia assoluta. Cotesta proposizione è una verità solo rispetto ai popoli la cui forza morale è spenta. Come mai tornerebbe adeguata una tale discolpa al còrso, il quale ha coonestato fino alla noia la propria azione con le pecche dei francesi, eppure giorno per giorno lavorava sistematicamente a tirare al grande tutti i difetti di quel popolo? Quanto diverso effetto si era ripromesso dal proprio ufficio Cromwell, il quale, come ebbe afferrato il timone, si adoprò con leale sforzo a produrre uno stato di libertà, un _settlement_ alla nazione! Il carattere a due facce, vero a metà, del bonapartismo si tradisce in modo sorprendente nell'attitudine incerta di Napoleone davanti alle idee del suo tempo. Ora egli dileggia gl'ideologi, ora li teme, ora sente di essere quel che è soltanto in virtù della Rivoluzione e di dover la propria grandezza alla potenza generatrice di quella terra madre; ora in fine si sforza costantemente di soffocare, secondo il costume dei despoti, il libero pensiero. S'indovina facilmente, con quanta comodità cotesto sistema, che presenta egualmente la faccia da due lati, può essere sfruttato proprio dagli agili epigoni; oggi adescando i democratici all'esca dell'eguaglianza dell'impero, domani infatuando i letargici borghesi con lo specchio abbagliante di quel regime imperiale, che tiene a freno «l'anarchia degli spiriti, la più terribile nemica della vera libertà»! E finalmente al bonapartismo, che non ha mai patito penuria di frasi ben sonanti, rimane ancora l'ultimo spediente: pigmei come noi siamo, vediamo sempre un lato solo dell'imperatore, non ne vediamo mai per intero la gigantesca figura. II. Al giudizio storico sereno la politica estera di Napoleone compare di gran lunga più infelice, quantunque proprio quella costituisse per lui stesso il contenuto più importante della sua vita. Tutti i suoi ritrovati civili non gli servirono che di sgabello alla gloria militare. Il nipote non ci convince, quando contesta tale verità e, per combatterla, si richiama al noto fatto, che Napoleone non portava sciabola, e che in ogni occasione dava sempre la precedenza ai magistrati civili sui generali dell'esercito. Ebbene, Cromwell portava la sciabola del comando, e, fino alla morte, tenne le contee nemiche sotto il comando del suo generale maggiore. Ciò non ostante, il dittatore inglese è uno statista, un supremo magistrato civile appetto al soldato Bonaparte. Egli era un pacifico borghese salito ai fastigi del potere come capo di un partito, e portava la spada solamente per condurre il partito alla vittoria definitiva, per comporre le contese intestine, per fondere i tre regni in un unico potentato e affidare l'elevazione della propria patria alla forza direttiva del protestantismo. Nemmeno per un momento perde di vista la meta, che era quella di stabilire un governo pacifico e libero; salvo che, tra le turbolenze della sua breve signoria, non gli fu dato di raggiungerla. Non così Bonaparte. Soldato nelle midolle, tradisce lo spirito del reggimento anche durante il colpo di stato. «Ricordatevi», esclama minaccioso, «che io marcio accompagnato dal dio della vittoria e dal dio della fortuna». Nei suoi sogni passavano immagini abbaglianti di lotta e di vittoria; egli medesimo confessa, che lo schieramento dei reparti e dei reggimenti della sua armata gli procuravano un più profondo godimento, che non forse l'opera del poeta o del filosofo. Quando a Sant'Elena pendeva tra la vita e la morte, descriveva con eloquenza come nel mondo di là avrebbe ritrovato Annibale e Federico, Kléber e Desaix, coi quali avrebbe parlato del mestiere, _notre métier_: ed è morto con la parola _armée_ sulle labbra. Egli non ha avuto il compito, finché visse, di domare provincie sediziose, come l'ebbe Cromwell, né, come questo, ha trovato un paese dal credito scosso, che bisognava ricondurre al posto dovutogli nel mondo. Fin dal 1801 avrebbe potuto mantenersi negli onori della pace, e mantenere lo stato ad un'altezza, non mai prima raggiunta, di potenza e di gloria. Solamente la sua volontà, il suo spirito di conquistatore lo trascinò di nuovo di vittoria in vittoria, il suo istinto soldatesco gl'ingiunse d'interrompere il corso dell'ordine civile coi tribunali militari, e di soffocare con guerre senza fine la libera vita economica appena sul germoglio. Perciò tenne fino all'ultimo l'esercito sotto il proprio entusiasmo, quando già da tempo la nazione si era straniata da lui. Perciò, quando tornò nei cento giorni, fitte schiere di sottufficiali congedati lo accolsero con acclamazioni frenetiche per le scale e le anticamere delle Tuileries: quell'esercito di lanzichenecchi era il popolo di Napoleone. Perciò nella poesia di tutti i popoli è celebrato in figura di un gran principe guerriero, come Attila e Gengischan, laddove il filosofo, l'uomo, il re Federico viene sovente glorificato dall'arte come l'eroe delle genti. I puri monarchi vivono nella memoria degli uomini come legislatori e fondatori di stati, perché ancora più grandi in pace che in guerra. Il poeta svevo glorifica l'aquila di Federico, che copre con le sue ali d'oro gli abbandonati, i senza patria. Il nome di Napoleone sonerà all'orecchio delle generazioni venture come il fischio echeggiante delle palle e il rimbombo del cannone. La guerra fu economicamente e moralmente la forza animatrice del suo governo: economicamente, perché col modesto sviluppo del benessere interno il bottino dei paesi stranieri offriva l'aiuto indispensabile a sostenere la dispendiosa amministrazione burocratica; moralmente, perché egli sapeva, e il pretendente Luigi Bonaparte lo ha sovente confessato, che le aspirazioni di libertà si potevano stordire solamente con la pompa guerriera e la gloria. Era un dominatore troppo grande per concepire che un regno potesse sostenersi senza entusiasmo e passione. Ma il solo entusiasmo, che egli stesso sentiva e che solo tollerava nell'anima dei suoi schiavi, era il fanatismo per la sua propria grandezza e per la gloria delle armi francesi. Era cotesto il pathos del suo trono. Il mondo ora sa, e qui di nuovo la parola torna a proposito, che Napoleone si reggeva sulle passioni pericolose dei francesi. Non è a dire la corruttela che fomentava nella nazione il fragore di guerra dell'impero, e come penetrassero profondamente nella quiete dei focolari francesi la sopraffazione, lo spirito di avventura, la smania di avere e di dominare. Ogni moderazione, ogni pietà verso le istituzioni tradizionali doveva necessariamente inaridire dalle radici in una generazione, che aveva abbattuti tanti troni, disfatta la fortuna di tanti popoli, e aveva celebrate coteste vittorie con gioia frenetica, mentre fra i vincitori uno solo sapeva i guai che costavano. Abbiamo riconosciuto come una delle cause essenziali dei mali interni dello stato lo scarso senso del diritto dei francesi. Altrettanto minor comprensione la nazione finora ha mostrato del diritto dei popoli stranieri. Quel po' di senso che ancora ne sopravviveva alle guerre di rapina di Luigi XIV e della Convenzione, andò sommerso nell'ebbrezza delle vittorie dell'impero. Sembra sovente, come se i nostri vicini sentissero in segreto la verità, che cotesto popolo privilegiato ha operato davvero genialmente, da creatore, quasi soltanto in guerra. In tale cieca voluttà della guerra tutti i partiti s'incontrano. Pei radicali è cosa stabilita, che la democrazia armata della Francia sia la sua costituzione naturale; pei legittimisti Chateaubriand assicura: _la France est un soldat_: in questo paese la libertà deve nascondere sotto l'elmo il suo berretto rosso. Lo stesso Lamartine, che è uno dei più inflessibili nemici del bonapartismo, pure racconta pateticamente, che alla rivoluzione della libertà è succeduta la controrivoluzione della gloria; e con compiacimento vediamo, che nell'opera sulla guerra, scritta dall'apostolo della pace Proudhon, spunta cento volte, attraverso i moniti pacifisti, l'entusiasmo per la _phénoménalité de la guerre_. La ragione e l'equità ammutiscono, perfino il contegno vien meno al popolo del _bon ton_, non appena gli guizza davanti agli occhi il fantasma della _gloire_. Tutta la Francia giubilò, quando Napoleone ammassò nelle sale del Louvre i tesori di arte delle nazioni, e nessuno mosse biasimo che egli, come un tempo il romano gli dèi dei vinti, avesse rapito per la Francia l'immagine della madonna di Loreto. Ma un grido d'indignazione corse il paese, quando gli alleati ridomandarono i tesori predati; e ancora oggi il catalogo ufficiale del Louvre racconta con morale disdegno, come vergognosamente i Prussiani nel 1815 saccheggiassero le collezioni imperiali. L'intenzione, che dopo la battaglia della Belle-Alliance ebbe il nostro Blücher, di far saltare il ponte di Jena, è biasimata senza eccezione da tutti gli storici tedeschi. Noi ringraziamo il cielo, che il tratto brutale non ebbe compimento, e che la gloria dell'eroe ci è rimasta pura di quella macchia. Ma il francese pensa della gloria ben altrimenti. Nel museo di Versailles è esposto il quadro di Vafflard sulla _gloire de Rossbach_. Quest'opera eterna il fatto, che sul campo di battaglia di Rossbach i soldati francesi ridussero in frantumi il monumento della vittoria; e il pubblico contempla soddisfatto l'eroica gesta della grande armata. L'ardente ambizione guerresca di questo popolo era ringagliardita fin dal tempo antico da una particolare aberrazione della fantasia nazionale, che possiamo chiamare il romanismo dei francesi. Da lungo tempo il genio della nazione si è con decisa gelosia alienato dagli elementi germanici, ai quali pure la Francia va debitrice di una gran parte della sua grandezza. Sieyès espresse semplicemente un comune pregiudizio nazionale, quando dichiarò la guerra ai nobili alemanni, tiranni dei civili galli e romani: anche il freddo Guizot sa raccontare meraviglie dello _esprit gaulois_. Nella nazione regna tuttora fissa la credenza, che la Francia sia l'erede delle antiche tradizioni romane. Qui tocchiamo uno dei più delicati segreti della nazionalità. Noi germani non comprendiamo facilmente per quale magia demoniaca la grandezza dell'antica Roma agiti ancora oggidì il cuore dei popoli latini. Le gloriose memorie della storia romana, che per noi sono un oggetto di fredda indagine erudita, per quelli serbano tuttora la potenza di una viva realtà: circa un millennio e mezzo dopo la caduta dei Gracchi, il gran nome _tribunus plebis_ ha potuto gittare in passionate agitazioni il popolo neolatino. La romanità presta anche ai francesi alcuni tratti caratteristici, che rispondono alla loro propria natura: la boria nazionale, l'ambizione militare, la rigida unità statale. La storia di Roma, sfigurata come è dalle scuole dei retori dell'antichità, esercita col suo pathos eroico un'azione di rapimento sopra un popolo, la cui fantasia è sempre stata più retorica che poetica. Gli astratti modelli di virtù degli annali romani si conformano compiacentemente allo stilizzato e coturnato incesso della scena francese. L'esempio luminoso della dominazione universale di Roma ha singolarmente sedotto la vanità dei francesi. Questo popolo non sa dimenticare, che un tempo, presso la Senna, Giuliano fu levato sugli scudi dalle sue legioni, e che da Parigi iniziò la conquista del mondo. _L'univers sous ton règne!_ acclamavano al Re Sole i raffinati poeti cortigiani. La coscienza della corte e del popolo si è sempre scaldata allo splendore dei Cesari. La nazione non è stata mai così soddisfatta, come quando ha ritrovato il proprio orgoglio signoreggevole incarnato nella figura di un grande sovrano. Anche del primo re borbonico l'iscrizione del monumento al Ponte Nuovo dice: _Henricus magnus, imperator Galliae._ Un Voltaire, abbagliato dalla gloria cesarea di Luigi, striscia tutto in ammirazione nella polvere davanti al nemico mortale della libertà di fede degli ugonotti. Luigi Napoleone espresse l'anima della maggioranza della nazione quando una volta gridò a Lamartine: «Noi dobbiamo tutto a Roma, tutto, fino al nome». Cotesto vano baloccarsi con le antiche reminiscenze ebbe un nuovo rigoglio durante la Rivoluzione, per ciò appunto, che gli eroi repubblicani dell'antichità furono prediletti e celebrati e scimmiottati: pudibondi eroi di virtù, incedenti sui trampoli, senza carne e senza sangue, quali Plutarco li ha descritti e Rousseau levati al cielo. In ogni club si ergeva un Catone, un Bruto, un Aristogitone in berretto rosso, e domandava che fosse pronunziato il _videant consules_, se mai la repubblica non fosse per incorrere nelle forche caudine. L'Anacreonte della ghigliottina spediva con sconci lazzi le sue vittime alla morte. Pindaro Lebrun cantava in ampollosi peani la gloria della repubblica. I bravi allobrogi danzavano in Savoia la carmagnola intorno all'albero della libertà, e la dominante repubblica prendeva sotto la sua protezione le repubbliche figlie di Batavia, di Partenope, della Cisalpina. Se il culto cesareo dell'antichità menò alla morte della libertà, noi nello sfatto catonismo dei giorni repubblicani possiamo riconoscere il sintomo della stessa vanità, dello stesso morbo politico. Allora come ora la nazione trattava con la fantasia le rigide bisogne della politica, crapulava in vuoti fantasmi di sogno, delirava per particolari personaggi, invece d'intendere a mente pacata le istituzioni date, e di perfezionarle. Proprio così: il catonismo della rivoluzione non può non apparire a un occhio sincero altrettanto falso e caricato, quanto il culto cesareo del tempo dei Borboni. Perché, se era inevitabile che andasse in iscena, poteva almeno scegliere una parte, che rispondesse al talento del mimo. Per contro, nel leggero sangue gallico non scorre una sola goccia di modestia e pietà romana, di stoicismo catonico. Soltanto nelle nature solitarie e affatto originali l'avversione alla facile maniera di amare e di vivere propria della nazione provoca uno stoicismo rude e tutto personale. Da tali Catoni, da un Carnot, da un Cavaignac, sono derivati quei giudizi, troppo spesso ripetuti, sull'incurabile corruttela dei francesi: giudizi, che per ciò son privi di ogni valore, perché nessuno è autorizzato a pretendere da un gran popolo, che muti di carattere come di un vestito; nessuno è in diritto di domandare a un uomo ardente e geniale, che conduca la vita di un santo stilita. L'enfasi teatrale dei retori repubblicani era del tutto ipocrita e innaturale. A confronto con quella, il rinnovamento dell'antico culto cesareo, che riprese i suoi diritti sotto Napoleone, sembra un ritorno alla natura. Anche in questo caso verifichiamo con orrore, quale fosse la sicurezza diabolica con cui l'imperatore conosceva le debolezze del suo popolo. Espresse egli il principio, che nell'azione e nella parola bisogna sempre operare sulla fantasia degli uomini; e il discepolo di Talma seppe stupendamente occupare con pomposi spettacoli la fantasia della nazione. Né si vergognò di rappresentare anche esso la sua parte nella mascherata politica: già imperatore, rivestì il tarlato uniforme di console per passare la rivista sul campo di Marengo; al campo di maggio andò in tricot e mantello antico. Perfino quando cadde dal trono, egli da attore consumato si aggiustò ancora una volta la toga in pieghe pittoresche: «come Temistocle», scrisse al principe reggente, «cerco asilo al focolare del popolo inglese». Commediante, commediante! borbottò papa Pio, quando l'imperatore lo lasciò, dopo una scena retorica di forza. I caricaturisti inglesi del tempo, con occhio sicuro, penetrante nel punto debole dell'avversario, rappresentano il piccolo Bony come uno smargiasso da teatro. Il linguaggio fanfarone dei suoi bollettini e dei suoi proclami, modellato per metà sul largo pathos degli eroi ossianici, e per l'altra metà sulle reminiscenze dell'enfiatura dei discorsi della Convenzione, sembrava creato apposta pel più vano dei popoli. Sapeva con tocco e tatto da maestro cavar fuori dalla storia romana e ridare la vita precisamente alle immagini, che parlavano al cuore della «democrazia armata» della nuova Francia. Distribuì ai suoi reggimenti quelle aquile, che il condottiero democratico Mario aveva date alle legioni romane, e che il monarca democratico Cesare aveva portate attraverso l'orbe. La nazione si conformava con sciagurato ardore all'immoralità della Roma imperiale. Il senato di Tiberio non disse nulla più servile della parola di quel Daru, che gridò ai tedeschi: «la volontà dell'imperatore è irrevocabile come il fato», o di quei consiglieri di stato, che dichiararono al dominatore: «Voi sarete apprezzato degnamente dagli avvenire; state troppo in alto, per essere compreso dai contemporanei». La nazione in principio era realmente entusiasmata: i suoi più cari sogni, essa li vedeva effettuati; ché, dopo le splendide campagne dell'imperatore, specialmente dopo la battaglia di Austerlitz, i Galli sembravano davvero gli eredi dei Cesari romani. Le guerre di Napoleone, del pari che le spedizioni dei Cesari, non erano guerre puramente di conquista. Difficilmente capita ai tedeschi di parlare con imparzialità di questa parte della storia francese; giacché non sanno dimenticare, che la Francia arrivò all'altezza dell'egemonia del continente appunto camminando sul dorso della nostra patria. Ma un giudizio sereno converrà, che in fondo i nostri vicini non erano mossi esclusivamente dagl'ignobili motivi della pretensiosa cupidigia d'impero. Per questa nazione il far propaganda è un bisogno. Essa vuole avocare a sé e accentrare tutte le idee dell'Europa, e pensa che il mondo si creda in debito di accettare da lei con gratitudine tutti i pensieri, tutti i capricci che le balenano nella mente, «Se la Francia è contenta, tutto il mondo è tranquillo»: con queste parole Napoleone III nel suo famoso discorso della pace a Bordeaux toccò un tasto, il cui suono non ripugna a nessun orecchio francese. E mai quest'orgoglio, questo istinto di propaganda ingrossò così potentemente come allora, quando la Francia la fece finita col feudalismo più che qualsiasi altro popolo, e, conformemente al carattere schematico, antistorico della sua cultura moderna, si sentì chiamata a spandere sul mondo i benefizi della civiltà. La vanità dei francesi attribuì la caduta violenta del vecchio mondo non già alla circostanza, che presso di loro l'antico sistema era più fracido che non fosse mai stato altrove, ma alla forza geniale e all'ardimento dello _esprit gaulois_. È noto, quale strumento incomparabile la propaganda rivoluzionaria abbia trovato in Napoleone, e con quale abilità magistrale egli abbia stimolato all'estero l'opera della Rivoluzione, spinta con lo stesso vigore con cui l'aveva riconosciuta in patria. Nella politica estera come nell'interna deve una parte della propria grandezza alla nullità e cecità dei suoi avversari. Egli, capo di un assolutismo moderno riorganato, combatteva, infervorato della sua propria grandezza e con la forza del genio, contro nemici, che seguivano una politica di gabinetto non meno egoistica della sua, ma codarda e discorde, senza l'entusiasmo dell'eroe, senza genio, e aggravata da tutte le iatture dell'antica ingiustizia feudale. Così egli è stato effettivamente, come lo dichiarano tutti i francesi e lo stesso Proudhon, la spada della moderna idea, meno per quello che ha creato, che per quello che ha distrutto. Un mondo di simulacri di stati, sparpagliati, abbandonati dalla fede, dall'amore dei popoli, circondava le frontiere della Francia e rovinò sotto il rigido artiglio del conquistatore: l'Europa per guarire aveva bisogno del despota. Forse questa missione di Napoleone come precursore dei nuovi tempi si manifesta nel modo più magnifico nel paese, dove tutta immutabile la tradizione gli si rovesciò contro immediatamente: nella Spagna. Qui il domatore della rivoluzione dové dire in verità: «io sono la Rivoluzione, io!». Dove il suo braccio arriva, nascono le nuove constitutions _régulières_, come egli con espressione caratteristica scrive una volta a suo fratello Gerolamo. Egli riconosce gli organismi statali solamente dove gli ultimi rottami del feudalismo sono caduti. È stata un'età portentosa quella che sulle sue spalle alzò l'eroe; e se l'immagine dell'imperatore nella sua situazione storica si mostra pure così demoniaca, anche in questo è però la ragione, per cui l'istinto infallibile della posterità, che i panegirici non ingannano, gli ha rifiutato il nome di Grande. La giustizia della storia garantisce cotesto onore solo a quegli eroi, che con la loro grandezza personale sollevano in alto un'epoca meschina, un popolo rozzo; non lo accorda ai fortunati, che furono portati essi medesimi da un'epoca opulenta. Gli alleati del conquistatore livellatore sono gl'impulsi ideali del secolo ampiamente diffusi. Nelle grandi classi popolari, come, per esempio, nella folla della media cultura e nella burocrazia, la quale coscientemente o incoscientemente accede dovunque allo spirito del bonapartismo, il desiderio dell'eguaglianza costituisce la più potente di tutte le tendenze politiche. Il dominio napoleonico, avendo reso instabili le frontiere di tutte le nazioni e dati all'onda tutti i rapporti politici, ha esteso assai lontano di là dalla Francia la credenza fatale, predominante ormai nella cultura media degli uomini di oggi, che noi viviamo in una età affatto nuova, in completa rottura con la storia. Nei discorsi dell'imperatore risuona assai spesso l'eco di una superba gioia pel tramonto dei poteri legittimi. Egli raccoglie con cura le lettere sottomesse, che gl'inviano gli ansiosi principi di Europa, e si pasce dello spettacolo delle maestà striscianti nella polvere. Quando, contro l'antichissima norma prudenziale dei conquistatori, copre d'ingiurie i principi e i ministri delle corti straniere, allora non parla in lui solamente l'uomo passionato, il soldato rude, ma anche il plebeo. Dalla più parte dei gabinetti non era riguardato altrimenti che come il rivoluzionario sul trono. Persino uno Stadion ha nutrito per lui l'odio del patriota e del gentiluomo. Lo czar Alessandro, al quale proprio Stein aveva inculcato l'alto sentimento della lotta per la libertà, ricadde già durante la guerra nelle antiche idee di corte e salutò Gentz come il cavaliere del legittimismo, che con la più fiera ostinatezza aveva combattuto l'idra della rivoluzione. Le colpe delle potenze legittime dopo la caduta di Napoleone ebbero sul continente lo stesso effetto, che ebbe in Francia la cecità dei Borboni. Ai popoli Napoleone parve di nuovo un eroe della libertà. Per altro bisogna dire, che la politica estera di Napoleone rispose alle potenti passioni e tradizioni dei francesi e spianò la via ai nuovi tempi. Ma anche qui si scopre la situazione bifronte, non facilmente discernibile, del bonapartismo, il quale di rado dice una bugia che non contenga un granello di verità, e anche più di rado una verità non commista a una forte lega di bugia. Chi guarda più addentro, scopre subito tratti caratteristici non francesi nella politica europea dell'imperatore, e si accorge che questa s'impigliò con folle accecamento tra le razze del carro del secolo trascorrente per la sua via naturale. Per gl'imparziali quest'ultima rimane l'impressione prevalente. Sul trono di Francia Napoleone era uno straniero. Tutti i palliamenti e i travisamenti degli storici compiacenti non tolgono via il fatto, che la madre di Bonaparte gliene voleva, che a Pontenuovo la libertà della Corsica fosse soccombuta alle armi francesi. Chi vede per la prima volta uno di quei rilievi che rappresentano l'imperatore in costume romano, ha bisogno di alquanto discernimento per accorgersi, che lì effettivamente non sia affatto configurato un romano. Si considerino i lineamenti classici di cotesta testa di Augusto, quanto poco ha di comune coi piccoli crani celti; si consideri soprattutto lo sguardo fermo di cotesto occhio potente, in cui non è proprio nulla di quel lume instabile che tremola negli occhi dei francesi. L'imperatore non ha posseduto né apprezzato lo _esprit_ della bella Francia; la forza e la profondità della sua passione sono schiettamente italiane; tutto quanto il suo essere e il suo sentire sembra ai francesi troppo _entier_, d'un pezzo. Orgogliosi, molti italiani salutarono il compatriota come un imperatore romano, che le legioni galliche avevano levato sugli scudi. Molti patrioti côrsi dell'antica scuola videro nel domatore della Francia il vendicatore dell'isola natia. Egli stesso in altri tempi e per quel tanto tempo che era capace di serbarsi a un solo amore, aveva scritto lettere ardenti a Pasquale Paoli ed elaborato una costituzione della Corsica con folli disegni per liberare la patria dai francesi, i quali, «sputati» sulle sue sponde, vi avevano distrutto insieme con la libertà la semplicità dei costumi. Ma come si destò in lui la coscienza della sua forza, si rise della patria e delle sue piccole bisogne. Il côrso fu un eroe della Francia solamente perché la Rivoluzione apriva un libero campo di azione alla sua potenza prodigiosa. In altre circostanze egli si sarebbe servito indifferentemente di qualunque altro paese come sgabello della propria grandezza; tanto è vero, che durante gli anni dell'ambizione ancora insoddisfatta vagheggiava l'idea di mettersi al servizio della Russia o della Turchia. Ma la corona della suprema gloria di sovrano è dovuta soltanto agli eroi nazionali, nella cui immagine un intero popolo celebra e ritrova magnificamente la propria esistenza. Tra quelli sarebbe stato da annoverare Napoleone, se avesse dominato il mondo con forze italiane; perché in lui s'incarnò un antico sogno dell'anelante aspirazione dell'Italia: il «Principe» di Machiavelli. Come imperatore dei francesi egli non è altro, che il più grande dei venturieri senza patria della storia. I francesi hanno acclamato le sue vittorie e lo hanno adorato come un dio; eppure egli non incontrò mai quella simpatia profondamente cordiale, che in altri tempi salutava ogni facezia e ogni galanteria, ogni atto di mala creanza e ogni atto magnanimo di Enrico IV. Né sui sentimenti intimi dell'imperatore deve illuderci l'assicurazione patetica, che a Sant'Elena ebbe sulla bocca: «io ho molto amato il popolo francese». S'intende bene, che abbia apprezzato l'ardente ambizione guerresca della nazione come un prezioso strumento dei propri disegni; ma ne giudicò le magagne con la fredda penetrazione di uno straniero, e la sua politica europea venne presto a provare, che un senza patria governava la Francia. Già da secoli gl'interessi e le tradizioni del paese assegnavano limiti ben determinati alla politica avida, smaniosa di conquiste, della corona. Ma in verità l'ambizione cesarea di Luigi XIV non mirava al completo dominio mondiale. Con la conquista, egli si proponeva di mutare il proprio reame in una fortezza inespugnabile, signoreggiare con una dinastia da lui dipendente la Spagna, in modo che non vi fossero più Pirenei, sostituire in Italia all'influenza dell'Austria e della Spagna la propria, e fare del Mediterraneo un lago francese. Se in tal modo i popoli della razza latina si fossero raccolti sotto l'egemonia francese, noialtri saremmo stati tenuti in iscacco dalla forza riunita delle nazioni latine, i piccoli stati tedeschi subordinati alla benevola protezione della corona francese, spezzato il dominio marittimo dell'Inghilterra. Questi disegni hanno sostanzialmente fissata la politica francese nella storia moderna, e sono in ogni tempo riapparsi, sostenuti dal plauso della nazione. Essi minacciano nel modo più grave la libertà del mondo, perché lo scopo a cui tendono non è irraggiungibile, se i popoli germanici non si tengono di continuo sull'attenti. Con ciò la Francia non sarebbe la dominatrice immediata del continente, ma la «corte esorbitante», la potenza preponderante sulla terraferma. Molti atti della politica napoleonica e, il che è abbastanza significativo, i più popolari in Francia, si sono mostrati fedeli a coteste vecchie tradizioni: tale l'ostinata lotta per la così detta libertà dei mari, tale la vendita della Luigiana al Nord-America, un colpo da maestro dell'imperatore, tale anche la costituzione della confederazione renana. Nella sua celebre lettera al principe primate Dalberg dell'11 settembre 1806, Napoleone definisce l'accettazione della dignità di patronato sulla confederazione del Reno un atto di politica conservatrice, il riconoscimento giuridico di una situazione di fatto esistente da secoli. Noi tedeschi non possiamo leggere senza amarezza questa mezza verità, schiettamente bonapartistica. È impossibile, purtroppo, smentirla come una bugia intera; giacché in realtà la confederazione del Reno non era che il compimento di quella vergognosa dipendenza, che i signori spirituali e temporali dei nostri paesi del Reno, i Wittelsbach, i Fürstenberg, i Galen, avevano stabilita già da gran tempo. Ma la politica estera di Napoleone non si attenne a cotesti principii tradizionali; in grande e nell'insieme essa è un abbandono arbitrario dell'antica e sperimentata politica nazionale. Quando ogni esercito dell'Europa andò in frantumi ai colpi del conquistatore e il mondo parve stendersi davanti a lui come una sconfinata e nuda pianura in attesa dell'edificatore, la Francia gli era indifferente come forse qualunque altro popolo. L'impero dell'occidente, a cui egli sognava, poteva sostenersi soltanto mercé sacrifizi di ricchezze e di sangue, pei quali la potenzialità della Francia non era abbastanza adulta. Persino le provincie bellicose del nord e dell'ovest finirono col maledire l'avidità di conquista del dominatore. Bisognò trascinare incatenati i coscritti ai reggimenti e, sull'esempio delle dragonate di Luigi XIV, indire gli alloggiamenti nelle case dei genitori degli ascritti alla leva disertori. Il popolo oppresso dal peso dei balzelli salutò gli alleati al grido: _à bas les droits réunis!_ La nazione distrusse con radicale durezza la vita peculiare delle sue provincie; e la comprensione delle nazionalità straniere le è sempre mancata del tutto. Ma quando la voglia di conquista dell'imperatore vagò fino all'Adriatico e al Baltico, anche lì, in mezzo a quel popolo spregiatore della storia, principiò a farsi udire forte il quesito, se il dipartimento delle Foci dell'Elba si sarebbe annesso all'impero con la stessa condiscendenza, con cui la Provenza aveva tollerato di sommergersi, trasformata in dipartimento delle Bocche del Rodano, nella piatta unità del regime francese. Sì; chiunque guardava un po' lontano riconobbe, che alla fine il nuovo impero di Carlomagno avrebbe infallibilmente annientato la nazionalità francese. L'imperatore volentieri si vantava, che la Francia sarebbe una nazione-sole circondata da nazioni-satelliti, e dichiarò ai vassalli, che i loro stati esistevano solo mercé la Francia e per la Francia. Singolare accecamento! La peculiare civiltà della Francia, come quella di ogni altro paese, era destinata a sparire in una nuova civiltà mondiale dell'occidente, non appena il grande sistema federativo sarebbe stato un fatto compiuto, e a Parigi sarebbe sorta l'Accademia europea _pour animer, diriger, coordiner les institutions savantes de l'Europe_; quando vi sarebbe fiorita quella letteratura mondiale, che Napoleone raccomandava al nostro grande poeta, e sulla Senna una Corte di Cassazione europea avrebbe spianato le contese del continente. Il disegno dell'impero mondiale napoleonico era tutt'altro che francese, e ciò che Napoleone intendeva per Europa, lo proclamerà fino ai tempi lontani la potente rampogna del poeta tedesco. Enrico von Kleist gridò al difensore di Saragozza, che aveva fermato la rabbia del torrente che, putrido come la peste, scatenato come l'inferno, ha schiantato l'edifizio di sei millenni augusti. Il prigioniero di Sant'Elena si compiaceva di affermare, che l'idea della Santa Alleanza era stata rubata a lui; che egli appunto si era proposto di fondare una santa alleanza dei popoli, una pacificazione del continente in tal conformità, che per l'avvenire non fossero possibili in Europa se non guerre civili. Col fatto, l'impero mondiale di Napoleone avrebbe essiccato irreparabilmente i frutti squisiti della storia moderna, quella ricca varietà di forme nazionali, in cui risiede la superiorità della civiltà europea. Era una menzogna ciò che il detronizzato asseriva, che, cioè, egli con un Fox si sarebbe inteso: nessun britanno, che fosse un vero britanno, avrebbe potuto ammettere la durata di cotesto impero mondiale. Se il secolo decimonono si gloria, che mai prima del suo avvento l'infinito diritto della vita nazionale nello stato e nella chiesa è stato compreso con più chiara coscienza, tanto più le guerre napoleoniche ci appaiono non altrimenti, che come l'ultima gigantesca esplosione di quella politica di gabinetto del secolo decimottavo, la quale, sprezzando ogni diritto e ogni nazionalità, trattava i popoli come pedine, secondo l'umore dei regnanti. Ben a ragione i popoli ravvisarono subito nell'imperatore non altro ché il despota, il reazionario, che criminosamente si maneggiava per impastoiare il libero sviluppo di ogni vita nazionale. Egli stesso, l'imperatore, si compiacque di questa parte durante la sua ultima lotta disperata: nel 1813 rivide in sé stesso il domatore della rivoluzione, chiamato a cacciare gl'ideologi della Germania del pari e della Spagna. Perseguitò con odio personale ogni moto popolare. Furono innumerevoli i liberali tedeschi e spagnuoli che incatenò al remo come briganti. Ed è tanto comprensibile, che nelle singole corti gli organi dell'assolutismo aderissero a Napoleone, quanto è naturale, che aderisse a lui la burocrazia degli stati della Confederazione del Reno, e perfino alla corte di Berlino il partito del conte Voss. Il tramonto dell'imperatore fu la conseguenza della lega tra le potenze legittime, che odiavano il borghese portato su dalla Rivoluzione, e i popoli, che dalla caduta del despota si ripromettevano la libertà. Ma in questa guerra la forza motrice fu l'elemento popolare. Il vanto della vittoria appartiene a quegli uomini, che secondo il consiglio di Stein combatterono la Rivoluzione con le sue stesse armi, cioè scatenarono l'istinto di libertà di tutte le energie economiche e morali dei popoli. Subito dopo la vittoria, riprese il sopravvento quella grettezza di spirito, la quale con Gentz badava sopra tutto a che la guerra di liberazione non diventasse guerra di libertà. Ogni difesa deve tacere davanti all'odio enorme, che spinse milioni di uomini sotto le bandiere contro l'imperatore. L'italiano lo chiama «d'ogni Dio sprezzatore»; e chi annovera le mille e mille maledizioni dei migliori tedeschi contro il dilapidatore della fortuna dei popoli, il castigo di Dio dei tempi moderni? Cotesto stato d'animo dei popoli rimase immutato quando Napoleone tornò dall'Elba ed era già salutato come liberatore da una parte dei francesi. Certo, la proscrizione dell'imperatore, decretata nel congresso di Vienna, cotesta decisione cannibalesca, come la chiamano i napoleonidi, era una stridente offesa al diritto delle genti; ma chi la ideò era tutt'altro che un perverso; fu Stein, né vi fu un solo tra i nostri patrioti, che ne prendesse scandalo. Durante la guerra del 1815 l'astio legittimista contro il giacobinismo militare era generalmente considerato come l'idea direttiva delle corti, anche più che non fosse due anni innanzi; ciò non ostante, anche quella campagna fu combattuta dai soldati prussiani con l'entusiasmo ardente di una guerra di popolo. Quanto ai benefizi, che Napoleone diceva a Sant'Elena di avere avuto in mente a pro dei popoli ingrati, parole che suo nipote oggi pateticamente ripete, per noi tedeschi ogni discussione seria è chiusa. A Versailles fa bella mostra un quadro: «l'imperatore beneficante la Prussia orientale». V'incontriamo i nostri compatrioti della vecchia Prussia in figure sommamente sospette. Un popolo boreale di barbari in pesanti pellicce, con tanto di barbe, il cui tipo etnologico è dubbio, ma è indubbia la prossimità del polo. Tra la folla di cotesta _race inférìeure_ si avanza con maestoso passo da palcoscenico, e con un cenno altamente tragico del braccio, l'imperatore, e dietro a lui il seguito riccamente e ornamentalmente incivilito. Un gentiluomo della Prussia occidentale, che si era fermato con me davanti al faceto dipinto, disse ridendo: «Bisognerebbe condurre i bonapartisti davanti a questo quadro. Allori forse capirebbero il perché i nostri padri erano abbastanza rozzi per ricambiare i benefizi dei neolatini col calcio dei loro fucili». Vediamo con tristezza, che un uomo della levatura di Napoleone III si compiace di un'estimazione così grossolana ed esteriore della grandezza storica, e colloca giù, molto al disotto dello zio, un Cromwell, un Federico. Certo, il genio di Federico ha conquistato al proprio regno non più che due provincie, e la sua attività pacifica fu circoscritta nel breve àmbito di una grande potenza in formazione. Eppure, sui pilastri piantati da Federico le generazioni successive hanno eretto pietra sopra pietra; e l'edifizio, che egli iniziò, un giorno garantirà con le sue solide torri l'intera Germania. L'opera di Napoleone si sfasciò fragorosamente sotto le mani del costruttore, non certo per tradimento o capriccio della fortuna; andò in malora per la sua stessa irragionevolezza, come un peccato originale contro lo spirito della storia. Il dominatore salì rapido sul firmamento delle costellazioni politiche, come un pianeta che col vivo splendore oscura intorno le stelle; ma solo per poche notti, poi il mite lume degli astri che seguono in pace la propria via riprese il suo diritto. Napoleone dissipò le sue migliori energie in intraprese impossibili. È così: noi con stupore verifichiamo, che la sua grande politica ubbidiva soltanto all'impressione del momento, alla passione, all'impulso sempre e d'un colpo rinascente del genio. Volentieri si vantava: «il mio padrone non ha cuore: questo padrone è la natura delle cose». No: cotesto padrone era l'arbitrio. Noi cerchiamo invano nella sua azione un disegno determinato, mantenuto rigidamente attraverso tutti i casi e le vicende, come, per esempio, l'idea dell'ellenizzazione dell'oriente, che fin dal principio splendé promettitrice nell'animo di Alessandro, o come il pensiero di uno stato tedesco autonomo del settentrione, al quale Federico consacrò la vita. Egli inizia il proprio dominio col sentimento intimo di una prodigiosa potenzialità, e, come davanti a lui s'inabissano pietosamente i governi marci degli antichi stati, corre avanti senza posa di trionfo in trionfo, meditando disegni sempre nuovi e sempre smisurati. Nella sua anima lavora l'elaterio al meraviglioso, all'inaudito, all'immenso. Presto, più presto che non si dica comunemente, già fin dai giorni del Consolato, nella sua mente è fisso il pensiero di essere chiamato a dominare il mondo. Nessun successo, per quanto splendido, basta alla folle ambizione. «I popoli oggi sono illuminati, non c'è più nulla di grande da fare», disse malinconicamente il giorno dell'incoronazione. «Alessandro poté chiamarsi figlio di Giove Ammone, e tutto l'Oriente gli credé: qualunque pescivendola mi riderebbe sul viso, se volessi spacciarmi per figlio del Padre Eterno!». Un mortale di rado è con tanta energia vissuto dell'idea, che il vivere sulla bocca dei posteri sia la meta più alta dell'azione su questa terra; e appunto questa idea, che fu il supremo principio morale del mondo antico, designa anch'essa l'imperatore come figlio genuino dell'antico popolo italiano. Non mai un uomo fu con tanta sicurezza compenetrato interamente della coscienza della grandezza del proprio tempo. «Io non voglio vedere questa nuvolaglia di nani, perché le parti collaterali agli avvenimenti del presente bisogna cercarle nella storia e non già nelle gazzette dell'ultimo secolo. Ora è venuto il tempo di grandi mutamenti»: così scrisse allo czar nel 1808, dopo l'Egitto e Marengo, dopo Austerlitz e Jena. Il suo spirito ricorda la natura dei tropici. Come questa con inesausta potenza produttiva matura ogni giorno alla luce nuove e meravigliose forme gigantesche per poi annientarle d'un colpo sotto mostruosi uragani e terremoti, così egli, potente nel creare, era più terribile ancora nella distruzione di quanto aveva allora creato. «Tutti quanti devono stare sull'attenti, al loro posto; solo io so ciò che devo fare», scrisse una volta. E senza dubbio possedé in sommo grado il dono di elaborare indefessamente un'idea fino alla fine, la tenacità e la perseveranza, che inculcava ai suoi ministri continuamente, come le prime virtù dell'uomo di stato. Seppe mirare al suo scopo, secondo i singoli casi, con freddo calcolo, con astuzia impenetrabile o, se era necessario, con la pazienza dell'agguato, senza farsi mai da circostanze accessorie sviare dal nocciolo della questione. Poteva, per quanto la fantasia gli errasse in distanze incommensurabili, vivere pure con la precisione di un povero computista per la pratica del momento, come se non ci fosse mai un domani. Ciò non ostante, nessuno è autorizzato a dire a vanto di Napoleone, che l'opera della sua vita sia stata sistematica. Piuttosto, come il suo sistema era intimamente tanto pesante e oppressivo, perché di continuo le eccezioni turbavano la regola, così la sua politica estera riusciva intollerabile al mondo principalmente per ciò, che ogni sorgere di sole poteva portare il rovesciamento dell'ordine costituito. Cotesto angoscioso sospetto dell'imprevedibile condusse nell'ora più critica la Porta a conchiudere con la Russia la fatale pace di Bucarest; perché chi garantiva, che il sultano della Francia non sarebbe per allungare il suo braccio anche sul Bosforo? Quale lunga filza di stati efimeri, tutti cotesti regni di Berg, di Etruria, di Westfalia, prima messi su, e poi subito soffiati, o rimaneggiati nei confini! Tutta quanta la sua politica non è che una vicissitudine, come la sabbia sulle dune. L'imperatore lusinga contemporaneamente le corone di Prussia e di Svezia con la Pomerania, quelle d'Inghilterra e di Prussia con lo Hannover. Oggi pensa di mediatizzare il Nassau, domani offre a quella Casa la presidenza della dieta dei principi della Confederazione del Reno. Nel 1805 dichiara solennemente, che l'impero non estenderà oltre le sue frontiere; e la parola è appena pronunziata, che Genova viene annessa. Nello stesso anno promette, che per l'avvenire la corona d'Italia rimarrebbe separata da quella di Francia; due anni dopo rimangia la promessa. A Tilsit scrive allo czar, e allora senza dubbio con tutta serietà, che il suo dominio diretto non avrebbe mai oltrepassato l'Elba: tre anni dopo l'annessione di Amburgo «è offerta dalle circostanze». Dopo abbassati i re legittimi, spoglia i propri fratelli. Le discolpe di una tale sregolata cupidigia di regni suonano sempre impudenti, grossolane, frivole: l'Olanda è un'alluvione dei fiumi francesi, l'Italia è il fianco, la Spagna l'appendice della Francia. Ogni vittoria innalza cotesta bollente fantasia a più arditi voli, inebbria l'insaziabile con sogni sempre più bramosi. Durante l'insurrezione di Spagna, se la cavò così: «io posso trovare in Ispagna le colonne d'Ercole, non già i limiti della mia potenza»; e quando l'intera penisola era irta di armi, un divampo terribile dello spirito nazionale minacciava di annientare i francesi, e perciò tutte le ragioni immaginabili della politica e della strategia consigliavano all'imperatore di rovesciare le sue forze riunite sulla Spagna, proprio allora l'irrequieto principiò le beghe con la Russia. E non appena accenna in Russia al primo successo, egli già medita di trasportare sul Volga la propria base di operazione, e d'un balzo prodigioso precipitarsi sull'India inglese. Quando infine, come un povero fuggitivo, prese fondo a Fréjus, egli disse al fido Augereau: «l'Asia ha bisogno di un uomo!». Anche nelle imprese di grandezza degna di un vero uomo di stato, è sorpreso da disegni fantastici, oppure guasta egli stesso l'idea geniale con la veemenza della sua passione. La spedizione di Egitto fu indiscutibilmente ispirata da un'idea degna del più grande uomo di stato, fu schiettamente francese, conforme allo spirito dei tempi più felici della politica borbonica. Eppure, durante la stessa traversata si arrischia alla presa di Malta, una conquista a vantaggio dell'Inghilterra, e non appena le schiere dei Mammalucchi vanno dispersi davanti ai suoi battaglioni, il vincitore ritorna alle sue mappe con gli occhi ardenti, e già cova il disegno di rinnovare l'impero romano di oriente. Un istinto infallibile lo spinge a fermare la pace con Roma; ma a furia di burbanza e di durezza caccia invece la Curia nelle braccia dei suoi nemici. Il trattato di Tilsit, opera di sottilissima conoscenza degli uomini e di lucido calcolo, genera sull'istante propositi fantastici: l'imperatore pensa di conquistare insieme con lo czar Costantinopoli e spingersi avanti in Asia: sproposito colossale, che non sarebbe dovuto venir mai in mente a un sovrano francese! Parimente, la guerra doganale all'Inghilterra è fondata sopra una potente idea economica, e noi ci spieghiamo il perché i protezionisti convinti esaltano il duca di Gaeta come il List francese. Ma subito, l'odio contro l'Inghilterra spinge oltre ogni misura l'imperatore, fino all'annessione dell'Olanda, fino a uno strozzamento del commercio che significa disprezzo delle leggi economiche del mondo moderno; e il suo arbitrio dispotico manda l'opera a rotoli. Egli chiude le barriere della Francia alle industrie degli stati vassalli, mentre questi avrebbero dovuto accettare l'importazione francese: incongruenza, per cui evidentemente la grande politica commerciale europea è spacciata. La sovrana e fredda chiarezza nell'esecuzione del fatto particolare viene in tal modo soffocata da una passione tanto precipitosa, dall'orgia dei disegni cangianti. La sua audacia e il suo orgoglio o, come egli stesso si esprime, la sua magnanimità, gli comanda di respingere tutte le proposte vantaggiose di pace. Perfino sul campo di Lipsia sbraciava che avrebbe arso Monaco e serbato l'impero, che tra le buone città annoverava Amsterdam, Roma e Amburgo. III. Principiamo a dubitare se a cotesto genio, che non conobbe misura in nulla, spetti un posto tra le vere grandezze storiche; e i nostri dubbi crescono, quando il volto dell'eroe lo penetriamo più acutamente negli occhi. La povertà del linguaggio, già da un pezzo avvertita dolorosamente dai più profondi spiriti, soccorre poco o nulla al disegno dei ritratti morali. Nelle nature moderne si mescolano contraddittoriamente mille tratti sottili, e il nostro occhio, che da tempo si è assuefatto a seguire con sensibilità raffinata coteste delicate sfumature del colore delle anime, cerca indarno le parole rispondenti alla profondità nostalgica dell'osservazione psicologica. Non suona risibile il dire, che il più grande uomo del secolo, in fondo, era senz'anima? Eppure cotesto assurdo bisogna esprimerlo. Quell'elevato intelletto, la cui potenza e penetrazione e sicurezza sopravanzavano di tanto la misura dell'umano, non ha mai condotto lo sguardo nell'intimità misteriosa dell'esistenza, non ha mai sospettato, che l'essenza dell'uomo sia ben altro che una macchina ben ordinata, che un popolo anche sotto una rigida amministrazione e con finanze irreprensibili e soldati agguerriti possa sentirsi infelice fino alla disperazione. Tutto ciò che è più nobilmente personale nella vita degli uomini e dei popoli, il mondo dell'ideale, gli rimase incomprensibile. Il vasto mondo discerneva le ragioni della sua caduta, egli solo non le capiva; perché, come mai il senza patria avrebbe capito, che ai popoli anche l'inciviltà patria è più cara della civiltà straniera? Ponderiamo bene questo fatto, e ravviseremo la terribile verità nel folle detto di Blücher: «lasciatelo fare, egli in fondo è un minchione». La fertilità della fantasia del côrso sopravanza i più temerari sogni poetici. I suoi piani di guerra sono giganteschi. Quale disegno, quello che meditò nel campo di Boulogne! La sua flotta doveva attirare nelle Indie quella inglese, poi ritornare, sterminarla nella Manica e aprire la traversata all'imperatore! e, subito dopo, la corsa gloriosa dalla Manica al Danubio! Eppure quest'uomo, non ostante la sua fantasia inesauribile, non è che una natura prosaica. Dell'orgia di cose belle, in cui ha lussuriato il secolo decimottavo, assai di rado ne è filtrato un raggio in quel cuore: appena per poco lo hanno occupato i dolori di Werther o Ossian. Nella lunga serie delle lettere si cerca invano un luogo, che palesi un diletto disinteressato, umano, dell'arte e della scienza. Affermi pure egli stesso di tanto in tanto, che qualche amico leale della verità c'è, ed è da cercarsi forse proprio tra gl'ipocriti, ai quali si dà il nome di persone colte: nulladimeno, non crede alla nobiltà dell'anima umana. Tutti i pensieri ideali sono per lui «romanzi», abbastanza opportuni pei proclami e i discorsi a stampa. Perciò in lui, come in tutte le nature scettiche, non esiste sviluppo: il suo procedere nella lotta della vita è duro e feroce, e in sostanza non corre differenza alcuna tra l'alunno del collegio militare e l'imperatore. Si ascolti ciò che diceva dei francesi il giovinotto di ventitré anni: «sono un popolo invecchiato, senza connessione intima; ognuno pensa solo a sé; vivere alla propria famiglia con 5000 lire di rendita, ecco la suprema saggezza». Si legga ciò che della condotta sempre più dispotica del giovine eroe racconta Lemercier, commensale quotidiano di Giuseppina alla Malmaison, e si raffronti coi discorsi sprezzanti del dominatore del mondo sulla «canaglia». Quale desolante uniformità in cotesta personalità così grande! Quale incanto, all'opposto, seguire le aspre lotte spirituali che educarono all'eroismo il pio padre di famiglia Cromwell, la dolce e bella anima di Federico! Il giudizio degli uomini si è formato sull'uno e l'altro incomparabilmente più favorevole, da quanto abbiamo volto l'occhio alla loro vita intima nella raccolta di Carlyle e dell'accademia di Berlino. Dalle lettere noi riceviamo di Napoleone un'impressione ben diversa: è decisamente bassa la natura che ci viene incontro. È impossibile non ammirare quest'uomo immenso, ma è anche più impossibile amarlo. Alcuni momenti poté sembrare irresistibilmente amabile, quando tirava un pocolino il lobo dell'orecchio a un granatiere: le maniere avvincenti dell'uomo demoniaco hanno incantato anche un Goethe. Egli può ciarlare e fantasticare in quelle ore di obblio di sé, che non mancano nella vita di nessun uomo: ciò non ostante, il suo cuore rimane diaccio, chiuso a ogni tenerezza. Nelle lettere brevi e brusche a Giuseppina, che egli amava alla sua maniera, la povertà e l'aridità dell'animo ci ribellano. Quando vuol separarsi dalla moglie, incarica il figlio, il principe Eugenio, di condurre le trattative con la madre e di sostenere la separazione davanti ai poteri costituiti dello stato. Si è mai più empiamente giocato coi sentimenti sacri? Egli non conobbe mai vera amicizia, e tanto meno quella tendenza poetica a crearsi un'immagine ideale del proprio ambiente intimo, la quale riserbava al gran Federico tanto tormento e tanta felicità. Nelle sue parole e nelle sue azioni si riesce difficilmente a scoprire anche un sol tratto, che possa dirsi semplicemente nobile. Quelli che all'occhio superficiale sembrano tali, sono invece patetici colpi di scena, poggiati con astuto calcolo sulla stupida credulità della folla. Fin dal principio germinava in quell'anima un istinto brutale, violento. Amava il terrore, sparso alla maniera giacobina. «Il mondo deve sapere di che cosa siamo capaci», esclamò dopo l'esecuzione del duca d'Enghien. Per lui era un gusto raggiungere i suoi scopi con durezza e crudeltà inutili, a principiare da quel piccolo 18 brumaio, che gli procurò, allora giovine ufficiale, la carica di comandante della guardia nazionale, fino al grande 18 brumaio e a tutte le innumerevoli barbarie durante l'impero. Cotesto modo violento bisogna anzi riconoscerlo in lui anche nella condotta della guerra: egli riordinò, non smise punto il brutale procedimento di guerra dei giacobini. Non era affatto propenso a risparmiare i propri mezzi; riportava le sue vittorie col peso delle masse schiaccianti, con crudele indifferenza pei caduti. Non esiste in lui nemmeno il sentore di quella elevatezza, che rischiara come un'aureola il capo dei veri imperatori; tanto meno quel garbo fine che viene dal cuore. Era una natura volgare, che si abbandonò senza vergogna e senza gusto agl'istinti della libidine e dei perversi capricci. Stando alle descrizioni del sassone Odeleben, quale odioso feroce spettacolo offriva il suo quartier generale nel 1813! L'imperatore che medita cupamente presso il fuoco di guardia, minaccioso e imperioso in ogni tratto; intorno a lui in ampio cerchio, con bisbigli timidi, il seguito; e di botto scoppia un precipitoso _à cheval_! Movimento nella truppa stupidita: un incrocio di quelle grasse parolacce, di cui l'esempio imperiale aveva fatto il pascolo comune, corre su tutte le bocche, da quella del maresciallo a quella dello stalliere; e il drappello balza via selvaggiamente, a precipizio. Sono inesauribili le sue invettive contro il _gaillard_ e _archifou_, il re di Svezia, contro la _vieille bête_, il re di Sassonia, e via dicendo. Lanciava oscenità plebee perfino sul viso delle dame che non poteva soffrire. Anche Federico II ha perseguitato i suoi avversari con crudeli epigrammi; ma, come accade alle nature spiritose, nei suoi motti arguti e spietati provava una soddisfazione estetica ignota a Napoleone. L'odio inestinguibile che schierò contro Napoleone uomo le più nobili donne tedesche, Luisa di Prussia, Amalia di Weimar, Carolina di Baviera, dispensa dall'insistere oltre. Chi vuole scusare le grossolane contumelie dell'imperatore con la sua veemenza passionale, consideri con quanto poca dignità sopportò il cambiamento del destino. Egli conosceva l'arte rara di vuotare il calice della fortuna fino alla feccia, di seguire ogni vittoria fino all'ultima presa del successo. Solo una volta, nell'ora del trionfo, l'umana debolezza sfiorò anche cotesti nervi di acciaio: alla Moscowa gli venne meno la risoluzione d'inseguire il nemico battuto. Ma se sapeva profittare del favore della fortuna, non la concepiva pesante a portare. Quando il mondo era ai suoi piedi, non sdegnò la goffa millanteria né il gusto del male altrui, che son propri dell'avventuriere comune. Egli era in carattere, quando raccontava ridendo ai capi scoronati dell'antico regime: «al tempo che ero un semplice luogotenente di artiglieria...», oppure quando invitava il principe Guglielmo di Prussia alla caccia alla lepre il giorno dell'anniversario di Jena. Se nelle udienze dava le spalle ai principotti della confederazione renana con un assai spicciativo _ancienne connaissance_, o se lanciava al re di Baviera il suo tonante _il faut, il faut!_ certamente egli dava ai servi solo ciò che loro spettava: ma un siffatto contegno non annunzia alti sensi. Alle formalità dell'etichetta l'uomo geniale badava grettamente, come un lacché insignorito: non seppe perdonare mai al re di Prussia di essersi presentato a Tilsit in tschacko e con un paio di baffetti sul labbro. E bisogna convenire che anche meschina e volgare fu la sua politica di famiglia, la sollecitudine pei più indegni dei suoi parenti, che non proveniva da amor fraterno né giovava ai suoi disegni di signoria mondiale. Anche più significativo è il suo comportamento nella sfortuna. È nota la scena di Dresda, quando Federico Augusto di Sassonia aspettava in anticamera l'imperatore ritornato improvvisamente dalla Russia. Per causa di quell'uomo, centomila uomini giacevano sepolti sotto la neve, e mai il destino aveva parlato così spaventosamente. Ma egli entrò nella stanza canterellando una canzonetta parigina: il satrapo doveva intendere, che l'animo del re dei re non era intaccato. A Smorgoni, a Lipsia, alla Belle-Alliance, tre volte era fuggito abbandonando, tutt'altro che cavallerescamente, l'esercito. Federico II era deciso a non sopravvivere alla rovina dello stato; eppure chi avrebbe giudicato vergognoso, che un paese di cinque milioni di anime soccombesse all'intera Europa collegata? Napoleone dettò la legge al mondo, e quando l'impero gli andò in pezzi, non ebbe l'animo di espiare con una nobile morte la sua colpa enorme. È ridicolo scusare una tale pusillanimità coi luoghi comuni della religione cristiana. In verità, non furono punto i pensieri religiosi quelli che trattennero l'imperatore dall'estrema risoluzione eroica. Chi ha tenuto fermo il piede sulla nuca a mezzo mondo, non dev'essere misurato col regolo dei teologi. E poi, quale indegno spettacolo, cotesta vita del prigioniero di Sant'Elena! Piglia coi custodi atteggiamenti pietosi per farsi credere un martire in Europa, e davanti ai compagni mentisce come mai nessun uomo ha mentito. Cotesta menzogna incarnata è un altro fatto che slontana l'imperatore dalle figure dei veri imperatori. Lo stesso Cromwell appetto a lui è un uomo semplicemente veritiero; eppure il Protettore, come tutti gli eroi del fanatismo religioso, non era affatto immune da quei misteriosi moti dell'inganno di sé, che collimano con l'ipocrisia. Nessun uomo di stato nella storia ha proclamato con tanta impudenza, come Napoleone, le teorie dell'immoralità politica: «in guerra tutto è morale; la politica giustifica tutto». È inutile notare ancora una volta, che la menzogna è stata una delle più forti leve della politica napoleonica, a principiare dalla prima campagna d'Italia, in cui il generale Bonaparte illudeva in mala fede il re di Sardegna con la suggestione del possesso di Milano, fino ai cento giorni, quando Napoleone si profondeva in proteste di pace, e già aveva firmato il proclama con cui chiamava il Belgio e i paesi renani a mostrarsi degni di essere francesi. Noi arriviamo più in là, e affermiamo, che l'imperatore nell'ebbrezza dell'autodeificazione si lasciò andare anche a bugie senza scopo. Quale scopo politico poteva egli avere, quando assicurò dopo la battaglia di Lipsia al re di Sassonia, che avrebbe condotto solamente una marcia di fianco e sarebbe tornato in tre giorni? Al suo orgoglio era impossibile confessare la disfatta. Anche le sue osservazioni storiche sulle gesta degli altri dimostrano che il senso della veracità era interamente negato a quell'anima: con pronta comprensione egli si forma sui fenomeni storici un giudizio tutto suo, e i fatti più notori sono tirati sbrigativamente sul filo di questa opinione preconcetta. Lo sbandito si voltava a guardare gli avvenimenti, che nella descrizione più semplice avrebbero destato la meraviglia di tutti i tempi, e la portentosa caduta, che annunziava con mille lingue il governo dell'eterna giustizia. In una situazione siffatta avrebbe imparato la veracità chiunque non avesse avuto ogni vena avvelenata dalla falsità. Eppure egli ha mentito, sempre mentito; ha cercato, come un _miles gloriosus_ di Guascogna, di esagerare ancora perfino l'insuperabile; non ha saputo trovare una sola parola di giustizia pei suoi nemici, e ha pronunziato in fine quella falsità colossale, che suona inconcepibile perfino sulla bocca stessa del maestro delle menzogne; l'affermazione: «io ho sempre disprezzato tutte le ciarlatanerie!». Quale distanza dalla _Histoire de mon temps_ del nostro gran Re! Anche quest'opera si propone di cattivare il giudizio dei lettori ai fatti compiuti dell'autore: egli tace qualche cosa, come si addice a un uomo di stato in azione, e aggruppa qua e là gli avvenimenti secondo lo scopo. Eppure non si riscontra in nessun luogo una sola falsità surrettizia. Una elevata sicurezza dell'anima permette al re di riconoscere acutamente e apertamente i propri errori; e tratta i nemici secondo la sua massima indimenticabile: «diminuire i propri avversari è viltà». Contemplando questi tratti caratteristici, Napoleone ci appare come una grandezza impura, come l'eroe del perfetto egoismo, e la sua opera come la completa conferma del detto orribile: «io sono solo me stesso». Salvo che questo egoismo era geniale, entusiasta e capace di entusiasmare e trasportare milioni d'uomini. IV. Se ora ci domandiamo quali sono i frutti sopravvissuti all'azione di cotesto potente, riconosciamo che gli rimane la gloria di avere non già, come dicono i suoi adulatori, iniziata e compiuta dovunque in Europa la lotta contro gli avanzi del feudalismo, ma di averla incommensurabilmente accelerata e facilitata. «Solo l'atmosfera moderna può soffocare il feudalismo», soleva egli dire con conoscenza sicura dei segni dei tempi. Salvo cotesto benefizio, la sua opera rispetto all'Europa sembra vana, assurda. Della sua grande politica il tempo ha ammesso solamente quei risultati che egli non si era proposti. Subito dopo la sua caduta, i popoli restituiti a sé stessi si misero di conserva per una via, che correva direttamente opposta alla via della politica napoleonica. L'impero era stato l'impero della guerra. La classe media pacifica si fa avanti immediatamente dopo Waterloo, e la spada cede all'aratro. Una tacita congiura di tutti i popoli intreccia mille legami di relazioni amichevoli intorno al mondo; le nazioni stabiliscono quel «regno della ragione», che Napoleone esaltava a parole e attraversava coi fatti. La grandezza insanguinata dell'impero, ai figli di un tempo più umano voltisi indietro a guardarla, apparve come l'ultimo spaventevole divampamento delle passioni ferine, che nei tempi andati avevano sconvolto l'Europa; come un avvertimento, che il bruto sonnecchia anche nell'anima dei popoli provetti nella civiltà. Napoleone volle condurre in lizza la terraferma contro l'Inghilterra. Non appena fu caduto, una benefica necessità, ad onta dei reciproci pregiudizi nazionali, provocò quella intesa delle potenze occidentali, che fino a oggi non è stata più rotta in modo duraturo. Egli aspirava a un impero e a una civiltà mondiale. La sua fine dimostrò, che in questa libera fratellanza delle nazioni indipendenti non c'è posto per un cesare, e che da allora tutti i popoli hanno con più profonda coscienza custodito e perfezionato il proprio carattere nazionale. Il nipote dà all'imperatore il vanto di aver gettato in Italia e in Germania il germe del movimento nazionale. Oh, senza dubbio, il cavallo brutalmente frustato, che s'impenna e si slancia al largo, deve la libertà all'imprudenza del cavaliere! Per la stessa ragione Napoleone merita la gratitudine dei nostri patrioti. Egli adempì quella necessità, che noi allora con le nostre proprie forze non eravamo in grado di compiere; egli mise in frantumi qualche centinaio di staterelli imputriditi e le forme esanimi del santo impero o, come dice ammirativamente il nipote, liberò la Germania meridionale dal giogo del sacro romano impero, e degli stati sovrani centrali si fece un baluardo. La Prussia ringiovanita crebbe nella lotta contro di lui, e crebbe quella passione nazionale, che prima di tutto distrusse l'immediata dominazione straniera, e non avrà posa, finché non avrà annientato anche la sovranità di tutte le corone della Confederazione renana. Così Napoleone ha svegliato l'orgoglio nazionale dormente dei tedeschi, che doveva abbatterlo; così ha collaborato all'unità Germanica, che egli abborriva, ma riteneva verosimile. Parimente fu per l'Italia l'uomo del destino, quantunque disprezzasse i propri connazionali e fin dal principio della sua carriera immettesse nella città delle lagune l'Austria vinta. Spazzò via gli stati decrepiti, raccolse a Lione i migliori uomini del paese in un consiglio di comune politica; distrusse le antichissime antipatie particolaristiche col fatto, che i vicini sempre in ruggine tra loro dovevano pure adattarsi nelle moderne satrapie francesi, e ai popoli effemminati diede la gloria guerriera e l'orgoglio, che un italiano dominava l'Europa. E così operò per l'unità italiana, che odiava e che considerava come un'utopia. In Ispagna la lotta contro Napoleone ridestò un'altra nazionalità in letargo. L'imperatore donò ai polacchi un mezzo stato, e occasionalmente nella guerra con l'Austria chiamò i magiari sotto le armi; ma in nessun modo è dimostrato, che in questo o in quel paese desiderasse un così gagliardo sviluppo delle energie nazionali, quale poi seguì più tardi. Nei Paesi Bassi consolidò l'opera benefica della rivoluzione, l'unità statale, mercé le istituzioni monarchiche non meno necessarie; solo che subito abbatté egli stesso il proprio edifizio; e, dopo la sua caduta, salì al trono la monarchia nazionale degli Orange, da lui odiata. La Svizzera ricevé dalla sua mano l'atto di mediazione. Se non che anche questo, che senza dubbio rappresentava la migliore costituzione che egli avesse dato ai paesi stranieri, era però un peccato contro la natura delle cose, perché rimoveva la neutralità del paese profondamente connaturata col carattere di equilibrio degli stati europei. Infatti, subito dopo la pace la neutralità della confederazione elvetica fu più solidamente ripristinata. Per tal modo in quasi tutti i paesi di Europa la storia ha effettuato l'opposto dei disegni napoleonici. Dopo la battaglia di Aspern, mentre l'imperatore nel castello di Ebersdorf giaceva in un cupo sopore, i marescialli a bassa voce si consultavano come mai l'esercito sarebbe arrivato al Reno, se egli non si fosse svegliato. Essi presentivano la verità: la politica europea di Napoleone era il ghiribizzo tracotante di un cervello geniale; e di necessità sarebbe andata a rotoli, non appena due occhi si sarebbero chiusi. L'impero, che nella storia del continente è stato un breve e terribile episodio, ha avuto rispetto alla Francia una conseguenza duratura. Certo, l'èra della Rivoluzione non era chiusa, come potevano vantare anche i panegiristi del dominatore. Venne l'ora, che nessun bottino attirava più la cupidigia del servo della gleba, il timore davanti all'onnipotente era dileguato, l'entusiasmo comune per lo stato militare era sbollito nelle battaglie infelici, il legame innaturale tra l'antica nobiltà e la napoleonica si scioglieva. Allora il liberalismo rialzò il capo; Lainé domandò il ripristinamento dei diritti tolti al popolo. Napoleone ritornando aveva rotto egli stesso il bastone nel proprio governo interno: «il genio ha lottato contro al secolo, il secolo ha vinto». Nelle ore di meditazione riconobbe la giustezza dell'opinione, che avea sempre nutrita suo fratello Giuseppe: «io sono semplicemente un segnalibri nel libro della Rivoluzione. Essa riprincipierà alla linea dove io l'ho lasciata». Non ostante siffatta confessione, il principe di Metternich errò quando disse: «il bonapartismo senza Bonaparte è impossibile». La parola calza rispetto all'Europa, non rispetto alla Francia. Anche la storia deprezzò le opere dell'imperatore, quando seppellì il suo sistema con tutti gli onori scientifici e paragonò lui con Cromwell. Al Protettore, la cui elevatezza morale ecclissa con la sua luce l'egoismo di Napoleone, pure non fu permesso di dare al suo paese leggi durature. Dopo la caduta dell'imperatore, una buona metà delle istituzioni fondate da lui rimasero in vigore: l'ordinamento dispotico dell'amministrazione e dell'esercito si tenne in attitudine ostile davanti al nuovo sistema parlamentare. Per disgrazia sua e dell'Europa il popolo francese, come già al tempo della Riforma, non aveva preso una posizione chiara e sicura nella lotta di principii dei tempi moderni: nella sua anima contendevano le idee liberali e le cupidigie dispotiche. Se il bonapartismo fosse stato destinato a sparire per sempre, la nazione alla dura scuola del conoscere sé stessa avrebbe dovuto liberarsi delle pericolose passioni, a cui l'impero aveva attinto le sue forze: vanità e gusto violento della guerra, cupidità e smisurato fanatismo di eguaglianza: e preparare al parlamentarismo il solo terreno, sul quale avrebbe potuto gettare radici gagliarde: l'autonomia amministrativa dei distretti e dei comuni. Se di tutto questo non si faceva nulla, era facile ad accadere, che al momento propizio un erede di Napoleone avrebbe afferrato le redini di una società, che era tuttora pregna dello spirito del bonapartismo. V. Non si manifesta punto il senso profondo della scienza storica, quando gli stessi fatti, che pel severo pensatore racchiudono le leggi morali della vita dei popoli, vengono giorno per giorno usati e abusati dalla gente frivola allo scopo di esercitare l'arguzia o di palliare le magagne moderne con l'esempio delle malefatte antiche. Molto tempo prima che apparisse il libro di Napoleone III, era già cosa stabilita pei ciechi ammiratori del primo Napoleone, che l'eroe côrso fosse il Cesare moderno; quasi che Bonaparte in persona non avesse pronunziata il 18 brumaio la felice espressione: «Niente nella storia somiglia alla fine del secolo decimottavo». Un serio senso storico lascia da parte i trastulli comparativi di tal natura, con la semplice osservazione, che Cesare trionfò e Napoleone tramontò, Cesare volle il necessario, Napoleone l'impossibile. Il regno di Westfalia andò in frantumi a un attacco cosacco, e anche gli altri stati vassalli si sciolsero come la neve dell'anno trascorso: l'opera di Cesare ha sfidato i secoli, in forme mutate dura tuttora. E basta il ricordo di alcuni fatti a tutti noti, a dimostrare la diversità sia dell'opera che del carattere dell'uno e dell'altro dominatore del mondo. Il distintivo essenziale dell'incivilimento antico nei suoi tempi gloriosi è l'unilateralità. Anche gli stati dell'evo moderno, che all'osservatore frettoloso appaiono come riproduzioni delle repubbliche antiche, superano infinitamente i loro vecchi modelli per la varietà della propria civilizzazione. La Cartagine della storia moderna era insiememente la culla di Grozio e di Spinoza, e gli stessi mercanti di Amsterdam, che hanno sovente considerato, alla stessa guisa dei punici, il loro stato come una società commerciale, hanno fondato la propria repubblica sulla lotta pei supremi principii spirituali: nei loro fondachi il pensatore perseguitato trovava protezione e ricovero. Per quanto spesso la confederazione degli Etoli sia stata comparata con la Svizzera, altrettanto povero, rozzo, manuale appare a fronte alla patria del calvinismo il paese dei mercenari dell'antichità. Il logoro luogo comune, che denomina gl'inglesi i romani moderni, accusa lì per lì la propria futilità, quando raffrontiamo la magnificenza della poesia inglese con la povertà dell'arte nazionale romana, o la potente attività civile del Parlamento con quel ruvido senato romano, il quale una sola volta favorì un'intrapresa letteraria, e fu quando fece divulgare la traduzione del trattato di Mago sulla coltivazione! Ai popoli ingegnosissimi e mobilissimi dell'antichità mancò d'altra parte la forza di rendere duraturo uno stato in grande stile. Gli antichi non conoscono la società pacifica delle libere nazioni, non conoscono il bello scambio di beni materiali e spirituali tra popoli civili indipendenti. Fino a quando la forza nazionale gli giovaneggia fluida nelle vene, un popolo dell'antichità vuole sottomettere i vicini o annientarli. La vitalità di queste nazioni è potente: durante l'agonia della rivoluzione Roma resistè all'urto dell'oriente sotto Mitridate, e perfino sotto Marco Aurelio Atene vide una rifioritura dell'antico splendore. Ma il ringiovanimento dei popoli malandati dell'antichità non accade punto, come spesso è avvenuto modernamente in Germania e in Ispagna e in Italia, per una libera ricezione ed una elaborazione affatto autonoma degli elementi di civiltà straniera. Le nazioni antiche non mostrano cotesta inclinazione così forte ad assimilarsi la cultura forestiera, se non quando il loro spirito di gioventù è spento e la loro nazionalità si è involata. Questa rigidità arcigna del costume nazionale, questa incapacità del mondo antico ad ammettere un pacifico equilibrio degli stati, spinse avanti il senato romano sulla via della politica di conquista. L'unilateralità della civiltà antica sparve, senza dubbio, quando finalmente i popoli del Mediterraneo ubbidirono alla città italica; ma era morta anche l'energia nazionale dei popoli insieme fusi, e con questa la radice di ogni grandezza ed originalità del mondo antico. In tale mondo non rimaneva posto alcuno per uno stato che fosse nello stesso tempo nazionale e incivilito. La pressione dei governatori fenici ed egiziani, asiatici e greci e, per la misura non certo la meno notevole, quella dei romani, avevano soffocato nel complesso delle provincie ogni sentimento ideale. La civiltà cartaginese era schiacciata. Dei barbari assoggettati, poi, alcuni erano già penetrati dell'umanità nell'impero, altri le stavano davanti così rudi e forastici, che uno stato nazionale costituito da loro avrebbe significato la morte di ogni civiltà. Gli Elleni fin dal tempo di Alessandro avevano cessato di essere una nazione separata. L'ellenismo, incivilitore del mondo, invase e fecondò tutti i popoli, e divenne, come col suo presentimento ben comprese il vincitore di Pidna, la civiltà dell'evo antico morente. La forza della vita nazionale era talmente venuta meno al popolo greco, che un intelligente testimone oculare delle sue ultime lotte, Polibio, arrivò alla terribile confessione: «se non fossimo andati rapidamente in rovina, noi non saremmo stati salvati». Fra tanto tumulto di popoli cadenti, solo Roma eccelleva col suo stato perfetto: la missione del Romano era veramente _populos imperio regere_. Anche l'antica forma nazionale della civiltà romana era inaridita da tempo, tanto che sotto Cesare un ramo straniero latinizzato, quello dei Galli cisalpini, conservava la romanità più fedelmente della stessa metropoli. Principiò anzi ad appassire il vigore fisico dei romani. La capitale, secondo che più tardi la descrisse Dionigi di Alicarnasso, era già da gran tempo la più sociale di tutte le città, la più internazionale. Vi affluivano uomini di tutte le lingue, e accanto ai simulacri degli dèi latini era venerato il dio egizio dalla testa di cane. La cultura greca, i costumi e i malcostumi dell'oriente ellenizzato dominavano la città dominatrice del mondo. Se la massa caotica dei paesi depredati dai romani avesse voluto organarsi in un impero, tutti i popoli avrebbero dovuto intendersela tra loro nelle «nostre due lingue», avrebbero dovuto saziarsi di cultura grecoromana e connettersi insieme nell'identico ordinamento dello stato romano. Ma si era ancora ben lungi dalla meta, e tutta l'opulenza della terra serviva ancora a locupletare una città dominatrice, una città travagliata dalla feccia plebea, senza industrie, senza una borghesia operosa. Le provincie erano ancora soggette a diritti ineguali, abbandonate indifese all'avidità dei vicari di un'aristocrazia senza coscienza. Lo sviluppo dell'impero universale era minacciato da due pericoli: il primo, l'illuvione dei barbari, la quale, se la rilassatezza dell'aristocrazia in Roma fosse durata, avrebbe spazzata ogni traccia della civiltà tradizionale; il secondo, i Greci, che, essendo la nazione più numerosa, più attiva e più colta dell'orbita mediterranea, avrebbero senza fallo, se l'energia di uno stato potente non vi avesse opposto il riparo, impresso all'impero dei Romani un carattere bizantino, invece che romano-greco. Cesare, vero erede delle menti lucide della democrazia, di Sertorio e Gracco, diede con chiara coscienza una completa concretezza al moto di sviluppo inconsciamente iniziato dall'antichità già sul declivio. Egli trasformò un guazzabuglio di provincie, soggette a una città per bisogne servili, in un imperio mondiale di regioni pareggiate giuridicamente; latinizzò le provincie, e col benefizio di un governo monarchico assicurò loro un'esistenza umana. Tutelò l'impero col sistema non mai abbastanza ammirato della difesa offensiva. Quando Cartagine e Corinto risorsero dalle rovine e il senato si aprì agli uomini delle provincie, Cicerone poté invocare a sua posta la rovina alla barbarie invadente: l'impero era fondato, non esisteva più una città tiranna. Proprio secondo lo spirito di Cesare fu pensata la costituzione antonina, che accordò la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'impero mediterraneo; e gloria di Cesare fu quella celebrata dal verso superbo del poeta: _Romanae spatium est urbis et orbis idem_. Egli divenne il fondatore di un impero universale perché fu un romano; perché in lui il genio del suo popolo s'incarnò così puramente, che noi potremmo renderci conto del carattere della nazione romana, anche se di tutta la storia dell'antichità non ci fosse stato tramandato altro che la biografia di quest'uomo. Come già il popolo greco, l'antico ceppo romano gittò le fioriture più gagliarde poco prima d'inaridire, e la sua potenza sopravvive ancora solamente in innumerevoli gemme e polloni. Cesare e Alessandro sono eroi nazionali per questo, che essi compresero il momento che si offriva al loro popolo di mutare la missione nazionale in cosmopolitica. Si raffronti ora l'eroe romano, che con sicurezza geniale, come uno strumento dell'eterna Provvidenza, menò a compimento la missione del suo popolo, con l'eroe senza patria dei nostri tempi, il quale vuol costringere nella forma inventata dal suo cervello un mondo di organismi nazionali in fresco sboccio di gioventù; e si riconoscerà che non si può immaginare un contrasto più stridente. Il côrso distrugge oggi quello che ha creato ieri; il romano procede ponderatamente secondo un gran disegno: estende l'impero non più di quanto richiede la sicurezza delle frontiere, ritorna volontariamente sui suoi passi nel bel mezzo della sua carriera vittoriosa: e, quali si fossero i più ampi propositi che ha portato seco nella tomba, questo almeno ci è lecito affermare con sicurezza: che la follia cesariana di Napoleone non ha mai turbato la sublime calma di quella testa. L'onda della vita orientale frattanto batta pure gagliardamente sull'edificio di Cesare; il mezzogiorno e il levante mediterraneo declinino pure di nuovo verso la civiltà di oriente: il seme dell'opera di Cesare dura. Più fortunato di Alessandro, Cesare ha percorso ad occidente il cammino della storia. Senza di lui e senza l'impero dei Romani, non sarebbe esistita la benefica fratellanza dei popoli occidentali, che oggi si ricompone lontana da ogni convulsione guerresca. Egli assicurò ai popoli stanchi dell'antichità un ultimo respiro di vita piena, prima di estinguersi; e quando in fine i nostri padri fracassarono lo scheletro putrido dell'impero universale, ebbene, essi più non erano stranieri, e tramandarono fedelmente ai nipoti quanto era immortale in quel vecchio mondo. Quando oggi i democratici francesi, amareggiati dal tendenzioso cesarismo dei bonapartisti, maledicono i romani come distruttori della libertà celta, noi rispondiamo: «Voi non sapete quel che vi dite: dovete a Cesare, se voi siete francesi e non già Iri!» E chi può dire, se l'idea dell'impero che, nata nella mente di Cesare, ha sollevato l'anima di tanti nobili popoli, oggi sia morta per sempre? se l'impero non sia per risorgere un giorno in forma più umana, come una libera corte arbitrale sulle nazioni tutte amiche? A noi figli dei popoli giovani gela il cuore, quando ci voltiamo indietro a guardare la Roma imperiale. Un'essenza di vecchiaia è appiccicata all'impero universale. La consolazione delle menti profonde, a cui quel mondo decrepito non può offrire più nulla di grande, è: _Patet exitus_. Guardiamo con fredda calma gli dèi di Tacito caduti a terra, tra le angosce dei mortali. La cultura dell'epoca ricorda le fabbriche di Costantino: anche queste sono suntuose, non senza qualche tratto di grandezza, ma sono costruite di frammenti, di colonne e archi che un tempo servivano a edifizi più belli. Virgilio e Orazio scrivono versi greci con parole latine, e non di rado sentiamo, che cotesti sono frutti di stufa. Nulladimeno, quelle opere costituiscono la più ricca e potente letteratura mondiale che sia mai esistita, e sono tanto originali, quanto può esserlo una letteratura priva di carattere nazionale. Pure non è piccola gloria, se sotto la protezione dell'impero potevano sorgere nell'anima di popoli affaticati creazioni tanto notevoli; se Roma, già sazia da gran tempo delle voluttà e dei vizi di tutti i paesi, si adornava ancora con le grazie artistiche dell'ampio mondo e si copriva di una veste magnifica di marmi e di ori. L'arte mondiale dell'epoca dei Cesari era il frutto naturale maturato dalla dissoluzione di tutte le civiltà nazionali dell'antichità. Napoleone sognava una letteratura mondiale in un popolo, che aveva vantato recentemente, in Voltaire e gli enciclopedisti, scrittori puramente nazionali, e poco dopo salutava poeti anche più espressamente e recisamente nazionali in Béranger e George Sand. Lo stato normale del mondo moderno è la pace. Proprio nel secolo decimottavo, sotto il terrore delle guerre di gabinetto, la dottrina della pace perpetua ha trovato eloquenti propugnatori tra i più nobili intelletti. In questi tempi ansiosi di pace il principe della guerra, Bonaparte, si fece avanti come un disturbatore del corso naturale delle cose; la sua caduta finalmente assicura al mondo ciò a cui anela da tanto tempo. La regola dell'antichità è la guerra. Fintanto che il mondo fu ancora in gioventù, il vivere per lo stato con tutta la forza virile, guardarne e accrescerne la potenza nella lotta contro lo straniero, significò per gli uomini dell'antichità lo scopo supremo dell'esistenza. Lo stato antico dei tempi gloriosi è il popolo sovrano in armi. L'impero porta la pace nell'antichità, disarma i cittadini, avvia l'enorme maggioranza degli uomini a un'esistenza puramente sociale: ai modesti doveri della vita comune, all'attività economica ed intellettuale. La furia della guerra, cantata nella Georgica di Virgilio in modo così terribilmente bello, imperversò ancora sulla terra dopo la morte di Cesare; poi il tempio di Giano chiuse le porte per molto tempo. Senza dubbio, la potenza e la grandezza più peculiari dei popoli antichi doverono rimanere devastate dal fondo, quando sparì la guerra, e sparì con essa l'alta passione politica e, insieme, tutto ciò che fino allora aveva occupato l'esistenza del cittadino. Come stavano le cose, la pace dopo il tramonto della libertà costituiva effettivamente il sommo bene della vita. La giustificazione storica dell'impero è: _Pacis imponere mores_. Certamente anche la pace del mondo antico ci appare feroce ed empia rispetto ai costumi raddolciti dei tempi cristiani, e leggiamo con ribrezzo in quale pieno gaudio di dominio deificato lussuriassero i Cesari e con quali rudi colpi alla nuca costringessero a piegarsi a loro le teste orgogliose dei Corneli e dei Claudi. Eppure, erano venuti tempi tollerabili pei milioni di gente minuta, che ora potevano tirare avanti la loro via con sicurezza. Con le sue parole di contraggenio lo stesso Tacito riconosce in fondo, che le provincie erano contente del nuovo stato (_nec abnuebant_). La vita umana è riconosciuta e risparmiata; una cultura più raffinata penetra fino nei più bassi strati sociali: i borghesi della piccola città campagnuola di Pompei si ricreano all'armonia dei versi di Ovidio. La missione più nobile della monarchia, il principato protettore dei poveri e dei deboli, fu adempiuta dagl'imperatori almeno per quanto la intendeva la durezza di cuore dell'antichità. Quest'era tranquilla della pace portò miglioramenti e invenzioni in tutti i campi del commercio e dell'industria. I barbari, tenuti al largo di là dalle frontiere dell'impero, si conciliarono con gli elementi della civiltà. La strada romana si stende fino alla Britannia settentrionale, sull'Atlante giganteggia massiccio il magnifico tempio della Vittoria di Lambessa, e nelle convalli ombrose della Selva Nera l'altare di Diana Abnoba guarda il lussurioso bagno romano. L'orizzonte degli uomini in questo incivilimento eguale dell'occidente si allarga all'infinito. Seneca sogna già lontani giorni avvenire, «in cui sull'Oceano le chiuse del mondo si levano, le terre si aprono incommensurabili e Tule non sarà più l'ultima». Nello stesso modo come l'impero si allunga fino quasi ai confini del mondo conosciuto, così l'antichità, la quale finora ha considerato l'uomo solo in quanto cittadino, si viene lentamente avvicinando alla grande nozione dei diritti dell'uomo. Nel tranquillo raccoglimento della vita puramente sociale, l'uomo, non pago delle opere di una cultura eclettica che non produce più nulla di nuovo, comincia a rientrare nell'intimo del suo cuore: e finalmente risuona nel mondo affaticato il grido di riconciliazione della creatura col Creatore. Ricordando il clamore di battaglia dei cesariani, l'acclamazione a _Venus victrix_ delle dieci legioni gloriose, ci dà il freddo della nostalgia il pensare quanta magnificenza veniva distrutta dal trionfo dell'imperatore. Ma in fine ci riconcilia la riflessione, che allora si compì un destino irrevocabile, e che tra i mali delle guerre civili era sorto un nuovo ordine di cose, era sorto un mondo al quale noi stessi dobbiamo una buona parte della nostra fortuna umana. Il _vive l'empereur!_ dell'armata napoleonica ci ricorda solo un barbaro accidente, solo l'infinita miseria, che il capriccio di un uomo inflisse al mondo. Presso al cadavere di Cesare vegliarono per tre notti i Giudei di Roma piangendo il protettore degli oppressi. Napoleone stramazzò fra gli urli di vendetta delle nazioni straniere, mentre il suo popolo, che egli stesso aveva disavvezzato dalla libertà operosa, si tenne indifferente in disparte. Come allora giudicarono i poveri di spirito, la storia giudica oggi. È certo che i più prudenti bonapartisti già da un pezzo considerarono in segreto la politica europea di Napoleone I come una partita perduta, sebbene il sistema esiga il culto incondizionato di Napoleone, e proibisca l'espressione palese di opinioni tanto eterodosse. Ma con tanta più ostinazione tengono invece alla tesi, che l'imperatore ha fatto per la costituzione della Francia lo stesso che fece Cesare per lo stato romano. Solo che anche questa comparazione non regge a un giudizio più penetrante. Cesare fu il creatore di una nuova forma di stato, Napoleone ristabilì in Francia l'antica costituzione storica, quantunque non abbia affatto rinnovato tutte le istituzioni dell'antico regime. La forma normale dello stato moderno è la monarchia, quella dello stato antico nel suo fiore fu la repubblica. Gli antichi durante i loro più bei tempi chiamano con perfetta ingenuità la monarchia _servitium_ e la repubblica _libertas_, e un Tacito presenta la più orribile follia della storia antica, l'assassinio di Cesare, come _libertas improspere repetita_. L'infelice parola di libero stato per repubblica, noi la dobbiamo alle antiche tradizioni, alla sapienza politica dei correttori tirati alla classica. Il sentimento degli antichi ricalcitrava alla monarchia con tale caparbietà, che Augusto, più previdente dello stesso Cesare, salvò le apparenze repubblicane, e solo sotto Tiberio il nuovo regime assunse interamente le forme esteriori della monarchia. L'impero di Cesare non fu una restaurazione, come si potrebbe arguire da qualche particolare richiamo alla costituzione di Servio Tullio; fu una creazione nuova e ardita. Quest'opera creatrice chiuse effettivamente l'èra della rivoluzione, come Napoleone non ha potuto fare, e ricondusse l'impero senescente alla forma naturale e duratura. Davanti all'orribile spettacolo della repubblica romana in isfacelo ogni uomo di senso politico diventa, come il vecchio Drumann, «panegirista della monarchia suo malgrado». Chi presume di trovare ancora la libertà repubblicana nei giorni di Pompeo e l'immacolata nobiltà della sedia curule, rappresenta rispetto alla cruda realtà la stessa parte assurda che fu possibile solo a Catone, quando propose di consegnare Cesare ai Germani. Una rivoluzione quasi secolare, la più lunga e la più brutale della storia, aveva minato nelle fondamenta l'antico costume romano. Il sentimento civile era talmente svanito, che nel bel mezzo della guerra contro gli asiatici gli eserciti di Flacco e di Silla erano schierati l'uno di fronte all'altro minacciosi, e la tremenda vittoria dei Parti a Carrhe destò appena la curiosità a Roma. L'aristocrazia, snervata e depravata, si ruppe in esecrabili frazioni, considerando la patria con egoismo vile, come quel Cicerone, che stimava come il fine dello stato la conservazione delle grandi famiglie. Non erano più cittadini, quelli che in veste di proconsoli abitavano nei castelli tirannici delle provincie e decidevano del bene e del male di milioni di soggetti, col dispotismo di altrettanti sultani. Pompeo senz'ordine del senato poté assoggettare il vasto Oriente e suddividerlo a suo piacere in provincie e monarchie. Dal viluppo d'intrighi e di pettegolezzi di cotesta nobiltà chiusa, scoppiava di botto la ferocia ferina, come in quei giorni di orrore, che Tiberio Gracco soccombé ai randelli e ai piedi di seggiola dei nobili Scipioni e Emili, e trecento cadaveri, abbattuti da siffatte armi, coprirono il foro. Un nucleo sano della cittadinanza si serbava ancora fedele alla legge, ma in fine anch'essa fu disfatta dalla coscienza, che il bel tempo antico era spacciato per sempre. Niente è più terribile nelle ultime guerre civili, quanto la mancanza d'ideale sia dall'una che dall'altra parte. L'enorme turba del partito democratico impazzava pel foglio libero, pel comunismo, intendeva la libertà come un tempo era stata intesa a Corcira. I democratici intelligenti erano convertiti all'idea della monarchia. Di nuovo e sempre, sotto i Gracchi, sotto Cinna e Mario, la società cadente rientrava con l'istinto sicuro della disperazione nel cammino della monarchia. Silla stesso poté ristabilire il governo aristocratico con una signoria monarchica transitoria. Pura aristocrazia significava allora la schiavitù del mondo a profitto delle famiglie nobili; pura democrazia significava la signoria del pugno. Roma era salita in virtù della disciplina e della maschiezza del suo popolo; andò a fascio quando l'antico spirito romano sparì. Si pensi alla malattia inveterata della società romana, a quella lotta del capitale col lavoro libero la quale aveva quasi distrutto il ceto medio, ai latifondi e ai branchi di schiavi maltrattati, alla crudeltà di questo popolo, che si ricreava ai rantoli dei gladiatori agonizzanti, alla boria denarosa goffamente primitiva della nobiltà, che nelle opere dei suoi filosofi di moda leggeva soddisfatta che solo la ricchezza è morale e onesta; in fine alla nausea profonda di sazietà con cui quel mondo riguardava ormai la stessa opera propria; e si converrà che cotesta Roma, non ostante alcune somiglianze esteriori, non può affatto venir confrontata con la Parigi del secolo decimottavo; e che i francesi conservavano una riserva di forza nazionale e di orgoglio nazionale, che doveva poi svilupparsi gagliardamente durante la Rivoluzione. A Roma si aggiunga inoltre un esercito, che fin dai tempi di Mario sdrucciolava verso la forma di un corpo di mercenari, ammaestrati alla maniera dei gladiatori, strumento docile del comandante supremo, bramoso di un ordinamento monarchico, condotto da una sanguinosa esperienza all'assoluta persuasione, che nelle contese dei partiti decide la spada. La repubblica era moralmente ed economicamente un'impossibilità. Solo un potere monarchico era in grado di farla finita con la guerra sociale tra povero e ricco, tra servo e padrone, e stabilire una pace tollerabile; e la monarchia doveva essere assoluta. Si sa, che l'antichità non era al caso di liberarsi interamente dal concetto gretto dello stato-città e intendere il senso profondo delle forme rappresentative. Anche i soci, il cui particolare interesse avrebbe dovuto stimolarli al desiderio della costituzione rappresentativa, anche gl'italici, al tempo che il toro sabellico insorse contro la lupa romana nella più spaventevole di tutte le guerre civili, rimasero abbarbicati allo stato-città: l'Italia, lega di città italiche, avrebbe dovuto dominare in luogo di Roma nel modo stesso come Roma dominava. Purtroppo una democrazia degna era inconcepibile negli stati-città fin da quando gl'italici conseguirono la cittadinanza, e la gentaglia delle città campagnuole affluiva alle assemblee sovrane della città dominante. Tale essendo la situazione, non rimaneva che l'assolutismo: il popolo sovrano, come suona la teoria dei giuristi cesarei, ha trasmesso per mezzo della _lex regia_ il suo potere all'imperatore. Noi moderni rimaniamo atterriti davanti a cotesta strapotenza senza limiti, tanto più che non ereditaria, nelle mani di un sol uomo, e siamo in dubbio se onorarla col nome di regalità. Il regime imperiale è la costituzione di una società profondamente corrotta, morente: per giunta l'opera di Cesare fu sconciata dai successori, deformata, contro l'intenzione del fondatore, in uno stato militare. Ciò non ostante, la dominazione degl'imperatori costituisce la sola conclusione concepibile, necessaria, dello sviluppo politico del mondo antico. Non appena _l'empire_ svelò la sua vera essenza, la parte viva della nazione, la classe media, gli si levò contro: Cesare invece aveva combattuto un'aristocrazia decrepita, che portava nel cuore la morte. Nell'impero di Napoleone fermentavano e operavano in segreto le idee costituzionali; la gente illuminata guardava con rossore e con ammirazione la libertà dei popoli anglosassoni. Nella Roma imperiale il fuoco delle idee repubblicane volse lentamente in cenere; nessuno sguardo invido ai popoli forestieri turbò la pace dello stato asservito: Roma era la terra, i barbari non contavano. Napoleone si servì dei partiti repubblicani come aiuto a salire; e odiava i legittimisti come i peggiori nemici della propria dominazione. Cesare era un vero democratico, amava il popolo e avrebbe sdegnato il dileggio napoleonico contro la «canaglia». Sotto la tirannide di Silla ebbe a soffrire per le sue convinzioni democratiche, e il suo odio contro gli aristocratici comprendeva non solo i propri nemici, ma anche i nemici del popolo. Egli legò il proprio potere alla più popolare delle magistrature, al tribunato, e quando da monarca si sollevò, come si addice al genio, sull'unilateralità dei partiti, pure attuò tutti i principii sani del programma democratico. Rispettò la libertà per quanto era possibile; ed è notevole la sua condotta verso i municipi, ai quali serbò la libera elezione delle proprie magistrature. La rivoluzione sociale fu compiuta da lui con prudenza: la distribuzione delle terre, l'abolizione dei requisiti del censo, la colonizzazione oltremarina, la nuova legge sui debiti assicurante la libertà del debitore, tutti questi sono prodotti di una legislazione squisitamente democratica. Napoleone appare inferiore anche sotto questo riguardo. Accettò e ordinò i risultati della rivoluzione sociale già compiuta fino a quello che è il più importante: rifiutò alle classi medie pacifiche la posizione politica, che in una società ispirata ai principii della libera concorrenza le spettava assolutamente. Il mondo sa le macchie attaccate al nome di Cesare. Egli camminò nel fango di una macchinazione iniqua di partito e per molto tempo esercitò il brutto mestiere del cospiratore. Dei lamenti e degli oltraggi che tengono dietro a ogni strappo alla legge, nessuno gliene fu risparmiato. Egli fu costretto ad avere familiarità con avventurieri abbietti, a tollerare a Tapso e a Munda la ferocia sanguinaria dei suoi mercenari. Dové mandare impuniti i misfatti dei compagni e non sdegnare le goffe menzogne dell'usurpatore, affinché il colpo di stato fosse legittimato e i partiti si riconciliassero. Attirò sul suo capo la maledizione del poeta e di tutti gl'idealisti, come l'imprecazione di Catullo: _timete Galliae, hunc time, Britannia_: l'impero che il duce della democrazia fondò, fu semplicemente un dispotismo, fu semplicemente il giaciglio di un popolo infermo. Un terribile guiderdone attendeva la vita dell'uomo che, deificato dal popolo fintanto che fu cospiratore, trovò poi poco amore quando coprì di benefizi il mondo in sua balìa. Ma come Shakespeare picchiettò il suo Cesare con uno spruzzo di piccole debolezze, affinché la grandezza dell'eroe spiccasse più luminosa, così lo storico, quanto più scrupolosamente aduna i punti oscuri della vita di Cesare, tanto più soverchiante vede complessionarsi la figura del primo uomo di stato dell'antichità. Mai più tante cose grandi sono state create pel bene di uno stato nel breve giro di cinque anni; e quali disegni, come l'idea della codificazione del diritto, lasciò Cesare incompiuti! Cesare supera non solo per la fecondità ma anche per la moralità della sua politica l'eroe moderno. Questo conserva e accresce come un capitale a frutto l'ansietà generale dei piccoli borghesi, e getta Parigi nella vertigine dei piaceri per farle scordare la libertà. Quello sdegna di mettere a profitto le più indegne passioni, schiaccia e riduce al silenzio gli anarchici, e per mezzo delle rigide leggi matrimoniali si oppone con tutte le forze all'invadente depravazione morale, per quel tanto che le leggi possono impedire la corruttela dei costumi. _Nullis polluitur casta domus stupris!_ canta Orazio con gratitudine ad Augusto; e in codesta grossa iperbole è però involta la verità, che la morale sotto i primi imperatori era in condizioni meno orrende che al tempo di Catilina. Alleghiamo in fine quello che è il contrapposto più sorprendente nella politica dei due dominatori: Cesare era un uomo di stato, Napoleone un soldato. Sopra abbiamo illustrato il carattere prevalentemente militare della politica napoleonica; aggiungiamo ora un altro tratto singolarmente istruttivo: il giudizio sprezzante di Napoleone sulla guerra dell'indipendenza americana. Proprio in questo si tradisce l'unilateralità del tecnico militare. L'imperatore non comprende, che per l'appunto nell'elasticità della difensiva di Washington, in quella catena di meschini scontri di avamposti e di laboriose discussioni nel Congresso, la sostanza specifica della guerra si rivela come la forma violenta della politica, e che Washington va annoverato tra i grandi condottieri per l'appunto per cotesto, che non era puramente un generale. Cesare conduceva la guerra nello stesso senso dell'americano, salvo che con un genio più fertile. Quando a quarant'anni mutò la toga col manto di porpora, pel primo capitano del tempo la guerra non era stata mai altro che un mezzo: non appena raggiunto lo scopo politico, le armi posarono. Se è pericoloso commisurare tra loro le gesta di Cesare e di Napoleone, ogni confronto dei due uomini nel loro essere umano cade diritto nel ridicolo. Di Cesare è stato riferito, che ripeteva volentieri i versi di Euripide: eiper gar adikein chrê, turannidos peri challiston adikein· talla d'eusebein chreôn (Se è necessario operare contro giustizia, è bello operare contro giustizia per ragion di regno; in tutto il resto è necessaria la giustizia e la pietà). E visse fedele alla massima. Si assunse la colpa enorme; ma non l'avrebbe evitata nessuno, che si fosse proposto di fondare il trono, e di restaurare il mondo nelle sue ragioni. Però davanti alla figura di Cesare uomo ci sorprende sempre come un'emozione nuova lo stupore, che solo in un'epoca simile fu possibile una così pura grandezza. Quel sovrano nato, per quanto erri e pecchi fintanto che vive tra i piccoli uomini come un loro pari, giunto poi sul trono, dispiega tutta quanta la nobiltà della sua natura regale; proprio l'opposto di Napoleone, a cui il godimento del potere infatua il cervello e spinge fuori alla luce quanto aveva di brutto nell'anima. Sopra tutto ci entusiasma il vedere con quanta pienezza e sicurezza Cesare è radicato al suo popolo. Egli spiega la resistenza dei Germani al suo esercito osservando francamente, che «tutti gli uomini per natura aspirano alla libertà e odiano la servitù». L'imparzialità pagana di tali parole dimostra quanto era romano chi le scrisse. Il figlio di un tal popolo sovente a noi moderni si rivela inumano. Solo che a noi non piace udire proprio dalla bocca di Napoleone I il biasimo alla condanna di Uxellodunum e allo scempio degli Usipeti; perché, duro coi barbari alla maniera romana, Cesare ha usato coi compatrioti la bontà di un animo elevato, quale Napoleone non l'ha mostrata pei francesi. Volle essere chiamato il clemente, non già il fortunato, come Silla, o il grande, come Pompeo; e solamente all'interezza armonica della sua personalità, che non permette un risalto prevalente a nessun tratto particolare, bisogna ascrivere il fatto, che la storia gli ha ricusato quel nome. A lui toccò di conquistare mercé l'opera di lunghe guerre il potere, che all'imperatore dei francesi cadde in grembo con un brusco atto di violenza; ma, più umano di questo, ai nemici e agli amici infedeli usò grazia fino all'imprudenza, e fece la fortuna dei compagni, generoso fino alla prodigalità. Affabile, giusto, magnanimo, la sua eccellente natura non mostra nulla dell'astio vendicativo napoleonico, nulla della volgare prosunzione e dell'iracondia rumorosa del côrso. Cesare era nobile quanto si addice a un sovrano. La fine di Pompeo gli strappò le lacrime; tenne altamente in onore la memoria del suo terribile nemico Silla. E se pure gli avvenne di cadere nell'esecrazione dell'usurpazione e della menzogna, nondimeno il _Bellum gallicum_ ci ammaestra quanto fosse estraneo il mentire al carattere dell'uomo. Questo libro, che è uno scritto illustrativo ordinato ad una espressa azione politica, è nella sostanza una limpida fonte storica incomparabilmente più veritiera dei bollettini, e perfino di quelle annotazioni, che Napoleone non destinava a uno scopo politico immediato. La forza di Cesare stravizzò in tutti i piaceri di un tempo che non conosceva limite al godimento; ma il suo cuore rimase abbastanza ricco per consacrare alla madre, alla figlia, alla moglie la tenerezza semplice di un sentimento, che cerchiamo invano nell'anima di Napoleone. Era fatalista come tutti gli eroi; ma la sua irremovibile fiducia in una scorta divina ha assai poco di comune con l'insolente burbanza di Napoleone, che ripicchia con tracotanza sulla «sua stella». E come sono ricche e multiformi le sollecitudini ideali di Cesare! Da pretto romano, non era molto sensibile al mondo estetico e prediligeva la grammatica e le scienze esatte; ciò non ostante, egli promosse alacremente tutte le branche della cultura. Apprezzò la libertà delle lettere, fu il primo a disporre la pubblicazione degli atti del senato, scrisse egli stesso di tanto in tanto sulle questioni del giorno; e infine l'autore dei Commentari poté adornarsi il capo di quella corona di autore classico, che al prosaico côrso rimase irraggiungibile. In sostanza, del famoso parallelo di Cesare e Napoleone non resta altro, se non che l'uno e l'altro furono grandi uomini ed eroi, l'uno e l'altro usurpatori e nemici dell'aristocrazia, e così di seguito, secondo le banali proposizioni che noi lasciamo ai ragazzi. In poche parole: di quanto l'Europa moderna supera il mondo cadente dell'antichità in forza di gioventù, in moralità, in ricchezza e cultura, di tanto appetto a Napoleone Cesare è più grande. È un gioco arrischiato evocare l'ombra di Cesare; pericoloso per la gloria del primo Bonaparte, più pericoloso per gli epigoni. PARTE SECONDA LE VECCHIE E NUOVE CLASSI ABBIENTI Le vecchie e nuove classi abbienti. [Scritto a Kiel nel 1867.] I. In un'amena vigna del mio paese sorge una casina, dove un tempo Schiller, come si dice, avrebbe composto il _Don Carlos_. Ogni anno un centinaio di forestieri devoti contemplano il buco triangolare nel pavimento, che sarebbe servito da cestino al poeta. Un giorno, tra esaltanti discorsi di consacrazione, furono piantati davanti al portone una quercia di Schiller e un tiglio di Schiller, fu posto all'uscio un album di Schiller, e fu murata sulla facciata una lapide a Schiller. Alla bella celebrazione assistevano solo alcuni iniziati con vari sentimenti. Essi sapevano, che la casina era stata fabbricata circa un paio di decenni dopo la morte del poeta; pure tacevano; e queste linee non implicano minimamente l'intenzione di turbare la pia persuasione dei credenti. Certamente la più parte dei nostri lettori, in occorrenze consimili, hanno verificato con quale forza il famoso principio della formazione dei miti opera anche tra i lumi del secolo decimonono, e anche tra le persone colte. Questo vecchio lieto ricordo ci risovviene involontariamente, ora che cerchiamo d'illustrare uno dei casi di mitificazione moderna più ricchi di effetti duraturi. La più recente storia della Francia si svolge in buona parte tra le file del quarto stato. Caduto il primo impero, il bonapartismo sopravvive negli animi e principalmente nella fantasia delle folle popolari francesi. Se noi più indoviniamo che comprendiamo i segreti dell'anima dei bassi ceti della nostra propria nazione, tanto più rimaniamo completamente sospesi davanti all'enigma come mai un esecrato macellatore è potuto a mano a mano apparire amabile a una nazione straniera, come mai un duro tiranno sembrarle un dio. In questo caso sono in atto le forze elementari dell'istinto popolare; e noi ci contentiamo di poche postille, e pel resto ci richiamiamo all'antichissima esperienza, che solo ai sacerdoti e ai condottieri accade di diventare, nel vero senso, eroi nazionali. Solo all'eroe della fede e all'eroe della spada è sancito quel supremo favore popolare, che entusiasma i milioni di uomini e schiude la bocca alla leggenda. Su tale argomento la limitatezza, l'incertezza di ogni conoscenza storica si parano dinanzi all'animo in modo scoraggiante. Non solo il giudizio sulla ragione e sul torto delle lotte passate è preso, come s'intende facilmente, nel vortice di una eterna trasformazione; ma anche la questione su quali dei fatti avvenuti meritano l'attenzione e sono degni di essere ricordati, è risoluta dai posteri in modo ben diverso che dai contemporanei. Come una pubblica biblioteca, se vuol rispondere interamente allo scopo, deve contenere a un dipresso tutto ciò che si stampa, perché nessun contemporaneo è in grado di presagire se le fantasticherie oziose di uno sciocco cuculiato appariranno alla posterità utili ed istruttive rispetto a un sistema d'idee ancora sconosciuto, così anche la storia dovrebbe tramandarci tutto ciò che avviene nella vita di un popolo. Disgraziatamente, noi sappiamo soltanto ciò che gli scrittori contemporanei hanno ritenuto memorabile; e oggi noi daremmo via molto volentieri la conoscenza di tante defunte discussioni parlamentari laboriosamente dibattute, se sapessimo con più sicurezza ciò che le nonne filando alla rocca raccontavano del grande imperatore ai nipotini, ciò che i contadini delle provincie hanno lamentato del ministro borghese di Luigi Filippo. Dobbiamo illustrare il modo come si venne formando la leggenda napoleonica mercé il tranquillo e incosciente lavoro della fantasia nazionale, e come in pari tempo la cosciente attività dei napoleonidi preparò la restaurazione dell'impero. Considereremo, inoltre, come e perché l'ordinamento amministrativo di Napoleone si affermò come la parte più viva e vitale della costituzione dello stato francese, e domanderemo, in fine, perché la nazione non trovò alcuna tranquillità nel sistema costituzionale. L'esperimento parlamentare dei francesi non merita punto l'indifferenza, che generalmente dimostrano a esso in Germania. Anzi alcune di quelle forze politiche, che anche presso noi tedeschi operano renitenti allo stato parlamentare, appaiono in questo caso con una chiarezza e una precisione, con un'evidenza tipica, come mai altrove. Un ordinamento burocratico, più rigido e dispotico del tedesco, si oppone direttamente alle idee rivoluzionarie, che in Francia si svolgono con energia anche maggiore che da noi. Proprietari e proletari, contadini e operai della città lottano apertamente in Francia pei rispettivi interessi di classe, nel medesimo tempo in cui in Germania questi potenti contrasti sociali seguivano il loro corso quasi inconsapevolmente l'uno accanto all'altro. Mentre da noi la lotta per l'unità della nazione predominava su tutte le contese di parte, e il timore ispirato dalle idee nazionali spingeva i partiti ultramontani e feudali ad allearsi con le piccole corone, in Francia già da secoli il problema dell'unità nazionale era stato risoluto felicemente: i partiti sono tratti a svelare la loro intima natura nelle congiunture più semplici e più grandi; e si avanzano come nemici della monarchia. Anche se il risultato di queste considerazioni non approda ad altro che a riuscire molto scoraggiante, noi però riproviamo la superbia di tanti politici inglesi e, purtroppo, anche tedeschi, i quali, per via delle lotte parlamentari senza costrutto, negano addirittura ai francesi l'attitudine alla libertà politica. Una volta che al cristianesimo è riuscito di trionfare di tante proclività naturali tutt'altro che cristiane dei popoli d'Europa, non abbandoniamo dunque la speranza, che un progresso veramente più adeguato della civiltà, ossia l'ordinata partecipazione dei governati al governo dello stato, sarà per realizzarsi dovunque sul nostro continente, anche se le forme di questa libertà porteranno, per la salute del mondo, un'impronta nazionale molto diversa. Forse che quella timida piccola borghesia tedesca affatto disabituata alla vita pubblica, a cui Stein donò l'ordinamento civico, aveva più preparazione dei francesi di oggi all'autonomia amministrativa? Eppure in cotesti distretti prosperò la vitale e sana municipalità, che noi stimiamo come la parte sicura e salda della libertà popolare tedesca. Con che fuoco e con quanto buon diritto noi patrioti tedeschi siamo andati in collera, quando anche tre anni fa gli stranieri, allungando un dito magico sul nostro sminuzzolamento di cinque secoli, profetarono l'eternità degli staterelli tedeschi! No, la questione della libertà non è una questione di razze. Noi crediamo fermamente, che a nessuno dei grandi popoli civili la conseguenza di un'antica colpa renda così difficile la via a una libertà razionale, come ai francesi. La storia non è pei sanguinari: allo stesso modo come spande munificamente anche sulle generazioni lontane la benedizione dei fatti magnanimi, così pure prova sui figli i peccati dei padri, dimenticando molto a rilento, e con una rigidezza inesorabile, che la piana bonomia non sospetta nemmeno. Chi non ha visto che a Königgrätz il gran Federico si trovava in mezzo ai suoi Prussiani, chi non comprende che il vecchio peccato mortale della confederazione del Reno ha castigato sé stesso per sessanta anni nel popolo della nostra Germania meridionale, ebbene, non ha occhi per discernere la dipendenza profonda delle cose storiche. Principalmente la Francia può dirne qualcosa dell'immortalità della colpa storica. Mirabeau è una figura che percuote così tragicamente, appunto perché nulla sua vita si specchia il destino del suo popolo: come l'ombra della scapigliata giovinezza si allungò tra Mirabeau e la corona e gl'impedì di prendere la posizione giusta al momento giusto, così anche la nazione compì solo a mezzo la sua prima rivoluzione, perché portava sulle spalle il peso di un passato colpevole, perché sotto l'oppressione dell'antico regime le semplici virtù del cittadino le erano svanite. Similmente oggi. Nessuno statista pensante dubita, che le condizioni fisiologiche assai sconfortanti della popolazione francese, la sua poca fecondità, il numero eccessivo di deboli e di storpi, se non derivano da una causa sola, certo hanno una causa sostanziale nelle guerre del primo impero, che menò al macello la gioventù sana maschile. Lo storico troverà con poca fatica anche nella vita politica gli effetti duraturi di quegli anni turbolenti: le voglie anarchiche del tempo della Rivoluzione, le abitudini dispotiche dell'impero, e, sopra tutto, gli odi irreconciliabili dei vecchi partiti. Con tutto ciò non è impossibile, che i nostri vicini siano per ripigliare le forze e buttar via la trista eredità dei vecchi tempi. Con una vitalità inesplicabile, la nazione ha superato scosse spasmodiche che avrebbero annientato la più parte degli altri popoli; le sue condizioni economiche sono oggi incomparabilmente più favorevoli, la sua moralità forse non peggiore che sotto l'antico regime (giacché in questioni così delicate un popolo giustamente non deve essere raffrontato che con sé stesso). L'amore al lavoro è tuttora intatto come al tempo antico. Anche quel difetto nazionale, di cui si servono gli avversari per dimostrare l'incorreggibilità dei francesi, ossia la smania irrequieta della novità, appare allo sguardo penetrante sotto un'altra luce, non appena si riconosca, che questo popolo instabile conserva i suoi più importanti costumi politici con una immobilità quasi priva di pensiero; che lo stato francese in cinquant'anni si è mutato meno, che non abbia mai fatto in pari tempo la cosa pubblica di ogni altro popolo civile. Non c'è dunque ragione di disperare interamente della forza politica dei francesi; salvo che solo la gente leggera può aspettare per un prossimo avvenire l'avviamento dello stato alla libertà costituzionale. Ogni giudizio preciso sull'antico sistema di governo in Francia è sempre esposto all'ira dei partiti. A rischio di essere accusati di legittimismo, osiamo affermare, che la Francia nel nostro secolo non ha visto giorni più felici di quelli della Restaurazione. Dopo che la ferocia sanguinaria dei giorni del terrore fu svaporata e la corona si fu accorta, che il grido di guerra degli emigranti _vive le roi quand méme!_ usciva dai più pericolosi nemici della monarchia, la nazione entrò per la prima volta nel pieno godimento di quei benefizi della Rivoluzione, che finora le erano stati amareggiati dalla crudezza del regno del terrore, dalle leggi eccezionali del Direttorio e dell'Impero. La corona si adoperò a mantenersi al disopra dei partiti, a garantire anche agli avversari la libertà della lotta leale. Quando finalmente gli eserciti degli alleati lasciarono il paese, si offrì allora lo stesso spettacolo che avviene quando si alza la saracinesca sulla cateratta di un ruscello montano: la generazione che nella grande fantasmagoria dell'impero era stata fondamentalmente avvezza a misconoscere arte e scienza e a non curarsi dello stato, di botto sviluppò un vigore potente e prodigo, in ogni campo del pensiero e della creazione. I _saloni_ deserti si riaprirono alla graziosa varietà delle belle conversazioni, ripristinarono quel mondo dello spirito e della eleganza, ormai sconosciuto ai nostri giorni, tormentati dalla politica e dalla sensualità: nobili dame spirituali, come la duchessa di Duras, ricevevano di nuovo gli omaggi di uomini squisitamente colti. Gli arditi novatori del romanticismo, Victor Hugo e i suoi compagni, principiarono la lotta strepitosa che liberò finalmente la Francia dalla scomunica del sillabo accademico. La poesia, che finora non era stata stimata che come rettorica, come «il più bel genere della prosa», adesso cerca di formare il proprio carattere, di penetrare gli enimmi del cuore umano. Anche le fantasie cattoliche della giovine scuola conferiscono naturalmente all'aspetto di questo popolo romanico. Con Sainte-Beuve principia un novello e più libero avviamento della critica estetica, e Quinet e Cousin già si arrischiano a illustrare ai loro connazionali le idee di Herder e di Hegel. Nello stesso tempo sorgono i migliori nomi, che ha conosciuto l'arte francese da Poussin in poi. Nel campo della scienza politico-storica fiorisce rigogliosa una nuova generazione diligente insieme e intelligente, dotta e dedita alle lotte dei nostri giorni. Con quale gioia la gioventù salutò alla Sorbona le entusiasmanti prolusioni di Villemain e di Cousin! Con quale piacere perfino il vecchio Goethe, poco sensibile alle simpatie politiche, parlò al suo Eckermann del _Globe_ e dei primi passi di Mignet e di Guizot! Arride a questi giovani ingegni l'invidiabile, rapido, impetuoso successo, che la nostra vita sociale sparpagliata ricusa al tedesco. Era un risveglio affatto spontaneo degli spiriti: giacché la corte dei Borbotti sa promovere l'arte solo col dispendio, ma davanti all'essenza dell'arte è ottusa come un tempo fu Napoleone. L'industria e il commercio risentono l'immenso benefizio della pace: i lati oscuri della vita industriale moderna rimangono ancora avvolti pei più in una cupa ombra: i socialisti non raccolgono che una piccola comunità di fedeli. La Restaurazione ha prodotto tra i suoi uomini di stato nomi come Villèle e Louis, de Serre e Martignac, che, quando gli odii di partito taceranno, la Francia ricorderà con onore. Liquidano il duro debito di guerra, riordinano esemplarmente le finanze, riorganizzano l'esercito vinto, creano dal nulla la flotta perduta. L'inviolabilità del domicilio e della proprietà, la libertà personale sono meglio tutelate che non forse sotto il governo più recente. E si accorgono ora i francesi di avere raggiunta una conquista più nobile, più duratura dell'ebbrezza di vittoria dell'impero: perché la loro carta costituzionale è stata considerata diffusamente in ogni paese di terraferma come il catechismo del diritto razionale, e i liberali di ogni nazione hanno imparato dalla _Minerva_, e ogni articolo di fondo di un gran giornale parigino aveva il valore di un avvenimento. Al dispotismo onnipotente di Napoleone è seguita subito una monarchia, in cui le Camere godono di maggiori diritti del parlamento inglese. Esse hanno approvato anno per anno tutti i bilanci dello Stato; nessun ministro poteva osare di mantenersi al governo contro il volere delle Camere. Il mondo risonava della grande parola della tribuna francese; e questo splendore dell'eloquenza non concerneva punto fatti personali, come sotto la monarchia di luglio. Erano lotte serie, combattute con la partecipazione passionata della nazione: sotto la Restaurazione hanno acceduto alle urne non mai meno dell'84 per cento, talvolta fino al 91 per cento degli elettori. Questo generale accaloramento alla politica ha qualcosa dell'ingenua allegria della giovinezza: la libertà della parola, ammutolita per tanto tempo, riopera con l'incanto della novità. L'ardore delle lotte di partito sembra un segno di forza e di salute rispetto al silenzio innaturale del governo di polizia di Napoleone. Il mondo torna a credere speranzosamente all'ideale politico. Forti partiti di tutte le classi si conciliarono lealmente col regime parlamentare: quelli che non lo fecero, come i repubblicani non convertiti, i partigiani di Napoleone, i legittimisti fanatici, si videro almeno costretti a simulare la loro sottomissione allo statuto. Due volte, sotto il governo del centro circa il 1819 e poi sul principio del ministero Martignac, si ebbe l'impressione, che la mannaia delle lotte civili fosse sepolta, che l'eredità della Rivoluzione fosse stata accettata dai Borboni senza benefizio, che fosse stato dimenticato il vecchio assassinio della dinastia perpetrato dal popolo. La nobiltà contava ancora antiche e illustri famiglie di grande potenza. I suoi figli avevano combattuto un tempo per la Francia su innumerevoli campi di battaglia; e adesso anche alcuni benemeriti dignitari di Napoleone aderirono all'alta nobiltà borbonica. La camera dei pari fu sovente salutata dalle ovazioni popolari, e fu stimata usbergo dei diritti del popolo. Parve non impossibile, che l'intesa pacifica tra le vecchie e le nuove classi possidenti, base morale della Restaurazione, sarebbe per durare. Non ostante cotesti lati chiari, la Restaurazione non incorse puramente a caso nelle stoltezze di Carlo X: come afferma Guizot, fuori del parlamento stava in aria, senza base: pel complesso della nazione non fu mai altro che una palliata dominazione straniera. La politica pratica nel nostro secolo addottrinato sui libri viene traviata non solo dalle passioni o dai malintesi interessi, ma anche dagli errori dottrinali. Per esempio, i patrioti tedeschi si son fatti trarre in errore per anni e anni dalla comparazione dotta, e zoppicante sui due piedi, della confederazione germanica con l'americana e la svizzera; e similmente il ricordo scientifico dell'Inghilterra di Carlo II ha esercitato una tale influenza dissennante, da metterci quasi in sospetto del beneficio della scienza storica. L'edifizio statale di Cromwell, coperto alla meglio da una tettoia provvisoria, andò in conquasso tra i motteggi della nazione: un generale inglese richiamò il re legittimo; il partito repubblicano subito si disperse ai quattro venti, e i falli accumulati dai due ultimi Stuart indussero a suo malgrado il popolo fedele a una seconda sollevazione. Ben diversamente in Francia. È semplicemente falso, se gl'inveleniti avversari del bonapartismo oggi lo affermano, che Napoleone fu abbattuto altrettanto dalla Francia quanto dall'Europa. Se l'inverno del 1813 egli avesse accettato le proposte di pace ingiustamente miti degli avversari, avrebbe potuto contare sopra un governo assicurato per molto tempo; e anche dopo che la sua alterigia imperiale ebbe tirati gli eserciti stranieri sul suolo della Francia, l'odio del popolo al massacratore non era alla lunga abbastanza forte per spezzare dagl'incastri interni le ferree giunture dello stato militare. Solo gli stranieri buttarono a terra Napoleone, e gli stranieri ricondussero l'antica dinastia. Per quanto le singole e lontane provincie del sud e dell'ovest salutassero con gioia la bandiera dei fiordalisi, rimane però assolutamente vera rispetto all'enorme maggioranza della nazione la scomunicata affermazione di Manuel, che la Francia accolse di mala voglia il ritorno dei Borboni. I nostri vicini si vantano a ragione di un vantaggio su tutte le altre grandi potenze: la Francia non possiede nessuna Irlanda, nessuna Polonia; le sue provincie sono tutte francesi con tutta l'anima. Oggi però si è aperta in questa nazionalità compatta una screpolatura assai più difficile a sanare del particolarismo di qualche provincia: il regno si è diviso in due nazioni, i vincitori e i vinti di Waterloo. La Francia fin dai tempi dei due cardinali si era abituata a essere la potenza egemone della terraferma. Sebbene questa supremazia si fosse andata a mano a mano indebolendo notevolmente sotto Luigi XV, si era però tuttora in Francia tanto sicuri della propria grandezza, che gli ufficiali borbonici battuti a Rossbach divulgarono in patria le lodi del colto re di Prussia. Chi avrebbe allora minimamente presagito, che cotesti stranieri avrebbero signoreggiato la Francia? Poi, durante le guerre della coalizione, era divampata contro lo straniero una passionata esacerbazione, e adesso alla splendida èra del dominio mondiale della Francia seguiva un governo installato dagli stranieri. La nazione aveva appena finito di lamentare, che la grande guerra per la supremazia di là dal mare si fosse chiusa con la vittoria della razza germanica; adesso, per colmo, anche la posizione del regno in terraferma appariva compromessa, e lo stato dechinava a potenza di second'ordine. La seconda pace di Parigi apre una breccia nella famosa frontiera di ferro di Vauban; la meschinità dei diplomatici della Santa Alleanza, invece di rinforzare la Germania, infligge alla Francia l'onta indimenticabile delle guarnigioni straniere. E, per colmo di vergogna, in tutte le disfatte francesi la parte più gloriosa era stata sostenuta dalla piccola dileggiata Prussia! Lo stesso Chateaubriand non osò difendere la Prussia, e anche oggi in Francia i libri di storia che corrono per le mani parlano della nostra vittoria come di un'ingiustizia, di un'imperdonabile impudenza, laddove lamentano le vittorie degl'inglesi, dei russi, degli austriaci come puri infortuni. Le dure esperienze inducono nell'anima della nazione un'alterazione dell'antica indole. Questo popolo che in altri tempi era il più ospitale di Europa, che accoglieva gli stranieri senza punto considerarli come stranieri, mostra ora in numerose occasioni un odio aspro e selvaggio al forestiero: tutta la stampa di quel tempo echeggia di un tono ostile contro i paesi esteri. Nel 1822 a Parigi si negava a una compagnia inglese il permesso di dare rappresentazioni, e si andava cento volte in visibilio al verso _jamais en France l'Anglais ne régnera_: oggi ancora riesce facile far montare in bestia il contadino francese con le parole _étranger_ e _prussien_. E chi erano i fortunati, che condussero l'odiato straniero al governo dello stato? Gli emigrati, la scellerata nobile marmaglia, che pei privilegi del blasone avevano impugnato la spada contro la patria. Un odio sconfinato animava il popolo contro quei traditori, ogni rapporto con loro era un'onta: a Guizot non si perdonò mai d'essersi recato durante i cento giorni dagli emigrati a Gand. Anche Napoleone aveva mostrato un senso squisito di questo istinto delle popolazioni: nella sua prima campagna d'Italia scrisse al generalissimo piemontese, che la presenza dei parricidi macchiava l'onore del campo nemico; e in seguito ebbe sempre a ricordare, che mai nessun napoleonide aveva portato le armi contro la patria, e che anche il generale Beauharnais aveva prescelto la ghigliottina all'emigrazione. Nessuna potenza al mondo era in grado di cancellare questi sinistri ricordi. La tempesta parlamentare che terminò con l'espulsione di Manuel, scoppiò perché Manuel aveva ricordato l'invasione. Egli aveva evocato l'ombra sanguinosa che s'interponeva tra la nazione e il governo. È noto che Luigi XVIII non si mostrò affatto quello schiavo dello straniero, che lo tacciò l'opposizione invelenita. Quantunque partendo dall'Inghilterra avesse detto al principe reggente le indecorose parole: «dopo Dio, devo il mio trono a questo glorioso paese», pure non gli mancò interamente il senso dell'onore dello stato. Né il paese dové in minima parte alle sue preghiere le miti condizioni della prima pace di Parigi. Poi, in onta, naturalmente, alla Germania, cercò di strappare lo stato all'isolamento, e al Congresso di Vienna gli riuscì di stringere contro la Prussia e la Russia l'alleanza, che era tanto onorevole per l'abilità della politica borbonica, quanto ingloriosa per l'Austria e l'Inghilterra. Ripristinati i Borboni per la seconda volta, quantunque l'autorità della dinastia all'estero fosse già caduta, egli si adoperò con successo a liberare la Francia dalle guarnigioni straniere. Frattanto la situazione diplomatica dello stato era molto aggravata: la Francia aveva contro di sé la coalizione delle potenze orientali, e non le rimaneva che da scegliere tra l'isolamento e la guerra contro una superiorità di forze schiacciante. Anche al congresso di Aquisgrana le potenze orientali decisero il pronto intervento, non appena in Francia si fossero rinnovate le scene del 1789. Se pure il protocollo fosse rimasto segreto, l'istinto delle popolazioni, però, suole ingannarsi di rado in questioni di onore nazionale. Il popolo sentì, che l'orgogliosa Francia era sotto la vigilanza poliziesca della Santa Alleanza; e naturalmente si avverò anche troppo presto la predizione di Guglielmo von Humboldt dopo la conclusione della seconda pace di Parigi: la Francia non sarà mai calma, fintanto che l'Europa pretenderà di tenerla sotto tutela. Solo un governo dotato di ardimento, che avesse fatto tutt'uno con la nazione, avrebbe potuto salvare lo stato da cotesta situazione umiliante. Ma i Borboni non vollero mai e non poterono farsi un cuore col proprio popolo, anzi sotto Carlo X la diffidenza verso il paese della Rivoluzione si manifestò sfacciata: «io mi sento interamente elvetico», disse quel cieco principe alla sua guardia svizzera. La grande turba degli emigrati continua come prima a tramare i suoi vecchi bassi intrighi, viaggia per implorare l'aiuto straniero e accusare presso gli stranieri la propria patria. Bergasse, quello stesso matto, che un tempo aveva influito alla corte contro i consigli di Mirabeau, nel settembre del 1820 presentò allo czar un memoriale: che la Francia era il covo di tutte le cospirazioni europee, che la casa dei Capetingi, essendo la più antica delle dinastie, era il principale bersaglio dello spirito settario; che era necessario un congresso che sbandisse solennemente le dottrine dell'ateismo e del sovversivismo, e via di questo passo. Il conte Jouffroy comparve al congresso di Verona come rappresentante di un così detto comitato realista, ed espresse il desiderio, che le potenze orientali guarissero il gabinetto di Parigi delle sue debolezze liberali; e che Villèle dovesse agire come ministro della Santa Alleanza, non già puramente come ministro della Francia¹. Se nel _pavillon Marsan_ era alimentato un tale trescamento senza patria, nessuno ha a meravigliarsi, che durante la guerra di Spagna corresse nel popolo l'assurda diceria, che il re avesse voluto allontanare l'esercito, affinché nel frattempo gli alleati invadessero la Francia e vi ristabilissero l'assolutismo! ¹ I due memoriali suddetti, notoriamente non i soli del genere, furono comunicati in copia dall'ambasciatore badese a Berlino alla corte di Carlsruhe. (Nota dell'A.) Tale essendo la situazione, anche i più abili statisti della Restaurazione non avrebbero potuto perseguire nella politica estera grandi e positivi fini: si viveva alla giornata. Durante i primi anni della Santa Alleanza si comportavano come grandi potenze solamente la Russia e l'Austria; poi contro la loro preponderanza si levò Canning, non già la casa di Borbone. Ordinariamente i Borboni si tennero lontani dalla violenta politica tendenziosa della Santa Alleanza. Ma la buona intelligenza felicemente ristabilita con l'Inghilterra non si concretò in una efficace alleanza delle potenze occidentali; perché tra l'Inghilterra e la Francia si frapponeva la questione orientale, e una politica del liberalismo in grande stile riusciva impossibile ai legittimisti di tutte le dinastie. Il gabinetto capiva che la Francia non doveva tollerare l'intervento cronico dell'Austria in Italia; ma alla fine la paura della rivoluzione prevalse, e si conchiuse col contentarsi di assumere la protezione del minacciato diritto ereditario che veniva a Carlo Alberto da Carignano. La guerra di Spagna parve allora un ritorno dei gloriosi tempi dell'antica politica di famiglia seguita dai Borboni; Chateaubriand si vantò di avere esteso la signoria della Francia fino alle colonne d'Ercole, e di aver compiuto in poche settimane ciò a cui non era arrivato in molti anni Napoleone. A conti fatti la strepitosa impresa si dimostrò risolta in fumo rispetto alla potenza della Francia: i Borboni spagnuoli ripagarono i loro cugini francesi con quella ingrata albagia, che il dispotismo restaurato ha mostrato in ogni tempo pei suoi più moderati difensori. Solamente, e non altro, si era stimolato l'istinto guerresco, avido di supremazia, della nazione, e posto ognuno in grado di confrontare gli allori a buon mercato della bandiera dei fiordalisi con la gloria del tricolore. Fatta eccezione solo della repubblica, che generalmente non guardò alle questioni europee, nessun governo francese di questo secolo è stato per noi tedeschi un vicino fido ed equanime; e probabilmente questa situazione durerà fino a quando il nostro contadino renano vedrà il francese Carlomagno camminare a notte lungo il Reno e benedire i nostri tralci tedeschi, fino a quando la nostra canzone popolare canterà e racconterà l'anello incantato di Fastrada. Anche la Restaurazione, dunque, tramò alla chetichella le sue piccole cattive arti contro la Germania. Si dettero buone parole al re Guglielmo del Würtemberg quando corse a Parigi a lagnarsi delle mire di supremazia della Germania; si lavorò sott'acqua contro la nostra unità commerciale in formazione, e si favorì la lega commerciale della Germania centrale, che poneva la Sassonia e lo Hannover contro l'unione doganale prussiana. Allora come sempre la corte delle Tuileries cercò di tenere in tutela le corti della Germania meridionale, mosse vivaci rimostranze, che a Monaco alcune strade fossero state intitolate alle vittorie di Brienne e di Arcis, sostenne il re Luigi di Baviera quando, spaventato dei primi passi arditi della politica commerciale prussiana, ebbe a farne lamento a Parigi, e lo coprì poi di rimproveri quando il nobile principe si accostò alla lega doganale prussiana. Però tali piccoli intrighi non potevano appagare in alcun modo la presuntuosità nazionale. L'aspirazione ai confini naturali era fortemente sentita dal popolo come un sacro diritto, e si manifestava nel piccolo come nel grande, nelle mode del giorno, come per esempio la foggia di pettinatura _chemin de Mayence_ allora in voga, e nelle accuse dell'opposizione. Lo stesso Chateaubriand vagheggiava il disegno di alleanza con la Russia, che avrebbe dovuto conquistare ai francesi il Reno, ai russi i Balcani. Quando finalmente Polignac prese sul serio questi sogni e, trattando segretamente con la Russia, vagheggiò l'idea di una campagna sul Reno, allora la nazione per un momento fu richiamata del tutto alle proprie questioni interne, e il frivolo disegno cadde. Quasi tutti erano irritati dai rapporti che la corte aveva con la Russia. La posizione dominante, che Pozzo di Borgo teneva dai primi anni della Restaurazione e poi di nuovo sotto Carlo X, era indegna della Francia: perfino i diplomatici tedeschi della scuola conservatrice ebbero a dire, che non si sapeva se Pozzo fosse ministro di Russia o di Francia. E ciò in un momento, in cui la crisi orientale con le sue sorprese periodiche minacciava la pace del mondo! Non si voleva a nessun patto abbandonare la Turchia, vincolata da un'antica amicizia, introdotta per la prima volta dalla Francia nella cerchia degli stati europei; si subodorava l'intendimento della politica grecofila della Russia, che lo czar Alessandro davanti al principe Lieven aveva compendiato in una parola: _il me faut une Grèce!_ Ma nemmeno si poteva resistere al fanatismo filellenico dei liberali, giacché l'opinione pubblica eccitata era ridivenuta una forza, e forza attiva anche nella politica estera; tanto meno, nell'antagonismo tra l'Inghilterra e la Russia dominante la questione orientale, s'intendeva di prendere partito per l'Inghilterra, che sul Bosforo difendeva il Gange. Così la Russia, che in Oriente era la sola a conoscere il terreno, attirò la corte di Parigi da una falsa posizione all'altra. I Turchi sono traditi a Navarrino, l'istinto guerresco nazionale è nuovamente ridesto dalla vittoriosa e non sanguinosa spedizione di Morea; e alla fine la Turchia è indebolita dall'amputazione fattale della Grecia, e la Russia senza ostacoli preme sui Balcani. Osservando cotesta feconda politica europea dei Borboni, comprendiamo facilmente la ragione per che allora i francesi inviperiti cantavano con Casimiro Delavigne: _ces esclaves d'hier, aujourd'hui nos tyrans!_ e il ritornello di Béranger: _en France soyons français!_ sonava scortesia ai Borboni. II. Basterebbero queste congiunture a spiegare la caduta dei Borboni. L'ubbidienza a una dominazione ritenuta straniera ha un'azione morale dissolvente, e un'antica esperienza, che torna a onore dei popoli di occidente, dice che la condotta debole dello stato di fronte allo straniero si è sempre risolta per loro in una leva della rivoluzione. La Restaurazione prese volentieri il nome di monarchia della tradizione; e il primo manifesto di Luigi XVIII promise di ricongiungere la catena interrotta dei tempi. Una monarchia della tradizione in un popolo, che non possedeva più tradizioni storiche, che aveva rotta con piena coscienza la catena dei tempi! Ciò che era stramazzato sotto l'uragano della Bastiglia, era per le popolazioni il tempo fosco dell'arbitrio e dell'arroganza nobilesca, e non ne sopravviveva che un odio senza limiti. Chi mai parlava ancora dei fasti crociati dei La Tremouille e dei Montmorency? Dopo il risveglio del popolo, nei giorni della ragione e dei diritti dell'uomo, nei giorni della vittoria, gli uomini del terzo e del quarto stato avevano tenuto il fastigio della nazione; e adesso il re presumeva di spazzar via dalla memoria del popolo proprio questo tempo, che per lui costituiva tutta la storia della Francia! Era il contrasto di due epoche divise da un mondo. Il paese motteggiava e beffava, quando i suoi re sanavano un'altra volta i gozzi, quando erano cavati fuori a spettacolo l'orifiamma e l'olio di san Clodoveo, e i paggetti, e i vecchi moschettieri canuti, e tutta la rinchiusa e muffita cianfruscaglia del ripostiglio dinastico; quando il _vive Henri IV!_ e la _charmante Gabrielle_ erano rappresentati davanti a un popolo, che aveva tuttora negli orecchi le note inebbrianti della marsigliese. E si poté vedere a quali immagini fosse legato il cuore della nazione, quando il generale Foy tra i plausi frenetici rivendicò alla Francia il tricolore. E non solo il dileggio, ma una grave e ben giustificata sollecitudine invase i ben pensanti, quando il re in virtù del suo diritto regio largì di buon grado la carta costituzionale, che in effetto gli era stata strappata dalla natura delle cose, e si arrischiò di parlare nuovamente a questo popolo, lieto del suo diritto, come a sudditi fedeli. Se la nazione scoteva il capo al nome di Luigi il Grosso e di San Luigi e degli altri illustri antenati, che il re pronunziava volentieri, molti personaggi della Real Casa, però, non avevano mai sentito far parola del maresciallo Ney, e anche i più notevoli degli emigrati, come Richelieu, stavano lì perplessi, ignoranti fino al ridicolo dell'anima nuova di questa giovine Francia, che non avevano più calcata in venticinque anni di prodigiosi trasmutamenti. Questo contrasto di vedute era aggravato dalla disastrosa inimicizia delle persone. Troppo nobile sangue era stato sparso dall'una e dall'altra parte, e dall'una e dall'altra parte c'era da perdonarsi più che a uomini fosse dato condonare. Era inconcepibile, che i fratelli del re decapitato si stringessero in rapporti leali con gli assassini del sovrano e assassini di Dio; ed era anche più impossibile, che la nazione mettesse confidenza a cotesta nobiltà, che in altri tempi pensava di detronizzare Luigi XVI come fautore della rivoluzione e che in seguito, dopo sterili lotte contro la patria, rimandava a casa i figli a occupare le cariche alla corte dell'imperatore dei plebei. Già sotto il Direttorio la mente più acuta del campo legittimista, De Maistre, aveva predetto le tristi conseguenze di questa incurabile inimicizia delle persone. E adesso che la nobiltà si preparava, come ai tempi di Enrico IV, a considerare il re semplicemente come il primo gentiluomo del paese, e a farsi una prerogativa della parola _honneur_ come di una _parole toute à nous_, il generale Foy avvertì: «la dinastia corre infallibilmente alla rovina, se si appoggia sopra una nobiltà siffatta». Gli stessi gabinetti alleati non si preclusero del tutto il discernimento, che i nuovi tempi esigevano nuovi uomini, e fin dal principio, e specialmente poi alla seconda pace di Parigi, pensarono a qualche nuovo candidato al trono, ad Eugenio Beauharnais e qualche altro. Anzi i più aspri nemici di Napoleone, come per esempio Stein, riguardavano i Borboni tutt'al più come un punto di appoggio pel paese travagliato, dopo che la debolezza del sistema si era così pietosamente rivelata nei cento giorni. Quando gli ultralegittimisti accumulavano pazzie su pazzie, Metternich scrisse: «i legittimisti legittimano la rivoluzione». Solo i tories inglesi guardavano con lieta fiducia il nuovo stato di cose in Francia, ma anche tra loro i più avveduti principiarono fin dal 1818 a dubitare dell'avvenire della dinastia, secondo che provano i volumi recentemente pubblicati dei dispacci di Wellington. Come tutti i governi a loro succeduti, i Borboni non uscirono mai interamente dalla lotta per la propria esistenza; come tutti i successori, essi hanno dovuto sempre tornare a dichiarare, che al paese si sarebbe concessa la piena libertà non appena i principii fondamentali del sistema fossero universalmente conosciuti. Un piccolo ma istruttivo sintomo di questa poca sicurezza di tutti i capi di governo è, per esempio, la straordinaria fecondità della zecca francese: ogni nuovo sovrano desidera di vedere subito la propria effigie in palma di mano. La frivola infedeltà celta, il _ridendo frangere fidem_ che esasperava i Romani, ha perduto dopo tante rivoluzioni sanguinose ogni vergogna. La nazione era abituata a scusare ogni violazione del proprio dovere con un _bon mot_, con un _couplet_, con un sorridente_ que voulez-vous? c'est plus fort que moi!_ principiava ormai a considerare lo spergiuro politico come un suo diritto acquisito. I nostri radicali possono apprendere dalla storia modernissima della Francia, che dietro la parola abusata e coperta di ridicolo «dinastia avita» si nasconde una significazione seria: una dinastia nazionale cresciuta insieme col paese è sempre un incommensurabile benefizio civile anche per la nostra generazione democratica. È noto, che ben poco fu effettuato di quanto pretendevano gl'insensati disegni reazionari, con cui gli emigranti assediarono la corte. Si può dire che la Restaurazione andò in rovina meno per le azioni, che per le intenzioni attribuitele dal popolo. E siccome era stabilito, che la Francia dovesse aspettarsi da cotesta dinastia una lotta implacabile contro i preziosi frutti della Rivoluzione, in ciò stesso ha radice il giudizio di condanna contro il ripristinamento dell'antica regalità. Appena rimpatriati, gli ultralegittimisti principiarono a rimettere in questione tutto ciò che alla nuova Francia era divenuto caro e inseparabile. Siccome il primo console aveva saggiamente riconosciuto la riversibilità dei possessi, gli emigrati ripeterono la loro proprietà. La lotta terminò col pagamento di un miliardo agli emigrati; ma siccome costoro lo riguardarono solamente come un acconto, seguì che tutti i possessori dei beni nazionali perderono il senso della sicurezza sui terreni legittimamente acquistati. Da ciò conseguì la lotta contro il nuovo diritto ereditario. Noi francamente non approviamo una legislazione, che vieta al testatore la disposizione della maggior parte dei suoi beni e sottopone i più delicati segreti della famiglia alle indagini inquisitive del magistrato; ma essa è senza dubbio democratica. Era sopra tutto nazionale, e presto ebbe pel popolo il valore di ragione scritta. In siffatte questioni, che toccano l'intimità della vita di famiglia e l'economia domestica, il legislatore rimane impotente di fronte ai costumi nazionali. Una gran parte del mezzo ceto della campagna doveva la propria esistenza alle leggi sul diritto di successione ereditaria e sulla divisibilità dei beni fondiari; e nessun lavoratore intendeva di rinunziare alla speranza di acquistare un poderuccio come frutto delle sue fatiche. Le vedute democratiche della società moderna, la distribuzione della popolazione tra la città e la campagna, in una parola, molti dei più importanti principii sociali su cui riposava la nuova Francia, erano connessi a queste leggi. E presentemente ogni persona imparziale ritiene per fermo, che i gravi mali di cui soffre l'agricoltura francese non sono in alcun modo cagionati dalla libertà di movimento della proprietà fondiaria. Proprio su cotesti problemi profondamente gravi si contorse il pugno grossolano del partito degli emigrati, il quale propugnava i beni chiusi, e infine arrischiò una proposta di legge sul privilegio della primogenitura. La proposta cadde; si ottenne solo la protezione del maiorascato. Ma il tentativo rimase memorabile; e non fu possibile dissuadere i contadini, che la nobiltà mirasse a ripristinare gli antichi diritti e servitù feudali. La borghesia benestante, il cui aiuto aveva reso possibile il ritorno dei Borboni, si vide duramente offesa dall'alterigia degli emigrati, e si vide preclusa la carriera degli uffici dal nepotismo nobilesco: anche il più importante dei suoi diritti politici fu minacciato dal progetto che più stava a cuore ai legittimisti, quello di legare il diritto elettorale al possesso fondiario. Un realista moderato e benevolo, il signor di Sesmaisons, riepilogò le riforme indispensabili allo stato nei seguenti capi: maggiorasco generale per la nobiltà, educazione dei figli del patriziato a spese dello stato, gli uffici supremi e la dignità di pari accessibili esclusivamente ai nobili, tribunali di casta pei gentiluomini. Si argomentino da ciò le speranze degli ultralegittimisti, e si misuri la bile delle nuove classi possidenti, di tutte le migliaia e migliaia che si sentivano _citoyens_! Gl'industriali udivano ogni giorno i realisti esaltare la Francia come stato agricolo e condannare l'industria come immorale, e si sentivano minacciati dall'idea, che quegli arrabbiati accarezzavano, di ripristinare le gilde. Le cose ristettero ai discorsi senza freno: lo stato conservò quella preziosa libertà d'industria e di esercizio, che fino a poco tempo fa ha fatto apparire agli operai tedeschi perfino la Francia bonapartista come un paese della libertà. In tal modo, insomma, i gravi interessi sociali erano tutti insospettiti ed eccitati; e la corona, che nella più parte dei casi era affatto incolpevole, veniva tratta dall'insensatezza degli emigrati a esserne tenuta responsabile. La Restaurazione commise nel campo ecclesiastico i suoi errori più gravi, per quanto anche qui la colpa della corona fosse assai inferiore all'accecamento dei suoi fanatici amici. I vescovi dell'antico regime erano gente mondana, inclini alcuni al giansenismo, altri all'enciclopedia, ma legati alla terra dai possedimenti fondiari e dalle parentele patrizie, e perciò patrioti; e vigilavano gelosamente sui diritti dell'episcopato nazionale. In seguito Napoleone fondò il nuovo stato ecclesiastico, cioè una classe d'impiegati senza averi, e parve che effettivamente avesse raggiunto il suo scopo, pubblicamente noto: «il papa raccoglierà gli spiriti sotto la sua mano e li porrà sotto la mia». La Chiesa tremava ancora al fresco ricordo della dea Ragione, i preti s'inchinavano all'imperatore. Napoleone fino agli ultimi giorni della potenza sperò di trattenere il pontefice in Francia e di elevare Parigi a metropoli del mondo cattolico. Dopo la caduta dell'imperatore, la Chiesa si sentì consolidato di nuovo il terreno sotto i piedi; e il mondo apprese con stupore, che il cattolicismo nei giorni della sua passione si era mutato dalle fondamenta, e capì quale spada a due tagli la Rivoluzione avesse brandito contro la Chiesa. Quanto poco conosceva la propria nazione perfino un Mirabeau, se sperava di scattolicare la Francia! Esisteva ora un nuovo cattolicismo, strettamente romano, dominato da una direzione accentrante, che non aveva proceduto con tale austerità nemmeno ai tempi dei Carafa e dei Loyola. Le fila dell'antico clero gallicano si diradano, il giovine clericato senza beni è anche senza patria, e non si cura più di una Chiesa nazionale, ma accorre in vistosi manipoli al campo ultramontano. La Francia diventa il punto di sfogo dello spirito neoromano. Scende al mezzogiorno in guerra aperta di religione contro i protestanti; i provenzali s'impegnano di far salsicce della carne di Calvino. La Chiesa accentrata si foggia una nuova e terribile arma, che presto opererà ad altrettanta distanza e con la stessa potenza demagogica, come in altri tempi gli ordini mendicanti: il giornalismo ultramontano. Lamennais fu il primo, che impugnò quest'arma con tutto il fuoco della fede bretone. Il partito ultramontano cercò subito d'impadronirsi del potere. Nei primi anni della Restaurazione la festa domenicale fu ben presto resa di rigore, e si ordinò agl'impiegati di assistere alle cerimonie della Chiesa. Seguì il divieto di profanazione dei luoghi di culto sotto pena di morte e il ristabilimento della manomorta. In fine fu aperta una breccia anche nell'elaborato assetto giuridico del matrimonio civile: fu vietato il divorzio; un divieto, che fino a oggi costituisce una stridente anomalia nella legislazione francese. Il partito non poté riuscire a una più vasta deformazione della legge, né sotto l'incredulo Luigi XVIII, né sotto il bigotto suo fratello. Ma le sue raccomandazioni erano onnipotenti, e il biglietto di confessione era la chiave indispensabile a ogni favore dello stato, fino giù alle concessioni ai lustrascarpe: sono noti i versi caustici di Platen sul _décrotteur_ impenitente. I berretti vescovili e le tonache entrarono in gran numero nell'una e nell'altra Camera. Il partito osò infine intraprendere una persecuzione frenetica contro una meraviglia nazionale, la letteratura illuminista del secolo decimottavo: Voltaire e Rousseau furono proibiti nelle pubbliche biblioteche e nei circoli di lettura. Mentre queste mene ultramontane spargevano chetamente tra le popolazioni delle campagne una sementa che poi sarebbe cresciuta più tardi con lussureggiante rigoglio, le classi colte cresciute alle idee di Voltaire erano eccitate all'estremo. Stampa e tribuna risuonavano nuovamente di rimbrotti contro la tirannide della Congregazione. Il liberalismo, svegliato di soprassalto, corse alla difesa con tutti i mezzi, e costrinse infine il re Carlo, che se ne discolpò umilmente presso il santo Padre, a violare la carta e ad escludere dall'insegnamento i membri della richiamata Compagnia di Gesù. Ciò non ostante, le persone colte perdurarono nell'opinione, che una casta di preti fanatici era padrona dello stato. Preti ed emigrati scavarono la fossa alla dinastia. III. Con tutto ciò, non abbiamo ancora posto il dito sul male fondamentale della costituzione in Francia. In sostanza, cotesto stato burocratico napoleonico, col suo parlamento appiccicato, era un'astrattezza; nemmeno una dinastia nazionale e un popolo meno ingovernabile avrebbero potuto conciliarsi in pace in uno stato che effettivamente era diviso al cuore. Quando il barone di Blittersdorff visitò Parigi nel 1824, sentì dovunque la lagnanza: «noi abbiamo il dispotismo di Bonaparte, sfruttato dagli emigrati». Similmente scrisse del bonapartismo Paul Louis Courier: _c'est un empire qui dure encore_. La lagnanza era ben fondata; ma si errava, se si attribuiva la colpa a mala intenzione dei governanti. Il difetto era insito nelle stesse istituzioni. La sconsolata incapacità di Guizot a cavar lume dalle cose, non si mostra mai così acuta, come quando ripete il vecchio errore dei dottrinari: che lo strumento, la Carta, era eccellente, ma gli mancava l'artefice abile e bene ispirato. Noi della presente generazione, ammaestrati da una dura esperienza della connessione intima tra costituzione e amministrazione, comprendiamo a stento come mai si sia potuta magnificare quale «sistema inglese» cotesta variopinta struttura statale, i cui membri stridono l'uno con l'altro. Era una fola, quella dei legittimisti che salutavano come _roi désiré_ il pupillo dello straniero; né era meno un errore, quello dei costituzionali celebranti il datore della Carta come _roi législateur_. La Carta non meritava affatto il nome di legislazione fondamentale, perché non mutava nulla alle fondamenta del nuovo stato, all'organizzazione amministrativa di Napoleone. Solo il consiglio di stato cedé alcune delle sue attribuzioni al ministero responsabile; rimase però come corte suprema pel diritto amministrativo nel più ampio significato; rimase come capo dell'amministrazione, deliberò su tutte le leggi e regolamenti della corona, e fu, come sotto Napoleone, l'alta scuola dei funzionari amministrativi. Tutti gli altri uffici serbarono la stessa sfera di attività che l'imperatore soldato aveva loro prefinito. L'amministrazione era assolutamente indipendente di fronte ai tribunali, ai governati, alle Camere. Quanto alla situazione dell'amministrazione davanti al potere giudiziario, era inevitabile che i vecchi parlamenti, che erano stati come protettori dei diritti del popolo nei tempi di fermento anteriori alla rivoluzione, in seguito, dopo che questa fu scoppiata, fossero tenuti come difensori degli esecrati privilegi. L'assemblea nazionale, quindi, cercò di preservare l'applicazione delle nuove leggi rivoluzionarie dagli attentati dei tribunali ostili alle innovazioni, e decise (16-24 agosto 1790): i giudici non devono mai turbare l'attività dell'amministrazione e citare davanti a sé i funzionari amministrativi per atti inerenti alle loro funzioni. Con ciò era elevata a legge l'emancipazione dell'amministrazione dal potere giudiziario, quale già l'aveva desiderata l'antica monarchia, e affermata col fatto. Tutte le proteste della storia liberale tendenziosa non sopprimono la realtà positiva: gli anni stessi della Rivoluzione spianarono con piena innocenza il terreno al moderno dispotismo amministrativo. Su questa base continuò a costruire il primo console, e aggiunse nella costituzione il famoso articolo 75. Vale ormai di norma: chi si vede leso dall'amministrazione, e ciò anche nei suoi diritti privati garantiti dal codice, avanza la sua querela secondo il tramite e i gradi ordinari dell'amministrazione fino al ministero o al consiglio di stato. La persecuzione giudiziaria degli atti dei funzionari è ammissibile solamente in base all'_autorisation préalable_ del consiglio di stato: questa autorizzazione è concessa ove si tratti di delitto da parte dei funzionari; nella più parte degli altri casi è rifiutata. Nessun tribunale può elevare conflitto di competenza contro un magistrato amministrativo; l'amministrazione, però, deve essere tutelata dalle usurpazioni dei tribunali. Il funzionario amministrativo è puramente un organo senza volontà dei suoi superiori: il principio giuridico, che ognuno risponde dei propri atti, è interpretato dal consiglio di stato secondo la _tradition des bureaux_, nel senso, che l'ordine del superiore sgrava di ogni responsabilità i subalterni in caso di trasgressione della legge. Il funzionario tedesco, a cui i costumi politici del nostro popolo hanno sempre accordato una certa indipendenza dall'alto, è ignoto ai francesi. Aggiungiamo inoltre la misura avara, indegna di un grande stato, degli stipendi in Francia, dove, per giunta, il costo della vita è più caro; il che da una parte favorisce la disonestà ormai divenuta storica della burocrazia francese, e perciò rincara l'amministrazione già senz'altro dispendiosa, e dall'altra aggrava la dipendenza dall'alto; e abbiamo l'immagine di una gerarchia di uffici, che non si può congetturare più illimitata. Non era menomamente un governo dell'arbitrio. Il consiglio di stato, che deliberava collegialmente, eccelleva sempre per giustizia e competenza. L'amministrazione si dà un ordinamento giuridico, interpreta le leggi e le completa coi regi avvisi, e si emancipa dal potere giudiziario così completamente, come non aveva mai osato nessun principe europeo prima di Napoleone. Le competenze di questa strapotente amministrazione erano ampliate dalle leggi eccezionali, che ritornavano periodicamente, a causa delle continue cospirazioni di quei tempi bollenti. L'esecrato tribunale eccezionale del Prevosto fu esplicitamente riconosciuto dalla Carta. Ma le stesse corti ordinarie avevano ottenuto da un tratto magistrale del dispotismo napoleonico una organizzazione, che a lungo andare rendeva impossibile ogni opposizione dei tribunali all'amministrazione. Le corti si dividevano in piccole commissioni, a cui i rispettivi membri erano assegnati per brevi periodi di tempo. Questo sistema, che poi purtroppo fu accolto anche in Germania, fu meglio elaborato dalla Restaurazione; e andava da sé, e i Francesi lo capirono bene, che le commissioni giudiziarie più importanti per le questioni di diritto pubblico erano composte solamente dagli uomini del partito che era al potere. La tanto celebrata eguaglianza si rivelò praticamente per una intollerabile ineguaglianza in pregiudizio della minoranza parlamentare. Il conflitto tedesco-danese ci ha insegnato, che una nazione dominante straniera preme sui soggetti più pesantemente di una corona assoluta forestiera; e la Francia costituzionale venne a sperimentare e ad apprendere, che un partito che comanda al potere giudiziario e all'amministrativo, abusa della sua forza per lo meno con così poco riguardo, quanto un imperatore soldato. Il capo del governo, il re, possiede per giusta conseguenza la prerogativa costituzionale di emettere tutti i decreti richiesti dall'applicazione delle leggi e dalla sicurezza dello stato: l'abuso di questo articolo 14 della Carta fornì l'incentivo alla cacciata dei Borboni. La gerarchia burocratica è altrettanto autonoma di fronte ai non impiegati. Ogni azione in questo stato procede dagli uffici stipendiati dello stato; non esistono magistrati civici nel senso tedesco, né funzionari nominati o eletti dai comuni. Certamente, accanto al prefetto c'è il consiglio generale, accanto al sottoprefetto il consiglio distrettuale, accanto al sindaco il consiglio comunale: tutti collegi di non impiegati, che sono nominati su analoghe liste dal re o dal prefetto. Ma questi consigli, di regola, hanno solamente potere consultivo o quello di un modesto parere; perfino sul bilancio comunale il consiglio comunale non ha altra facoltà che consultiva. Solo in rarissimi casi sono autorizzati a deliberare; per esempio, sull'amministrazione dei beni comunali. L'azione, l'esecuzione spetta solo ai funzionari dello stato, che rispetto ai consiglieri stanno come capi, non già come primi tra pari. I prefetti e i sottoprefetti tengono ininterrottamente nelle mani l'amministrazione, mentre i consigli generali e distrettuali sono convocati transitoriamente, solo per breve tempo. Anche i subalterni sono nominati dallo stato e gli aggiunti del sindaco sono, come questo, sotto l'ordinamento amministrativo del consiglio di stato. Un diritto pubblico siffatto non consentiva alcuno spazio alla doppia qualità del borgomastro tedesco, il quale aveva l'ufficio di organo del potere statale e, insieme, quello di supremo rappresentante del comune autonomo. Tutti sanno, che un formalismo letale e meccanico crebbe a rigoglio su questa gerarchia burocratica meravigliosamente ordinata e rispondente, e che la decisione di ogni più importante problema amministrativo era nelle mani degli uffici di Parigi. Inoltre, la naturale tendenza di una burocrazia in cui si concentrava tutta l'attività dello stato, e le richieste di continuo crescenti dei governati, dovevano spingere all'eccesso quella voglia del governo di molti, che Dunoyer ha caratteristicamente descritto come un socialismo amministrativo. Dall'amministrazione puramente burocratica derivò infine il rapporto malsano dell'impiegato col pubblico. Un ordinamento burocratico che tiene lontano il non impiegato, offre un bersaglio troppo ampio al sospetto e all'antico vizio nazionale dell'invidia; poco mancava, in quei tempi di lotte di partito, che ogni impiegato, solo per questa sua qualità, apparisse sospetto ai governati. Una volta scappò detto a Napoleone: «se la guerra non fosse per me indispensabile, principierei col comune il nuovo organamento della Francia: la macchina della nostra amministrazione principia appena a organizzarsi». Con simili lampi geniali i grandi uomini di stato, del pari che i grandi scrittori, intendono di dimostrare ai critici, che essi stessi discernono i punti deboli della propria opera con più chiarezza che i censori forestieri. Ma non conviene dare eccessiva importanza alle parole buttate lì occasionalmente: lo stato napoleonico, il carattere del despota non comportava un ordinamento amministrativo diverso. Dopo l'apparizione della Carta, bisognava bene aspettarsi una campagna vigorosa contro il più terribile e importante strumento del dispotismo napoleonico. Ma da chi doveva venire la riforma amministrativa? Non certo dai radicali. La prima riforma comunale della Rivoluzione, che il vecchio Lafayette magnifica va volentieri come un gioiello «della mia repubblica», si era rivelata troppo chiaramente per un'anarchia costituita, perché potesse di nuovo essere desiderata da un partito serio. Non dai dottrinari. Il più considerevole teorico del governo, Benjamin Constant, parla certamente, come un nato svizzero, con predilezione al federalismo e alla libertà dei comuni; egli chiama l'amore del luogo natio la fonte dell'amor di patria; ma non intende di cavarne le conseguenze per la politica francese. La massa del partito mancava affatto del senso dell'autonomia; il motto d'ordine della loro sapienza era «la Carta, l'intera Carta, non altro che la Carta». Solo alla corte e tra gli emigrati si aveva una seria propensione per la riforma amministrativa. Non si era dimenticato, che un tempo Mirabeau voleva preparare nelle provincie la guerra civile contro la dittatura dalla metropoli radicale. La corona avrebbe volentieri seminato nelle provincie derelitte qualche grano di vita intellettuale autonoma, volentieri avrebbe preservato dalle influenze dello spirito turbolento di Parigi le regioni legittimiste del mezzogiorno. Si ebbe in animo di fondare diciassette università al posto delle facoltà esangui dipendenti dall'istituto centrale di Parigi; si distribuì il superfluo del Louvre nelle gallerie di Digione, Marsiglia e Lione. La nobiltà odiava l'esercito di scritturali, costituito dai _commis_ parigini, con l'antico odio dei signori feudali; e pervenne a ottenere, che i beni comunali confiscati da Napoleone e tuttora invenduti fossero restituiti ai comuni: nei quali propositi assennati ebbe l'appoggio di realisti intelligenti come Martignac, De Serre, Royer Collard. Ma per quei «pellegrini del sepolcro» ogni idea politica torna in ghiribizzo, ogni riforma in leva di costanti cupidigie raffinate. La nobiltà non aveva in orrore lo spirito dispotico della nuova burocrazia, ma i suoi meriti: la sua cultura civile moderna, la libertà della carriera, il diritto comune che tutelava. Dovunque, dagli _Etudes_ di Polignac come dalle confessioni delle teste calde del partito, s'intravvede la speranza che i principi reali e i governatori appartenenti all'alta nobiltà tornino nuovamente a reggere le antiche provincie ripristinate; e segretamente già si lavorava, per introdurre il requisito della nobiltà nei membri dei consigli generali e distrettuali. Si affacciava in tal modo la desolante minaccia di una nuova Lega, di una nuova Fronda, di una distruzione dell'unità statale gloriosamente raggiunta. Tutto ciò che era vitale e moderno nella nazione insorse contro una tale pazzia. E come un tempo la Convenzione aveva condotto la guerra di sterminio alle provincie per completare la Rivoluzione, così ora la nazione dové tenersi alla dittatura degli uffici di Parigi per evitare che l'opera della Rivoluzione fosse di nuovo messa a repentaglio. Insomma, e intendiamolo bene, l'amministrazione napoleonica era dunque nazionale. In questa, nel codice, nella nuova organizzazione napoleonica delle finanze e dell'esercito aveva trovato la sua conclusione naturale un antichissimo svolgimento politico, laddove il giovine istituto parlamentare era evidentemente e rimaneva un esperimento tirato fuori dalle teorie del diritto naturale, e dall'inconsulta scimmiottatura dello stato inglese. Non è un caso, che la lingua la quale ha trovato il nome della sovranità, non sappia rendere l'idea dell'autonomia dell'amministrazione. Nel modo stesso come in altri tempi l'uno e l'altro cardinale, odiati senza misericordia, pure avevano trovato nei ceti più pacifici della nazione i compagni di lotta contro la nobiltà delle provincie, così anche adesso nessun partito, salvo il legittimista, si attentava sul serio a mettere in agitazione la nuova classe degl'impiegati, perché la sua legge di vita era l'eguaglianza. Tutti i rinomati teorici del diritto amministrativo, da Cormenin, spirito positivo e nazionale, come lo definisce Napoleone III, fino a Laferrière, sono unanimi nell'elogio della burocrazia nazionale. L'ambizione e quella ristrettezza di mezzi, che regna di regola nel paese dell'eguaglianza ereditaria e della prodigalità gaudente, spingono fuori ogni anno dalle classi medie una moltitudine di giovani forze aspiranti agl'impieghi. La nobiltà territoriale non aveva né la popolarità né la buona volontà di dirigere essa stessa l'amministrazione del paese in nome della legge, e, con la limitata ripartizione della proprietà fondiaria, era ben limitato il numero degli uomini che avrebbero potuto assumere le cariche. Bordeaux e Lione erano tuttora liete della loro gloria antica, Tolosa si nominava volentieri la _ville reine_ del mezzogiorno, e il marsigliese cianciava: «se Parigi avesse la _Cannebière_, sarebbe una piccola Marsiglia». Ma da queste velleità di orgoglio e vanità municipale alla seria volontà di prendere nelle proprie mani gli affari del comune, la via è lunga. La piccola prosa della vita comunale era considerata, come nel secolo decimottavo, poco degna dell'uomo colto, che doveva riservarsi solo agli eccitanti problemi della grande politica. L'industria moderna aizzava, come dovunque in Europa, il senso materialistico dei grandi industriali, assorbiva tutte le loro forze nella gara ardente della speculazione, e li alienava dalla vita comunale. I parigini guardavano con diffidenza ogni vestigio di spirito di autonomia nelle provincia legittimista: erano sempre disposti ad agitarsi davanti allo spettro di quel federalismo, che un tempo la Convenzione aveva sanguinosamente combattuto, e che i giacobini nelle loro feste riboccanti di buongusto avevano carreggiato per le vie sotto la forma allegorica di una donna terribile, che sputava sangue e aveva le ceraste avvelenate nei capelli. Quanto ai contadini, si accettava la malinconica riflessione di Turgot: un villaggio è un mucchio di capanne e di abitanti indifferenti come quelle. La nazione era abituata a lasciare la cura quotidiana dei modesti affari pubblici ai funzionari dello stato; nei suoi costumi era napoleonica senza essa stessa saperlo. Il che divenne palese, quando il ministero Martignac si presentò al parlamento con le proposte di riforma dell'amministrazione distrettuale e locale. I deputati domandarono con grandi parole alla corona le istituzioni municipali, «questi monumenti delle nostre antiche libertà»; ma le riforme furono respinte, perché lo spirito fazioso delle camere preferì al bene offerto l'irraggiungibile meglio; e tutta la discussione si aggirò soltanto su particolari subordinati. Il governo proponeva che i consigli generali e distrettuali istituiti per nomina dovessero per l'avvenire essere eletti; riforma senza dubbio meritoria; e si disputò appassionatamente sull'estensione di cotesto diritto di voto. Ma il nocciolo del male, cioè la posizione d'impotenza fatta ai _conseils_ consultivi di fronte agli agenti dello stato, non fu toccato neppure dai più accesi oratori dell'opposizione. Come l'amministrazione napoleonica continuò a sussistere incontestata, così le fondamenta dell'organizzazione militare napoleonica furono salve nei nuovi tempi per opera del maresciallo Gouvion Saint-Cyr. Fu abbandonato il nome esecrato, non la sostanza della coscrizione. L'armata non era punto una truppa di mercenari nel comun senso. Non ostante la durata della ferma, non ostante il cambio, che fu tenuto in vigore dall'egoismo dei possidenti, l'esercito francese non si è mai alienato durevolmente l'affetto delle popolazioni. Ma la sua organizzazione era diretta a un'offensiva travolgente. I potenti ricordi del tempo dell'imperatore, il corpo degli ufficiali variamente commisto di cólti e d'incólti, il mobile spirito democratico dei tempi alimentavano l'irresistibile ambizione guerresca. Il grande enimma, come mai il pacifico sistema parlamentare potesse conciliarsi con un esercito forte ed efficiente, si rivelò in questo caso più difficile che mai. Lasciamo volentieri ai bonapartisti la fola partigiana, che il parlamentarismo in Francia sia riuscito affatto inutile. Per lo meno ha impedito molto male. La guerra inevitabile tra la nobiltà e la borghesia ebbe nel parlamento la sua lizza; e queste lotte sociali, esse sole, assicurarono al parlamento l'attenzione appassionata della nazione. Senza il parlamentarismo, gli emigrati probabilmente avrebbero fatto presto ad asservire alle proprie voglie la debole corona. Le camere, col meschino sotterfugio della _chambre introuvable_, hanno sovente tenuto mano alle leggi eccezionali. Ciò non ostante, rimane indubbio se la Francia, senza la perplessità della corona davanti alla sindacatura parlamentare, avrebbe conservata la libertà di stampa e la piena libertà personale. L'efficacia del parlamentarismo non poteva andare oltre questi successi negativi. Le camere avevano facoltà di approvare le imposte fondiarie solo per un anno e le imposte indirette anche per lunghi periodi. Ogni anno avrebbero potuto mettere in questione l'esistenza dello stato respingendo il bilancio: di questo diritto non hanno mai fatto uso interamente; e, soprattutto, l'energico patriottismo dei francesi tratteneva l'opposizione dal pericoloso tentativo di scegliere il bilancio militare a strumento delle sue lotte. D'altra parte le camere non erano autorizzate a impedire direttamente la più insignificante misura amministrativa, e in tutte le questioni di tal natura la burocrazia le fronteggiava con l'immensa superiorità della competenza: una superiorità che si sviluppava sempre più potente, a misura che il progressivo perfezionamento tecnico dell'arte di governo utilizzava anche in questo campo i vantaggi della divisione del lavoro. Data una tale strapotenza nella teoria e all'in grande, e una tale impotenza nella pratica e al minuto, alle camere non rimaneva che una sola via per acquistare influenza sulla direzione dello stato: asservirsi i capi della burocrazia. Già nel 1816 lo scritto di Guizot sul sistema rappresentativo espresse senza tante metafore il desiderio, che l'amministrazione fosse sottomessa alla maggioranza parlamentare. _S'emparer du pouvoir_ è la divisa di ogni partito, e ogni elezione è una lotta per l'esistenza del governo. E mentre la Francia teneva allora lontano da sé il mal costume inglese della corruzione degli elettori esercitata dai candidati, venne però a costituirsi una nuova forma di corruzione, che fece epoca negli stati del continente: tutta quanta la burocrazia raccolse la propria influenza a favore dei candidati del ministero. Si è spesso lamentato cotesto costituzionalismo di orpello dei Borboni, e senza dubbio nessun uomo onesto può lodare le male arti dei sistema. Comandare a una classe d'impiegati ciecamente ubbidienti e indipendenti dal potere giudiziario e _non_ servirsene per mantenersi col suo aiuto al governo, è un atto di abnegazione che in qual modo la legge potrebbe aspettarsi da un ministro, che è un uomo? Quando la burrasca di luglio spazzò la dinastia, allora si vide davvero, che una burocrazia, che non sa opporsi, non può nemmeno sostenere. Quando le camere, passato il movimento della lotta elettorale, si sono costituite e i partiti hanno misurato le proprie forze, sopravviene un compromesso tacito tra le due classi possidenti che sostengono la monarchia: il governo ottiene la maggioranza a patto che soddisfi nello stesso tempo gl'interessi di classe e dell'alta borghesia e della nobiltà. Questo insegna con ingrata chiarezza la legislazione economica del tempo. I finanzieri notevoli della Restaurazione e lo stesso Luigi XVIII professavano le dottrine di Adamo Smith, ma nessuno di loro pervenne alla comprensione che l'economia politica è la scienza praticamente liberatrice e peculiare del nostro secolo industriale; e sacrificarono compiacenti le migliori cognizioni ai riguardi della lotta parlamentare. Il sistema proibitivo era radicato in questo stato fin dal tempo di Colbert: l'amministrazione burocratica e il dazio protettore erano l'effetto di un medesimo spirito statale. Dopo il breve episodio della prima assemblea nazionale, che inclinava alle vedute fisiocratiche, la Convenzione nella lotta contro l'Inghilterra era ritornata al sistema nazionale del commercio, e i divieti d'importazione di Napoleone appagarono pienamente l'egoismo miope degli industriali. I dazi proibitivi sui prodotti industriali forestieri rimasero sostanzialmente inalterati sotto la restaurazione, e l'interesse di classe dei grandi proprietari di terre aggiunse nuovi dazi sui prodotti greggi. L'importazione di tutti i prodotti agricoli nominati fu proibita, o caricata di dazi che eguagliavano il divieto, i cereali furono assoggettati alla scala mobile delle mercuriali, il ferro e l'acciaio furono protetti per riguardo dei grandi proprietari di boschi. La Francia con la sua politica commerciale era alla retroguardia dei popoli civili: tutti gli stati vicini furono lesi, e anche gli staterelli del nostro mezzogiorno furono costretti alle rappresaglie. Cotesta assurdità politico commerciale esercitava, soprattutto, un'influenza nefasta sulla morale pubblica. Il governo non riuscì mai a che le camere ne avessero abbastanza, ormai, di esprimere con inverecondia spaventevole il loro egoismo sociale. Nelle classi possidenti s'insinuarono la diffidenza della propria forza, la credenza che lo stato andasse responsabile della sorte del pigio. «Io temevo più l'invasione del bestiame che l'irruzione dei cosacchi», disse più tardi il maresciallo Bugeaud, grande agricoltore, ed espresse con quelle parole l'animo dei suoi consorti di casta. Intanto l'uomo del popolo stava in disparte mezzo astioso, mezzo indifferente. I Borboni gli erano estranei. Gli omaggi rugiadosi di _loyauté_ delle dame e degli eroi di anticamera al divinizzato «figlio di Europa», l'odierno duca di Chambord, non significano nulla: la stessa venerazione era stata prodigata un tempo al re di Roma, e sarà mostrata più in là da questo _peuple de héros et de valets_ anche al conte di Parigi e al recentissimo figlio di Francia, e certamente anche al figlio di un prossimo detentore del potere. Le moltitudini andavano in visibilio quando i borghesi della camera sventavano un nuovo intrigo reazionario degli esosi emigrati: all'ultimo si fece strada in loro la convinzione, che i gran signori nelle camere curassero solamente i loro propri affari privati. Una camera eletta appena da 90000 elettori non poteva considerarsi rappresentanza popolare, tanto meno in Francia; perché qui dall'indole del popolo e dal livellamento sociale derivava inevitabilmente il suffragio universale, che in Germania evidentemente rimase tuttora allo stato di pianta esotica, di precoce esperimento. Il quarto stato non aveva risentito nulla dei famosi benefizi della Carta. Ne aveva soltanto l'obbligo del servizio militare e una parte iniqua del peso tributario: si vedeva la vita artatamente rincarata dal dazio protettivo, e la cultura intellettuale così scelleratamente trascurata dalla potenza dello stato padrona di tutto, che di 6 milioni di fanciulli in età di scuola, 4 milioni crescevano senza alcuna istruzione. IV. Se ora computiamo di nuovo coteste circostanze, cioè la dinastia stabilita dalle baionette straniere e straniata dai tempi e dal popolo, i segreti raggiri dei preti e degli emigrati, l'amministrazione napoleonica e, infine, l'aspra lotta dei partiti nelle camere, la quale portò poco benefizio al complesso delle popolazioni senza che forse non uno intravvedesse le cause di tale sterilità, noi ci spieghiamo facilmente, che la nazione così eccitabile come era, ed avvezza ai trionfi abbaglianti e alle grandi passioni di un'età portentosa, comportasse sotto cotesto mite regime appena qualche ora di pace interna. Lo spensierato borghese poteva pure, dopo una nuova disfatta dei legittimisti, riposarsi nell'idea, che l'èra della rivoluzione fosse felicemente chiusa: il suo barbiere era un barone, e il conte bancarottiere si era sottomesso al lustrascarpe: gloriosi eventi, che il poeta della borghesia, Scribe, cantava nel suo capolavoro _Avant, pendant et après_ come i frutti d'oro della libertà francese. Lo spirito di opposizione si svegliò di botto, e crebbe potente nella parte più vivace della nazione. Quando Federico Gentz osservò da vicino l'enorme diffusione della letteratura liberale parigina, fu preso da un incubo, come se gli avessero annunciata l'entrata dei Russi a Costantinopoli. Come ai tempi del _Réveil du peuple_, si diceva ora un'altra volta: _si l'aristocrate conspire, conspirons la perte des rois_. Tutto il paese era coperto da una rete di società segrete, che s'intrecciava con le _vendite_ dei carbonari e con la _giunte_ dei rivoluzionari spagnuoli. L'amministrazione dispotica, che impacciava ogni libero movimento delle energie popolari, aveva in ciò qualche colpa: una rampogna anche più aspra colpì i capi dell'opposizione. In quella circostanza principalmente, Lafayette chiuse con una fine degna una vita piena di peccati. Egli era sempre il vecchio Grandison-Cromwell, bollato a fuoco da Mirabeau: un bel parlatore sentimentale, che aveva infatuato la gioventù coi suoi discorsi unguentosi sulla santa insurrezione; e un ambizioso intrigante, che aveva alimentato senza coscienza le più brutali abitudini del tempo della Rivoluzione, ed era riuscito a distruggere chi sa per quanto nel popolo il senso della legalità. Cotesto malcontento divoratore si manifestava in innumerevoli tumulti, attentati, ammutinamenti militari. Il movimento rivoluzionario non si prefiggeva uno scopo definito: alcuni sognavano la repubblica, altri speravano su Napoleone II, altri ancora sul duca d'Orléans. Il sentimento comune dei cospiratori era l'irreligiosità. Il risveglio del partito ultramontano aveva, per rapido contraccolpo, risuscitato l'anticlericalismo della Rivoluzione; giacché in quest'epoca mondiale soltanto l'odio all'intolleranza della Chiesa era in grado di accalorare le classi cólte a prender parte alle questioni di fede. Gazzette e clubs, caricature e teatri si accanivano nel dileggio dei preti; il contrassegno dei liberali era l'avversione alla Chiesa. Come da una parte la corte si adoperava a schiacciare il ricordo della Rivoluzione, così dall'altra tutti gli scontenti erano d'accordo nel farne l'apoteosi. E si avverò anche questa volta il vecchio malvezzo del mondo, di tenere per grandi uomini gli autori di grandi misfatti. Questa generazione agitata non volle proprio saperne del fatto incontestabile, che la maggioranza delle assemblee rivoluzionarie era stata spinta alle sue risoluzioni estreme dal batticuore e dalla codardia; derideva la profonda verità, che il fanatismo è il retaggio inalienabile della grettezza, e che la moderazione del genio è un privilegio di nobiltà. E secondo che le ferite impresse dal giogo ferreo dell'impero si venivano lentamente rimarginando, nella fantasia oziosa del popolo a poco a poco si alzava sempre più imponente e abbagliante la gigantesca figura di Napoleone. Béranger è il cantore più nazionale del tempo appunto per questo, che non si solleva sulla cultura media della nazione, ma senza giudizio critico, come questa, si entusiasma e canta tutto d'un fiato la Rivoluzione e il suo domatore. A chi aveva osservato da vicino il prigioniero di Sant'Elena, cotesto risveglio del culto di Napoleone doveva certo sembrare incomprensibile. La storia moderna non conosce spettacolo, che provochi con tanta violenza l'odio amaro degli uomini, come questa fine furfantina di un grandioso arringo di eroe. Certamente nessun conoscitore di uomini si sorprende, che la passione vulcanica di questo violento si sfoghi ora in una irrequietezza febbrile, e in un maligno arrabbiarsi coi buoi e i gatti del vicino: il non far niente doveva essere un inferno per questo genio della potente attività, il quale non poteva trovare la sua pace nel poetare e pensare, come il filosofo di Sans-Souci. Ma quante menzogne gli scorrevano dalle labbra! con quanta inverecondia ripeteva l'impudente falsità di essere stato attirato in prigione dalla malafede inglese! come ricantava la centesima volta la vecchia fola dell'oro inglese, della neve russa, del tradimento sassone, sole pretese cause della sua orribile caduta, e la nuova promessa dell'impero della libertà, che voleva fondare! E parlando fantasticamente della lega della libertà del futuro, della federazione della Francia con l'Inghilterra e l'America, mostrava sempre però in ogni osservazione della politica del giorno la durezza in nessun modo ammaestrevole del despota: i liberali per lui sono giacobini, Decazes è un ideologo, il disegno di un bill di riforme in Inghilterra è un'utopia. E con che raffinata cattiveria fu bistrattato e denigrato e ridotto alla disperazione Hudson Lowe, finché il povero diavolo, che era un pedante tagliato nel legname, ma era un uomo onesto, entrò negli annali come un babau erostratesco, e fu maledetto dai poeti di tutti i popoli! E quale scena, quando l'imperatore fece staccare dal suo vasellame le aquile gloriose e sminuzzare e vendere l'argento, mentre col fatto avrebbe potuto sempre toccar danaro in Europa dai parenti e dagli avanzi salvati dei suoi beni! Era un sistema ben premeditato, e ne convengono bruscamente il generale Montholon e Las Casas nel noto brano del suo diario; sistema che raggiunse pienamente lo scopo. Lord Holland e i whigs profittarono degli orrori di Sant'Elena come di uno strumento bellico assai comodo contro il gabinetto tory. Quando l'emissario di Sant'Elena incaricato di annunziare all'Europa i misteri della petrosa isola fu, per ordine della corte di Vienna, arrestato e malmenato dalla polizia di Francoforte, trovò, appunto per questo, benevolo ascolto tra i malcontenti tedeschi. E molti anni dopo la morte di Napoleone, Hudson Lowe al suo apparire in Germania fu accusato dai liberali di tentato assassinio in danno del giovane Las Casas. L'imperatore era morto: una lastra di pietra nuda coprì la tomba, a cui l'ignobile nemico ricusò anche il nome glorioso del defunto. Il testamento annunziava con quale ardore l'italiano aveva amato la sua Francia, raccomandava al figlio di rimanere francese e di dare un giorno al paese la libertà, come il padre gli aveva assicurato l'eguaglianza. Al piccolo uomo tornava lusinghiera la notizia, che il grande imperatore aveva legato i duecento milioni della sua privata fortuna all'esercito e, tra gli alleati, ai paesi esausti di frontiera; un incantevole riscontro al miliardo degli emigrati! E la fabbrica delle memorie intraprese subito il suo massiccio lavoro. Lettere, diari, conversazioni dell'imperatore inondano il mercato librario: un miscuglio mirabile di verità e di menzogna, di pensieri geniali e d'infernale malizia, diabolicamente interessante anche per l'avversario. La materia della storiografia imperialistica fu presto elaborata: Bignon e Ségur aprirono la serie di quella istorica faconda, agile, instancabile, ma in fondo sleale, che dominò per trent'anni sull'opinione media dell'Europa, e soffocò gl'ingenui racconti di un Droz o di un Barante. E poi, quale si fosse l'indegnità del vinto, non era forse una figura toccante, che trascinava irresistibilmente la fantasia del poeta, quella dell'uomo incarcerato iniquamente, del prigioniero di milioni di uomini, di questo Prometeo incatenato alla rupe, al quale l'avoltoio britanno lacerava il fianco? Non appena Béranger fece dire all'imperatore «Io sono il Dio del mondo» e celebrò le aquile, compianse i misconosciuti eroi di Austerlitz e gridò il suo angoscioso _adieu donc, pauvre gloire!_ che una voce si aggiunse subito all'altra, finché il coro pieno dei poeti francesi cantò la gloria dell'imperatore. Un solo tra i nuovi poeti rinomati della Francia resisté a tale tentazione (sia permesso di accennare qui anticipatamente alla letteratura della monarchia di luglio). Domandiamoci che cosa voglia dire per la Germania il fatto, che Schiller non abbia condotto a compimento il disegno della sua Fridericiade, e misureremo ciò che significa l'immortalità poetica di Napoleone. S'intende bene come Victor Hugo, a posto su tutte le selle, abbia dovuto montare anche questo destriero di parata: cantò, e lo stile di questi versi bisogna goderlo nella sua bellezza naturale: _ce front prodigieux, ce crâne fait au moule du globe impérial._ Ma anche Lamartine, il nemico leale dell'impero, che avrebbe voluto fare apporre sulla tomba napoleonica l'inscrizione: _à Napoléon--seul!_ fece poi passare davanti ai suoi lettori la figura del prigioniero in un crepuscolo romantico, con le braccia incrociate sull'ampio petto e con la bianca fronte, la fronte meditabonda, china, ottenebrata, sparsa di terrore. Il pittore David, il vecchio giacobino rigido, celebrò in lettere ampollose la grandezza dell'impero. Edgardo Quinet, che più tardi si adoprò a diffondere nel suo paese un giudizio equanime sulla Rivoluzione, a trent'anni ripete fedelmente, nel suo ciclo di canti «Napoleone», tutti i dommi della religione napoleonica, e mise in bocca al despota le parole: _j'ai couronné le peuple en France, en Allemagne_. Se gli uomini più notevoli servivano con tanta compiacenza il feticismo nazionale, s'intende anche quanto si desse da fare il formicaio affaccendato della genticciuola del Parnaso. Spogliando le appendici di trenta o quarant'anni dopo, ci si stupisce a incontrare quasi in ogni numero i _souvenirs de l'empire_. Tutti i teatri dei boulevards compravano le vecchie uniformi della guardia dell'imperatore, e rappresentare l'imperatore col suo piccolo cappello costituiva il pezzo di bravura di ogni caratterista. È chiarissimo seguire il modo con cui questo gioco della fantasia, procedendo timido e riservato sul principio, poi in seguito lasciò andare a mano a mano la vergogna e il buonsenso e arrivò fino all'assurdo sfacciato. Le poesie francesi tradotte da Byron biasimano ancora la sete di sangue dell'imperatore, lamentano che un Napoleone si sia potuto trasformare in sire, l'eroe precipitare a re. Ma come il ricordo delle malefatte dell'imperatore veniva via via sempre più impallidendo, l'infatuazione invece saliva fino all'inconscia e schietta bestemmia. Dopo la morte della vecchia Letizia, i giornali riportarono una poesia di Blanchemain con versi come i seguenti: _et on lui réfusa cette faveur dernière, d'accompagner son fils à son lointain Calvaire, cette autre mère des douleurs!_ La sostanza proteiforme del bonapartismo offrì un'arma a qualunque opposizione, un appagamento a ogni passione nazionale. Era certo assai comodo schernire i Borboni col nome dell'imperatore popolano e il pacifico re dei borghesi con l'eroe di Austerlitz, e contrapporre a ogni governo debole il grandioso ordinamento dell'impero. E siccome lo splendore dell'impero usato per tanti anni dall'opposizione era un po' abusato, venne in fine a tempo la leggenda napoleonica a raggiungere lo scopo. Il duro despota, che si era uniformato al criterio che «solo un soldato sa regnare; bisogna governare solo con gli stivali e gli sproni», adesso, venti anni appena dopo la sua morte, dagl'insensati della mezza cultura era tenuto come un eroe della libertà: il 18 brumaio aveva preservato la Francia dal ritorno del feudalismo, e l'intima natura dell'imperatore si era palesata nella più involontaria delle sue azioni, nell'atto addizionale forzato del 1815! Tra tutti i viventi, dopo Napoleone III, nessuno più del signor Thiers ha potentemente promosso il bonapartismo, e fra tutti quelli a cui il nuovo impero non ha risparmiato i suoi colpi, nessuno meno di lui merita compassione. Chi tuttora nutriva il sospetto, se l'odio di milioni d'uomini al grande macellatore in realtà non avesse fondato motivo, avrebbe potuto illuminarsi all'opera storica del grande _causeur_, la quale con trasparente chiarezza, con cognizione ostentatamente profonda, svolse tutta quanta la magnificenza della mitologia napoleonica nel linguaggio elegante dei _salons_. La disonestà spaventosa di questo libro, l'oltraggioso disprezzo degli avversari era schiettamente napoleonico, e anche più era tale il modo di vedere le cose del mondo, il giudizio storico, a cui s'ispirava il liberalissimo e coltissimo storico. Per l'astuto uomo tutto il senso profondo della storia consiste nelle spedizioni, nelle trattative diplomatiche, nelle misure finanziarie: il supremo giudice storico è per lui il successo materiale; la gloria con i suoi raggi illustra ogni misfatto sanguinoso. Solo una perturbazione dell'ordine naturale, solo le forze diaboliche del tradimento e dello spergiuro, principalmente dell'orribile lega di virtù di Königsberg, poterono defraudare la Francia del dominio mondiale che le apparteneva di diritto. Il 18 brumaio porse allo storico cospirante con la fortuna l'occasione di esibire una filosofia del colpo di stato, che poi uno scolare docile avrebbe con letterale apprendimento applicata sul corpo dello stesso maestro. E cotesto evangelo del bonapartismo era celebrato dall'avversario Lamartine come il libro del secolo! L'armata ritrovò la sua vita e il suo spirito nella lettura della storia delle guerre napoleoniche; vi conobbe tutti gli eroi dei giorni napoleonici, dal mammalucco Rustan fino al grande Cambronne, che in realtà non aveva affatto pronunziata la bella parola «la guardia muore, ma non si arrende»; e frattanto rimaneva in tale risibile ignoranza della storia degli eserciti nemici, che trent'anni dopo il maresciallo Soult chiese premurosamente al nostro generale Brandt informazioni intorno al benemerito artigliere prussiano Scharnhorst. La sopravvivenza di un sistema politico caduto, che conserva la sua efficacia anche senza l'ausilio di un partito vigoroso, è, per quanto io ne sappia, un fenomeno senza esempio. È avvenuto in Francia. Il bonapartismo viveva come una forza attiva nelle istituzioni dello stato, nelle consuetudini politiche, nella fantasia del popolo. Un partito bonapartistico numeroso, cólto, mirante a uno scopo chiaro, non è esistito fino al 2 dicembre. Nei primi anni della Restaurazione il grido «viva Napoleone!» risonò ancora nei tumulti di Lione e di Grenoble; e davanti al caffè Foy a Palazzo Reale accaddero occasionalmente tafferugli sanguinosi tra ex-ufficiali imperiali e legittimisti. E anche nel 1817 Gneisenau, con l'intuito penetrante dell'odio, scriveva che, se Napoleone fosse allora ritornato, governerebbe più illimitatamente di prima, e che fino a quando un soldato dell'imperatore avrebbe avuto il respiro, il popolo ambizioso e vendicativo non avrebbe mai trovato pace. Lo stesso Duvergier de Hauranne confessò, che un trono del re di Roma o del principe Eugenio poteva contare in ogni tempo su numerosi partigiani. Ciò non ostante, partite le truppe straniere, la nazione si buttò appassionatamente nelle lotte parlamentari: spariscono gli ultimi poveri aneliti del bonapartismo. Il partito bonapartista si ritira nell'ombra, mette le mani in ogni congiura: la confusione, l'anarchia è evidentemente il suo scopo prossimo. L'abbate Gregoire, la cui apparizione alla camera era per provocare una così profonda agitazione della vita parlamentare, era stato eletto a Grenoble, una delle più importanti sedi del bonapartismo. Nelle società segrete di Lafayette e complici fu stretta misteriosamente l'alleanza tra i bonapartisti e i radicali. Ma sul momento nessuno credeva al rinnovamento dell'impero. Un tardo avvenire avrebbe appreso, che la santa austerità della storia non è abusata impunemente nei trastulli della vanità. In quella generazione rumorosa alcuni chiamassero pure il vitello d'oro «Napoleone»; altri lo chiamassero «1789»; fatto sta che tanto gli uni che gli altri erano professi d'idolatria. Dietro la deificazione di moda al tempo della Rivoluzione, si nascondevano un'albagia sconfinata della nazione, che godeva di chiamarsi il popolo messianico della libertà, e un disprezzo degli altri popoli non meno frivolo. Si misconosceva la verità, che le forze attive della storia operano onnipresenti ed eterne. Non si voleva vedere, che l'antica struttura bronzea dello stato inglese rappresentava nella libertà moderna una parte per lo meno eguale a quella della Rivoluzione francese. Tanto meno si riconosceva, che la spada della Germania aveva salvato la nobile varietà della civiltà europea, e che i pensatori della Germania avevano di nuovo ricordato al mondo il diritto inalienabile della nazionalità. E si sarebbe pure dovuto capire almeno, che la Prussia con la sua libertà comunale buttava al suo popolo in armi le fondamenta di una società, che non cedeva punto in energia di vita allo stato burocratico della _égalité_. Il pensiero fondamentale di quella mostruosa falsificazione della storia era in questa presunzione: l'Europa è obbligata ad ammirare la Francia, e se un dominatore della grande nazione costringe il continente ad adempiere questo dovere, allora tutto gli è permesso! Ma come e quando quella fatua specchiatura di sé stessi, quell'apoteosi della rivoluzione e dell'impero, con cui si trastullavano le persone cólte, si era diffusa anche nelle popolazioni? in quelle popolazioni, che serbano tuttora sentimenti ingenui e greggi, e che non fantasticano mai senza insiememente volere? Eppure ciò avvenne. Lo stesso imperatore già si era eccellentemente compreso al proverbio: _give me the ballad-making and I will rule the people_. I cantastorie propalavano la gloria della grande armata, figure di cera e illustrazioni mostravano ai contadini i lineamenti dell'imperatore e dei suoi eroi. L'antico appassionamento della gente di bassa condizione pel plebeo che aveva mostrato ai grandi ciò che sa fare la forza di un uomo, ora fu accresciuto dai Borboni con la guerra che, come per un accecamento mandato loro da Dio, bandirono contro tutti i ricordi e le memorie imperiali. Qui un prefetto fece bruciare l'immagine del mangiatore di uomini Bonaparte insieme con un'aquila viva, là fu buttato in carcere un veterano perché portava alla casacca un bottone con l'aquila. La polizia dava incessantemente la caccia alle statuette e ai busti dell'imperatore, che erano venduti nascosti nei pomi dei bastoni o nelle tabacchiere a doppio fondo. La statua della colonna Vendôme fu tenuta celata a lungo nello studio di un artista fidato, adorna di bandiere tricolori, finché i Borboni la fecero prendere di là e rifondere pel nuovo monumento a quell'Enrico IV, che il popolo non conosceva più. Affluirono nei villaggi i veterani, coperti di ferite, derelitti, offesi dai nuovi luogotenenti nobili che non avevano mai fiutato l'odore della polvere; «e ciascuno di essi diventò un Omero improvvisato dell'epopea imperiale», come dice un orleanista, il conte di Montalivet. Perfino il codice dell'impero dové smettere il nome del suo autore, e i partigiani dell'imperatore furono perseguitati perfino sul vestibolo neutrale dell'accademia. Anche all'estero le popolazioni non si stancavano di almanaccare sull'uomo satanico. La fantasia degli orientali fuse questa figura di eroe con un'altra apparizione della lontana antichità: i beduini raccontavano della cavalcata nel deserto, che il sultano dei franchi, Iskander (Alessandro), aveva fatta di nuovo a oriente dopo duemila anni. I palermitani sapevano, che il grande isolano sarebbe riapparso e avrebbe precipitato nel mare il massiccio del monte Pellegrino. In Turingia il popolo bisbigliava, che l'imperatore aveva liberato a Kyffhäuser il Barbarossa. E dovunque le moltitudini credevano, che un tale uomo non potesse morire. La credenza in tale immortalità si sparse anche in Francia, a personificare le grandi memorie esclusivamente in questo eroe. Egli era il _gros papa_, il _père la Violette_, e soprattutto il «piccolo caporale». È nota l'influenza e il senso di amor proprio che i vecchi sottufficiali serbano in tutti gli eserciti stanziali; tanto che anche nella campagna del 1859 gli zuavi elessero il re d'Italia a loro caporale onorario. L'imperatore con la sua maestria nel maneggio degli uomini aveva cattivato ciecamente alla propria persona per l'appunto questa classe dei sottufficiali; e se pensava a loro, poteva ben dire con piena confidenza: «chi tocca la mia memoria morde il granito». Anche in quelle provincie del mezzogiorno che un tempo avevano oltraggiato l'imperatore fuggiasco, la gente del popolo non poté resistere a lungo alla propaganda dei veterani: era, in verità, gloria della Francia quella di cui i vecchi narravano i fasti, e il principe della guerra con tutti i suoi delitti era un eroe non meno nazionale del re degli emigrati. Proprio qui, tra le moltitudini, il bonapartismo trovò e trova la sua forza. Si adempì alla lettera la profezia del cantore: _on parlera de sa gloire dans la chaume bien longtemps, l'humble toît en cinquante ans n'aura pas d'autre histoire._ Napoleone pel popolo divenne il rappresentante, il compendio della storia moderna. Il più strano in questo sviluppo della leggenda napoleonica è la cooperazione dello straniero. La lega delle corti legittime e delle forze nazionali, che aveva abbattuto l'imperatore, si sciolse di botto dopo la vittoria. La lotta pel diritto delle nazioni si chiuse con una ripartizione di paesi, che a mala pena era meno arbitraria della trasformazione della carta geografica fatta da Napoleone; la guerra per la libertà dell'Europa approdò a quella dittatura della Santa Alleanza, che comandò solo con un po' più di mitezza, ma incomparabilmente con più inconsideratezza che non un tempo il dominatore del mondo. Un amaro scontento s'impadronì dei popoli delusi, e con quello si fece strada un cambiamento profondo di opinione sulle lotte passate: un cambiamento, che ancora oggi suscita il malumore in noi patrioti prussiani, e che pure era necessario, se la vita tedesca era destinata a non cadere interamente nel sopore. In una parola, i tedeschi si abituarono a guardare con gli occhi dei loro nemici l'episodio più glorioso della loro storia moderna. In Prussia, dove il nobile sentimento della guerra di libertà non sparì mai interamente, la vita pubblica si era estinta, la nazione curava in silenzio le sue piaghe, e la pazzia della caccia alla demagogia e l'aggiornamento della costituzione soffocavano la pura gioia della grande lotta. Mentre i francesi non erano mai sazi di contemplare le immagini della loro rivoluzione, in Germania né l'arte né la storiografia presero a trattare la grata materia della guerra di liberazione; e, d'altronde, se l'arte propende al culto degli eroi, si compiace di essere svegliata più dallo splendore di un grand'uomo, che dalle gesta di un gran popolo. Lo spaccio pubblico della vita tedesca era dominato dai liberali dei piccoli stati, uomini cioè, che non partecipavano allo sdegno eroico della guerra tedesca; e tra loro molti erano ebrei, i quali, messi in un cantone da leggi imprudenti, non potevano certo acquistare facilmente il sentimento sereno dell'orgoglio nazionale tedesco. Al rude odio ai francesi dei giorni teutonici successe una divinizzazione parimente cieca della vita francese; la gioventù, che si era affacciata alla vita così compatta e con freschezza così giovanile e tedesca, si ruppe rapidamente in leghe segrete, sull'esempio dei cospiratori francesi. È lecito affermare, che gli ultimi due decenni hanno precluso ai tedeschi meridionali l'intelligenza della guerra di libertà. Presto doveva rivelarsi l'affinità elettiva che collega il liberalismo triviale con la burocrazia e col senso apatriottico, col nessun sentimento di patria. Non appena il partito ultramontano in Baviera si arrischiò a mostrarsi di nuovo, subito i liberali desiderarono il ritorno dei giorni di Montgelas, e parecchi tirolesi illuminati maledissero la memoria di Andrea Hofer. La gioventù di Westfalia e di Berg si sollevava al grido «avanti coi diritti neolatini!». Il primo tentativo di abolire il codice Napoleone mise in agitazione tutte le regioni renane. Pel secolo democratico l'eguaglianza poteva più della nazionalità. Il codice era stimato liberale perché aveva introdotto l'eguaglianza incondizionata davanti alla legge e, inoltre, l'istituzione dei giurati. Si tornò all'antica regola, che il nostro occidente assorba più civiltà che non ne emani; e furono accolte con gratitudine tutte le meraviglie della libertà francese, culto napoleonico incluso, perché l'imperatore era il nemico dei nemici del radicalismo. La nascita del quale, sorto di peso dalla democrazia forestiera, offre uno degli spettacoli più ripugnanti della storia tedesca. Di anno in anno le teste calde della nostra gioventù accorrevano alla città della libertà, e predicavano la genialità del primo popolo del mondo, il quale senza l'oppressione della tirannide scolastica tedesca si educava da sé, con tutta spontaneità, al coraggio e alla libertà, allo spirito e alla bellezza. Quando un avversario di Napoleone, il Börne, si trovò davanti alla colonna Vendôme, domandò: «il giunco tedesco diventa più forte, sol perché l'uragano abbatte la quercia?», e si scordava della piccola inezia, che l'uragano eravamo noi. L'andazzo era tutto concorde in una siffatta diminuzione delle gesta tedesche, in un siffatto svillaneggiamento della patria; e non tardarono alcuni cervelli esaltati a correre alle conseguenze estreme, e a presentarsi apertamente in veste di sacerdoti di Napoleone, come fece specialmente Enrico Heine. La rabbia contro la Prussia e il linguaggio dei feudali di Potsdam, e quella frivola civetteria che con la glorificazione del genio mira insieme a mettere in mostra il proprio genio, cavarono al poeta l'odioso «Libro di Le Grand». Solo la perfetta assenza di carattere e di pensiero della corte di Vienna spiega l'enimma, come mai al poeta radicale si sia associato, secondo, il signor di Zedlitz: il panegirista sfegatato del principe di Metternich intrecciò una corona funebre al côrso, e vi aggiunse l'idolatria pei francesi. Fu anche più notevole il fatto, che la stessa letteratura amena, che è impolitica per natura, s'iniziò al culto di moda: innumerevoli novellisti e lirici, come per esempio Guglielmo Hauff nel libro _Bozzetti dell'imperatore_, glorificarono senza secondi fini l'eroismo imperiale. Anche in Germania la leggenda napoleonica ebbe seguito specialmente nel popolo. Noi pure avevamo i nostri veterani napoleonici: l'esercito sassone vantava come sua gloria suprema la giornata della Moscowa, e il bavarese la campagna del Danubio del 1809. Chi visita le antiche case franche del nostro mezzogiorno si abbatte in una quantità innumerevole di ritratti dell'imperatore, e qua e là, nelle regioni anteriori dell'antico impero d'Austria, in qualche figura dell'arciduca Carlo e della battaglia di Stockach, ma non incontra quasi in nessun luogo una vecchia immagine di Blücher o di Stein. Una volta in una locanda di campagna nell'alta Selva Nera io vidi una figura ingiallita di venti anni prima, di quelle vendute nelle fiere. Un animale con tre corpi e una testa (la domesticità tedesca ha in maniera singolare eletto l'innocente cervo in luogo di una bestia imparlamentare) giace pigro e stupido nel bosco: tra gli alberi si eleva gloriosa l'ombra di Napoleone; sotto si leggono i versi: Tu ci vedi qui all'aria aperta importunati da una sola testa. Ora indovina a chi di noi tre appartiene la testa. Dopo la morte di Hudson Lowe i fogli radicali tedeschi dedicarono all'uomo, che un tempo era stato onorato dall'amicizia di Gneisenau, il melodioso addio: Finalmente, o tomba, tu nascondi il mostro vomitato dall'umanità, come l'avoltoio ecc. ecc. Un conoscitore della parte indiscriminata della nostra letteratura aggiungerebbe facilmente dei bei pezzi complementari. I fogli radicali degli ultimi trent'anni formicolano di allusioni maliziose all'imperatore. «Il risveglio di Napoleone, ovvero Egli vive ancora. Sogno di un principe legittimo», tale è il titolo di un articolo nello «Staffile» (_Geissel_) di Hundt-Radowsky, sul quale la polizia tedesca braccava con zelo particolare. Per quanto siffatte velleità non abbiano alcuna importanza, pure un francese, che osservi superficialmente, ne avrebbe abbastanza per dire con una certa verità, che la venerazione dei suoi compatrioti per l'imperatore liberale è nutrita anche nei piccoli stati tedeschi. In Italia il risveglio dell'entusiasmo napoleonico fu incomparabilmente più forte e più giustificato. L'imperatore era considerato come il più grande degl'italiani: aveva risuscitato dal sonno millenario il sacro nome del paese, aveva frenato con leggi moderne l'antico disordine tradizionale, aveva versato con gesta senza pari un'ambizione inquieta nel cuore della snervata gioventù. Di tanto in tanto all'Elba gli era ribollito nelle vene il sangue italico: egli promise: «a Parigi sono stato un Cesare, a Roma sarò un Camillo». Sulle nuove strade alpine, nell'arena cesarea della capitale lombarda, nel duomo risorto dalle rovine, nell'Arco di trionfo, a cui l'imperatore aveva destinato l'Impresa di Alessandro del più grande scultore moderno, e che ora glorificava le imprese dell'Austria, l'italiano incontrava a ogni piè sospinto nel settentrione della penisola le orme del grande compatriota. Il suo Regno d'Italia era stato un governo ben più umano e nazionale del dominio austriaco e della forca borbonica. L'odio ai francesi, che la musa di Alfieri aveva bandito alla gioventù, dileguava a poco a poco sotto la cupa compressione della nuova dominazione straniera. Niccolini, che in altri tempi con un alto grido di sdegno aveva atteso sulla via di Brenno il figlio d'Italia discendente dalle Alpi, e non aveva trovato che sarcasmo per l'iscrizione della medaglia commemorativa francese _l'Italie délivrée à Marengo_, adesso intonava canti di disprezzo pei nani che ballavano sulla tomba del gigante. Il cordoglio umano pel trapasso di una grandezza unica suggerì a Manzoni l'espressione travolgente in quella poderosa ode, che con una strappata geniale leva via la sostanza dalle maraviglie dell'impero: _E il lampo dei manipoli E l'onda dei cavalli_: e perciò essa sola vale tutte le altre opere dell'epopea napoleonica. Il giovine Santarosa nei suoi primi scritti aveva maledetto il tiranno, che aveva arrossato d'italo sangue i piani nevosi della Russia; ma da uomo maturo si riconciliò coi francesi e i napoleonidi. E come lui Massimo d'Azeglio, il figlio dell'emigrato piemontese. Nella bella lettera di conforto che Pio VII scrisse alla madre di Napoleone, non parla soltanto l'uomo amabile, né soltanto il papa la cui Chiesa andava debitrice all'imperatore del ripristinamento, ma anche l'italiano. I carbonari, dianzi nemici di Murat, dopo si erano intesi con gli amici di Napoleone. Il bonapartismo viveva inestirpabile nel cuore degli ufficiali della vecchia armata italiana. Essi avevano rinnovellata per la prima volta sotto il côrso la gloria delle armi nazionali, ed erano adesso i capi naturali di ogni rivolta contro l'Austria, proprio allo stesso modo come i veterani dei lancieri polacchi dell'imperatore avevano nella loro patria elevato a segnacolo di patriottismo la religione napoleonica, e stavano in prima linea in ogni lotta contro i russi. Un cambiamento di opinione principiò perfino tra gli spagnuoli, che poco prima avevano combattuto con odio atroce l'usurpatore. I liberali spagnuoli sfuggiti agli orrori della reazione borbonica avevano cercato, già durante i cento giorni, di stringersi all'imperatore, e quando, otto anni dopo, i Borboni francesi rinsaldarono il trono vacillante del cugino spagnuolo, i veterani napoleonici accorsero tra le fila dell'esercito della libertà delle Cortes. Nel Belgio il grato Verviers eresse una statua all'imperatore, che aveva dato vigore alle industrie cittadine. In Inghilterra l'energia dell'orgoglio nazionale e la sanità dello stato non permisero mai al bonapartismo di diffondersi ampiamente. Una parte della nobiltà whig, lord e lady Holland, lady Blessington e il suo circolo serbarono un'adorazione fanatica pel nemico dei torys. In quel torno Byron levò la voce contro il trionfo delle anime piccole sul genio, e si accordarono con lui, senza però la misura, senza la nobiltà del maestro, alcuni scrittori radicali. V. Per tutto il tempo che l'erede di Napoleone visse come un prigioniero, il diletto fantastico che ebbe il mondo dalla figura dell'eroe non produsse risultati politici immediati. Avvenne come se i napoleonidi si fossero divisi i due opposti principii, che nell'imperatore erano uniti e concorporati. Il duca di Reichstadt ereditò l'assolutismo paterno, gli altri della famiglia tennero le tradizioni rivoluzionarie della casa. Guardando il debole giovinetto coi bei lineamenti del padre quando s'immergeva fisso nella mappa, o quando con vivacità passionata manovrava il suo battaglione o con l'occhio acceso gridava: «un Napoleone deve ritornare in Francia solamente alla testa di un esercito, a viso aperto, non mai come un cospiratore, come un fantoccio dei liberali»; allora si sentiva davvero, che in quelle vene fluiva sangue puro di Napoleone. Tale era stato il padre in quegli ultimi tempi di orgoglio regale, in cui discuteva della legittimità della quarta dinastia, e parlava con affetto di parente del «suo sventurato zio» Luigi XVI. E, in verità, non era necessario il cattivo verso dedicato da Barthelémy al «figliuolo dell'Uomo» per cattivare il sentimento umano a questo essere ineffabilmente triste, a questo giovinetto, che sulle spalle incolpevoli portava le colpe e la calamità di lotte che avevano scosso il mondo. Durante le trattative della seconda pace di Parigi, Richelieu e Pozzo di Borgo avevano messa avanti la proposta di educare l'erede di Napoleone allo stato ecclesiastico: disegno, che il vecchio imperatore considerò sempre come la più terribile sventura per la sua famiglia. Le grandi potenze trovarono l'idea accettabile, e tre anni dopo il gabinetto prussiano scrisse: «la professione ecclesiastica non pregiudicherebbe la sorte del principe e tranquillerebbe tutti». Ma la corte di Vienna non tardò a persuadersi, che quell'animo ardente non era nato per fare il prete. L'imperatore Franz nominò il giovine Napoleone duca di Reichstadt; ma tale dignità fu concessa espressamente, dietro rimostranza della Prussia, alla persona del principe, non ai successori. Si era tacitamente convenuto nella presunzione, che la discendenza di Napoleone si sarebbe estinta¹. La fiaba tanto diffusa e creduta, che l'imperatore Franz facesse struggere il nipote tra eccessi precoci, certamente è rifiutata da un pezzo: rispetto al giovine principe non fu seguito altro metodo di educazione, se non quello antico di prammatica secondo il quale erano istruiti gli arciduchi genuini. Il che non vuol dire che l'educazione del duca di Reichstadt non facesse degno riscontro a quel premeditato trattamento dei prigionieri dello Spielberg, che il paterno imperatore dirigeva personalmente. Mentre la sposa austriaca di Napoleone si consolava con l'adulterio sfacciato, tra le braccia del luogotenente maresciallo Neipperg, che null'altro possedeva fuori degli ambigui meriti di bell'uomo, il figlio dalle arti del nonno era reso completamente straniero al suo popolo, straniero alla propria casa. Anche il gran nome di Napoleone gli fu interdetto; l'educazione dell'arciduca Francesco Giuseppe Carlo fu condotta nell'odiosa lingua tedesca. E quando il precoce fanciullo fu preso dal ricordo sempre più attraente e limpido dei giorni in cui fu re, della carrozza d'oro tirata dalle caprette che lo portavano nei viali del giardino delle Tuileries fra gli scoppi di acclamazione dei parigini, proprio allora egli apprese da alcuni assolutisti della più pura acqua la verità intorno a suo padre, o ciò che in una corte simile si chiamava verità! Lo sventurato meditava ora sulle parole promettenti del poeta: «Coraggio, coraggio, o figlio degli dèi, cacciato dal tempio; tu porti sulla fronte il sigillo della origine sacra!». A Schönbrunn era nota l'ansia con cui il despota sospettoso tremava davanti all'idea dell'età maggiore di un tal nipote. L'ambasciatore del Würtemberg, Wintzingerode, scrisse fin dal 1817: «qui a Vienna si principia ad aver paura della crescenza e della spupillatura della dieta più ancora che del giovine Napoleone». Quale destino, i giorni d'oro della fanciullezza tra la diffidente malvagità di nemici implacabili! ¹ Ciò secondo relazioni dell'ambasciatore prussiano a Vienna, generale Krusemark, 4 e 11 febbraio 1818. Napoleone I intravvide il disegno, come dimostrano i _Mémoires du roi Ioseph_ (x, 268). _Les rois m'adoraient au berceau, et cependant je suis à Vienne!_ Per quanto la sciocca vanità dell'austriaca e i dolori del figlio ribellassero ogni cuore francese, pure la madre di Napoleone suscitò un appassionamento forse anche più profondo. Da quando vivono gli uomini, un religioso timore accompagna le madri dei grandi uomini: la poesia antica possiede pochi luoghi così toccanti, come quel passo di Giovenale, in cui il poeta rimprovera Messalina di aver profanato con le colpe delle sue notti dissolute il corpo che aveva portato il magnanimo Britannico. Ma la madre di tanti re e del primo uomo del tempo, che portava il suo destino con la dignità di una matrona romana, che suscitava dovunque con parole di vero compianto la pietà per «il mio grande e infelice esiliato di Sant'Elena»: «in verità io sono la madre di tutti i dolori», scrisse al cardinal Consalvi: che nella miseria non smarrì nemmeno per un istante la fede nella stella della sua casa: cotesta pallida figura di sofferenza dal nero e profondo occhio côrso, in nere gramaglie, col diadema dei giorni imperiali intrecciato nei capelli canuti, non era forse un'effigie di umanità, che non si poteva dimenticare? Un atto d'impero del Congresso di Vienna «nell'interesse della pubblica quiete» pose la casa dei napoleonidi sotto la sorveglianza dell'Europa. In ciascuno dei pochi paesi, in cui si era loro permesso di accedere, l'ambasciata delle cinque potenze aveva l'incarico della loro vigilanza, e le autorità erano responsabili della loro buona condotta. Nelle lettere di rimostranza dei Bonaparte condannati al confine ritorna sempre non senza ragione il motto: «noi preferiamo di vivere sotto i Borboni o in Prussia, anziché tollerare un trattamento simile!». I Borboni perseguitavano con un odio cieco la casa del loro capitale nemico. Una legge draconiana proibiva sotto pena di morte ai parenti di Napoleone, anche alle mogli e ai figli, di metter piede in suolo francese. Perfino all'innocente zio Fesch fu vietato di ricomparire nel suo vescovado di Lione. Furono respinte anche le richieste di crediti dei Bonaparte, sebbene legalmente valide. I Borboni di Napoli infastidivano il papa con le continue sollecitazioni di espellere gl'incomodi rifugiati. Più degnamente, sebbene non meno ostile, si comportò la corte prussiana, pur così indimenticabilmente offesa dall'imperatore. Il re col suo sentimento di giustizia appoggiò le pretese pecuniarie dei napoleonidi per quel tanto che erano eque. Ma a nessuno della pericolosa progenie fu permesso di varcare le frontiere prussiane; e gli ambasciatori all'estero ebbero istruzione di vigilare nel modo più rigoroso sulle persone sospette. La corte di Vienna, una volta entrata nel vergognoso parentado, non era più in condizione di vietare addirittura ai suoi parenti il soggiorno nei paesi della corona. E rimediò col sistema dei meschini espedienti polizieschi di perquisizioni e tastamenti. Il principe di Metternich, che in queste faccende non immischiava nemmeno il suo birro di fiducia, non faceva che informarsi ansiosamente, con lettere di suo pugno, sulle mosse della duchessa di Saint-Leu o del conte di Monfort. Non appena corse voce, che il conte Possé, genero di Luciano, sarebbe nominato ambasciatore di Svezia in Italia, il cancelliere scrisse immediatamente al duca di Modena intimandogli di protestare contro la possibile nomina. Con grande mitezza si comportò invece la corte russa, imparentata con Gerolamo e coi Leuchtenberg; più di una volta, anzi, i suoi diplomatici protessero i Bonaparte dalla grossolana persecuzione poliziesca. Ma qualunque iniquità delle grandi potenze era superata dal trattamento rivoltante, che la casa di Girolamo era destinata a sperimentare da parte di uno dei più zelanti servitori dell'usurpatore. Nessuna casa regnante era obbligata all'imperatore più di quella del Würtemberg; perché «prima di Napoleone», come lamenta Gerolamo nelle sue memorie, «non era mai esistita una nazionalità würtemberghese», e il mondo intero sapeva, che le _fumées du Germanisme_ non avevano mai menomamente dato alla testa né al re Federico né ai suoi fedeli. Ma non appena la caduta di Napoleone fu un fatto, il re pretese che sua figlia Caterina si dividesse dal marito che egli stesso le aveva dato. Dalla nobile donna, legata al marito con fedeltà tedesca, ricevé degna risposta: «io ho partecipato alla sua fortuna, ed egli mi appartiene nella disgrazia». Il padre fece rapire la figlia e trasportarla a forza nel Würtemberg; e per un anno intero martirizzò moglie e marito nel castello di Ellwangener, per impadronirsi dei loro beni. Maneggi infami, che misero in luce tutta l'abiezione dello staterello renano e non furono dimenticati dall'istinto vendicativo del sangue côrso. L'odio dei nemici, dunque, spinse la famiglia dalla parte della rivoluzione e le procurò la fortuna di non essere dimenticata. Alcuni dei Bonaparte si stabilirono in quella Toscana, dove un tempo era vissuto il santo Napoleone, la più parte si raccolsero a Roma intorno a _Madame Mère_. Riannodarono le antiche relazioni italiane, s'imparentarono, per ordine dell'imperatore, con le grandi famiglie romane. Il detronizzato sperava, che un Bonaparte sarebbe salito un tempo al soglio di San Pietro: _il faut s'emparer de Rome_. Non erano affatto signori raffinati, mostravano anzi qualcosa della logora eleganza del _tailleur endimanché_; ma nemmeno caddero in quel vuoto fatuo, che distingue i legittimi pretendenti. Alcuni si occupano di letteratura, altri sono al servizio delle forze radicali del tempo: un Bonaparte combatte e cade a Spetza tra i filelleni, un secondo entra nell'esercito degli Stati Uniti. I napoleonidi tengono carteggio in tutte le parti del mondo; il loro fido Abbatucci viaggia qua e là senza posa. Soffiano nel fuoco di ogni setta che agita l'Italia, e di tanto in tanto si ricordano ai contemporanei con un atto premeditato a impressionare. Gerolamo scongiura con una lettera commovente il principe reggente inglese, che gli sia permesso di recarsi a Sant'Elena a consolare l'infelice fratello; e si dà con ardore alla ricerca, purtroppo vana, di quelle inestimabili lettere, che i principi legittimi avevano deposto ai piedi di Napoleone al tempo della fortuna; e tenta ciò che appartiene propriamente al mondo furfantino. Tra i napoleonidi i più attivi si rivelarono i Beauharnais, e, insieme, i più amabili, perché immuni dalle allumacature di volgarità attaccate indelebilmente ai genuini Bonaparte. Eugenio cercò di compensare con la solerzia di una segreta attività la debolezza mostrata alla caduta del patrigno. Viveva a Monaco come principe reale, amato da tutti e assai popolare, e aveva intorno una piccola colonia di francesi scontenti. Il suo aiutante, il generale Bataille, possedeva grandi beni a Milano, e manteneva strette le relazioni coi patrioti del Regno d'Italia. Il principe stesso si recava frequentemente ad Augsburg dalla sorella Ortensia, mandava da Abel in viaggio la moglie, a lui molto devota, con incarichi segreti, e insieme coi due Las Casas, al loro ritorno da Sant'Elena, lavorava all'ordito della leggenda napoleonica. Questo focolare tedesco del bonapartismo, come avvertì sovente anche il principe di Metternich, fu lasciato tranquillo: tra i familiari di Eugenio si annoveravano molti ufficiali postali e lo stesso direttore della polizia di Monaco. Persisteva tuttora alla corte e nell'esercito un forte partito bonapartista: una volta il re Massimiliano Giuseppe disse chiaro e tondo all'ambasciatore borbonico: _il vous faut un Eugène!_¹. Del pari instancabilmente esercitava la propria influenza Ortensia, la donna piena di spirito, gaia, leggera, che con l'incanto della sua conversazione aveva saputo incatenare a sé perfino la musoneria degli antichi castelli. Ella avverò ciò che aveva predetto il patrigno: _elle embellira mon histoire_. Beniamina dell'imperatore e dei parigini, aveva predisposto in silenzio le sue cose fin dal movimento dei cento giorni, e dopo la seconda caduta di Napoleone era rimasta tuttora a Parigi, e vi spandeva oro a piene mani, fino a quando non fu espulsa dal generale Müffling. Ad Augsburg faceva ora la principessa amica del popolo, e teneva un vivo carteggio con l'ambiziosa vedova di Ney. Poi a Roma il suo salotto ospitale procurò al bonapartismo numerosi aderenti tra gli stranieri illustri di passaggio, e molti affiliati, di cui suo figlio un giorno si sarebbe prevalso. Con tutto ciò, il ripristinamento dell'impero non si profilava sull'orizzonte, fintanto che l'unico possibile pretendente, Napoleone II, era in balìa della corte di Vienna. Lo stesso conte di Survilliers, Giuseppe Bonaparte, che tra i fratelli dell'imperatore aveva le maggiori qualità ed era il più radicale, stava tranquillo nei suoi poderi del Delaware, e allontanò Lafayette, quando questo _hiros des deux mondes_, andato a fargli visita durante il suo viaggio trionfale attraverso l'America del Nord, gli tenne parola dell'esaltazione del re di Roma. ¹ Su queste circostanze poco note dànno numerose informazioni i rapporti mandati da Monaco dal generale Zastrow ambasciatore di Prussia negli anni 1817-22. Non c'era ancora l'uomo, che condensasse in un'idea concreta le vaporose speranze dei napoleonidi; il terrore della borghesia davanti agli orrori delle guerre dell'impero seguitava tuttora a essere più forte del culto fantastico per l'eroe; la Francia credevo ancora in un avvenire parlamentare. I Bonaparte davano nel vuoto; e proprio allora i preti e gli emigrati s'impadronivano di re Carlo e spingevano la borghesia alla giusta difesa. Principiò un governo rivoluzionario. Il quale si vantava, e con lui i seguaci, di unificare in sé le grandi memorie del paese tendenti a disperdersi. Si giudicarono maturi gli ultimi frutti della Rivoluzione, e l'esperienza di pochi anni insegnò, che l'aristocrazia del danaro sfruttava a proprio vantaggio l'immutabile stato burocratico napoleonico con tutta la grossolanità di una morale solvibile. PARTE TERZA L'ETÀ DELL'ORO DELLA BORGHESIA L'età dell'oro della borghesia. [Scritto in Heidelberg nel 1868.] I. Emilio Augier in una scena di non ricordo quale delle sue squisite commedie, fa dire a un fratello spiritoso: «Noi somigliamo a quell'uomo, che pigliava sette raffreddori al mese e si guariva di tutti, eccetto che del primo. Così anche la Francia ha superato felicemente tutte le sue rivoluzioni, eccetto la prima». Lo scherzo a quel tempo fece molto ridere, perché con una trovata piccante esprime il pregiudizio nazionale, che nell'anno di grazia 1789 la sapienza politica fosse scesa in terra in carne e ossa, e che l'avvenire non abbia altro incarico, che di menare ad effetto le verità salvatrici di quella rivelazione. Cotesta credenza non era stata mai tanto salda nei francesi, come nei primi mesi dopo la settimana di luglio, quando l'Europa guardava a Parigi con legittima ammirazione. La capitale con una sollevazione unanime e magnanima aveva difeso la carta costituzionale contro il colpo di stato della corte, e nel turbine della lotta non aveva dimenticato di risparmiare patriotticamente i soldati del paese. La vittoria della rivoluzione sull'antico regime parve subito completa. Sparirono la vecchia dinastia e la camera della nobiltà e con loro le forze che sole finora, come si pensava, avevano isterilito al paese i frutti del 1789. La Francia, come dice la Carta rimaneggiata, riprende i suoi colori. L'animale indeciso, ma di sensi supremamente liberi, che si è convenuto di chiamare il gallo francese, riprincipiò a cantare. Sullo stemma della grande nazione campeggia come simbolo assai significativo un libro aperto con l'iscrizione: «Carta del 1830». Il nuovo re borghese fa sparire gli esecrati gigli anche dal proprio stemma di famiglia. E non solo i folleggianti della gioventù radicale, come il nostro Heine, opinavano di veder fiorire una primavera d'oro dei popoli non appena sarebbero risonate le parole magiche «Lafayette e il tricolore», ma perfino uomini politici seri, come Dahlmann, si compiacevano dell'opposizione giusta e moderata. Né il movimento di Parigi penetrò soltanto in Italia e nei piccoli stati tedeschi: anche l'Inghilterra sperimentò per la prima volta, dopo un decennio, l'influenza dello spirito francese; e la stessa sollevazione delle classi medie, che a Parigi aveva abbattuto i Borboni, condusse di là dalla Manica al Reformbill. Il raffinato e dotto acume riprincipia anche qui il suo gioco con le comparazioni storiche. Forse che non si erano ripetuti, fino ai particolari più minuti, tutti gli eventi che avevano preceduta la gloriosa rivoluzione inglese? Qui come lì regna, aliena ai tempi, con l'appoggio straniero, una dinastia prossima ad estinguersi; qui come lì vediamo una nazione, che sopporta longanime il disordine inveterato, perché vicino alla corona è un principe che può subito portare sul trono sangue giovine e idee moderne; finché, sia nell'uno che nell'altro paese, la nascita inaspettata di un successore legittimo al trono minaccia tutt'a un tratto di perpetuare la dominazione dell'antica casa odiata. In questi tempi tanto cólti non è forse permesso di calcolare il movimento della vita politica con altrettanta sicurezza, come il decorso di una ecclissi di luna? Non era fuori dubbio, che la Francia aveva trovato nel duca di Orléans il suo Orange e nella grande settimana il suo 1688: un raffronto che il _Nain jaune_ aveva già anticipato quattordici anni prima? Ciò che Mirabeau aveva desiderato pel suo paese, la _monarchie sur la surface égale_, parve in fine realizzato: il modello della costituzione inglese aveva ricevuto, con l'annientamento dell'aristocrazia, un miglioramento che rispondeva ai costumi democratici della Francia. La rivoluzione sociale compiuta da un pezzo parve politicamente assicurata, perché fu dichiarato formalmente il principio della sovranità popolare, e fu respinta solennemente la presunzione, che i diritti innati fossero concessi alla nazione per grazia reale. D'ora in poi la Carta è una verità: la scienza del diritto pubblico francese è nel suo fiore, e non le rimane altro cómpito, che di spiegare gl'immutabili principii dello statuto. Il nuovo regime riunisce le virtù della monarchia e della repubblica. La Carta contiene tutti gli elementi della libertà repubblicana, come dichiarò Lafayette, che fu il lord-protettore dei francesi nella settimana del turbine. Il re porta solo la corona, ma non governa; è «il re di nostra elezione». Rapida e sicura come una rivoluzione di palazzo, la lotta per le strade spazzò la vecchia dinastia. Da un momento all'altro il duca di Bordeaux diventò non meno incompatibile del nonno: le nuove generazioni conosceranno ciò che ha significato una dinastia di diritto incontestabile in un paese dilaniato dai partiti. In poche settimane furono deposti settantasei prefetti degli ottantasei; l'esercito sterminato degl'impiegati subalterni passò a tamburo battente al potere del momento. Si rinnovarono in conseguenza nella Vandea le lotte e le vittorie dei tempi repubblicani. I colpi della gran settimana, dove erano caduti, avevano schiacciato; e ne misuriamo la portata dall'inesprimibile sgomento che sorprese le potenze della Santa Alleanza. A Vienna non si fece nemmeno parola di mantenimento dello _statu quo ante_ a qualunque costo: l'acquiescenza all'innovazione immutabile diventò l'unica soluzione, per salvare almeno i rimasugli dell'antico ordine europeo. Anche questa volta l'acume degli statisti e dei filosofi della storia si smarrì. Il nuovo regime a Parigi era un semplice espediente, non già la conclusione necessaria di un grande decorso politico. L'opposizione non era stata iniziata, come un tempo in Inghilterra, né dal re e dal suo esercito, né dalle classi dirigenti, per un accorto calcolo politico: la rivolta, i cui frutti andarono a cadere in grembo ad altri, fu compiuta dal popolo di Parigi, dalle moltitudini. Se ogni rivoluzione promette assai più che non mantenga, le moltitudini in conclusione doverono uscirne assai male e sentirsi bene gabbate, quando videro che sulle barricate del quarto stato s'intronizzava un governo di borghesi. Il quarto stato non era ancora chiaramente consapevole dei propri interessi di classe; ma i veterani dell'esercito imperiale, gli operai e gli studenti, che nella sommossa avevano lottato in prima fila, indiscutibilmente non avrebbero affatto arrisicato la pelle per la casa d'Orléans. Una predisposizione incolta, confusamente radicale, dominava il cervello dei combattenti; la professione di fede della maggioranza sonava insomma: «Si finisca una volta col monopolio, anche con l'ultimo, la monarchia!». Perciò, dopo l'installazione della nuova monarchia, infuriò nel popolo una tempesta di corruccio contro i ciarlatani, che per la vittoria propria avevano pigliato in giro i soldati delle barricate; e, molto tempo dopo, Lamartine poteva ancora lanciare la stupida accusa, che soltanto la debolezza di Lafayette aveva intercettata ai francesi l'agognata repubblica. Il frutto della vittoria doveva necessariamente toccare alla borghesia, perché soltanto essa nella confusione del movimento cieco camminava a uno scopo chiaro. Durante la lotta la camera dei deputati aveva mostrato quell'assoluta viltà, che poi è rimasta l'eredità inalienabile della borghesia francese; ma come la vittoria della rivolta si delineò decisa, allora si arrischiò a uscire dall'ombra. Ciò che desiderava, la caduta della monarchia aristocratica, era un fatto compiuto. Ciò che adesso le premeva, era di salvare il trono e l'ordinamento burocratico; e i partiti della borghesia fecero così presto ad accordarsi sull'elevazione al trono del duca di Orléans, appunto perché ogni indugio avrebbe favorito i disegni più radicali dei repubblicani e dei bonapartisti. Il nuovo regime, dunque, era nato con la macchia originale dell'incompletezza e della falsità, che si manifestava in mille racconti trasparenti. Il figlio della rivoluzione era costretto a rinnegare e combattere la madre. Si cercò di consolare gli scontenti dicendo, che il nuovo re regnava benché fosse un Borbone; ma era evidente che governava perché era un Borbone, e perché la camera ringraziava il Cielo di aver trovato accanto al trono un principe amico della borghesia. Non poteva chiamarsi Filippo VII, re di Francia, perché principiava la nuova èra della monarchia popolare. Ma nemmeno chiamarsi Filippo I, perché ciò avrebbe annunziato formalmente la rottura col passato: si chiamò dunque Luigi Filippo, Re dei Francesi. L'esistenza della corona è una continua lotta per l'esistenza; una lotta che comprime sul germe ogni idea di una politica fattiva, di efficacia duratura. Già gli stessi nomi del sistema politico, che sotto il _re borghese_ cozzano l'uno con l'altro, fanno indovinare che cotesta corona fin sul nascere è colpita dalla maledizione della sterilità. Perciò troviamo una «politica di concessione, una politica di resistenza, di riconciliazione, di lasciar correre»; e in generale una vita precaria, dalla mano alla bocca; in generale l'impotente coscienza, che le forze vive del tempo sono fuori del governo. Un principe illuminato non ha mai nutrito meno fiducia nello stato. «Essi sono gli ultimi dei Romani», disse Luigi Filippo al suo Guizot; «la macchina può rompersi ogni momento: come è possibile tirare innanzi un governo liberale tra queste tradizioni assolutiste, e con questo spirito rivoluzionario?» e per la centesima volta ripeté a un altro: «_the world will be unkinged_; io le dico, che i miei figli non avranno pane da mangiare». Col fatto, il mondo di là dai confini sentiva, che quella corona era posata su due occhi. Ognuno sapeva, che una potente cospirazione rivoluzionaria era in agguato ad aspettare non altro che la morte del re, e anche gli audaci consentivano coi versi di Platen: «molte cose sono legate a lui; forse mai una testa regale fu sacra come la sua». I primi dieci anni della monarchia di luglio costituiscono una serie ininterrotta di attentati e di guerre in istrada, di rivolte e di tumulti; e anche nel 1846, quando già da un pezzo le pene rigorose e le leggi eccezionali avevano abbastanza ristabilito l'ordine, fu commesso un attentato alla vita del re. Nemmeno la Restaurazione aveva incontrato un'opposizione così astiosa e pertinace. I nuovi partiti si formarono sotto quella; ma la corona rivoluzionaria aveva a lottare in casa e fuori con due partiti chiusi, miranti a scopi precisi: coi repubblicani, che si vedevano gabbati, e coi legittimisti, che non potevano mai perdonare allo spergiuro ladro della corona, al figlio di Filippo _Egalité_. E nel bel mezzo dei bollori rivoluzionari, la corona stava così incantata e senza un'idea precisa, che si poteva proprio dire, che riceveva la spinta all'azione precisamente dall'improntitudine dei suoi nemici. Quasi tutti gli atti legislativi importanti degli ultimi trent'anni furono compiuti sotto la pressione del terrore dei misfatti radicali; né ci volle meno della macchina infernale di Fieschi, per infondere al governo il coraggio d'introdurre le famose leggi di settembre. Tutti gli uomini di stato della monarchia di luglio mostravano la stessa ansia davanti a ogni moto delle forze popolari, tutti si accordavano nella sollecitudine di contenerle con piccole misure di polizia: quando l'illuminato Thiers, essendo ministro, assicura, che l'associazione è una forza enorme ed è necessario che ne sia assunta la direzione dallo stato, a noi sembra di sentir parlare il suo avversario in persona, Guizot. All'ultimo la corona rese una solenne confessione della propria debolezza: fece fortificare Parigi e Lione. Sperava di prendere due piccioni a una fava, di stabilire cioè la sicurezza all'interno e all'estero. D'altronde il re, quando era principe, si era spesso occupato dei vecchi disegni di Vauban e di Napoleone; e adesso la paura dei nemici interni lo stimolò a condurli a compimento. L'opinione pubblica inasprita non aveva del tutto le traveggole, quando strepitò pel tentato _embastillement de Paris_. Nessuno credé alla melensa apologia di Guizot, che in tali intraprese vedeva un segno di pace, una dimostrazione di forza; perché appunto con ipocrisie trasparenti consimili, col pretesto di assicurare la pace con l'estero, la Gironda in altri tempi aveva chiamato a Parigi le bande di assassini di Marsiglia, per sottoporre la capitale al sistema del momento. Certo, le piccole arti poliziesche del trono di luglio non erano affatto oppressive: un cittadino della repubblica di febbraio poteva riguardare questi tempi orleanesi come l'età dell'oro della libertà. Ma quando fu intollerabilmente ristretto il diritto di riunione; quando per decreto reale la camera dei pari fu destinata a corte di giustizia pei reati politici; quando lo sconcio della polizia segreta e degli _agents provocateurs_ prosperò lussureggiante come al tempo di Napoleone; quando il re borghese era informato precedentemente della più parte delle mene rivoluzionarie e verisimilmente anche dell'ammutinamento di Francoforte; allora un sistema siffatto, pericoloso per ogni stato costituzionale, doveva necessariamente riuscire mortale a un regno nato dalla rivoluzione. Cosa che apparve chiara, quando il pretendente Luigi Bonaparte gridò sarcasticamente: «la nostra vita sociale è oppressa come in Russia o in Austria, e voi parlate di uno stato parlamentare sul tipo inglese!» Ma la satira amara sulla libertà della monarchia di luglio fu questa, che più tardi il secondo impero distrusse con trionfale fiducia in sé stesso le fortificazioni, che erano state erette sotto Luigi Filippo tra le rocce ferrigne dominanti il sobborgo industriale di La Croix Rousse a Lione. Nel suo terrore dei nemici radicali, il sistema si attaccava a tutti i sostegni, e alla fine si alleò coi suoi nemici nati, gli ultramontani. _Jamais une position nette!_ diceva l'accusa di Metternich, ogni volta che egli parlava della politica estera della dinastia di luglio con l'ambasciatore prussiano; e lo stesso biasimo colpisce anche la sua politica interna. In mezzo a tante titubazioni, il carattere fondamentale immutato del nuovo regime rimane la paura: il dominio del ceto medio, dei partiti del centro. Gli estremi ruderi delle classi privilegiate dell'antico regime precipitarono nella settimana di luglio; e sotto questo aspetto, ma solo per questo aspetto, il 1830 costituisce il termine conclusivo dello sviluppo iniziato dalla Rivoluzione. Era naufragata la speranza di conciliare tra loro le antiche e le nuove classi possidenti. «Se la camera dei pari non esistesse, sospetterei che non possa esistere», disse una volta dubbioso Beniamino Constant. Le colpe degli ultramontani avevano rincarato fino all'odio aperto tale disposizione diffidente dei partiti del centro e, insieme, avevano provato, che questa nobiltà priva di forze proprie doveva tutta la sua importanza al favore della corte. E ora la dinastia amica della nobiltà era caduta, e immediatamente, per la prima e l'ultima volta nella storia di una grande potenza europea, si era fatto avanti il ceto medio e aveva preso tutto intero per sé il possesso dell'ordine costituito. In che modo la borghesia ha sostenuto la prova? Non solo dimostrò qualità molto meschine nel governo dello stato, ma rivelò, per giunta, una rozzezza di egoismo di classe, che fece degnamente riscontro con le più vili aberrazioni dell'antica albagia nobilesca. La borghesia francese non rintuzzò affatto l'opinione radicata in tutte le colonie, che un governo mercantile è la più misera e pusillanime forma di sgoverno; e Luigi Filippo ribadì ancora una volta, che il ceto medio è incapace di una politica estera ardita. Un liberale non si decide facilmente a consentire in un giudizio di tal fatta; ma dopo un lungo periodo di apologia di sé stesso destituita di ogni senso critico, il liberalismo oggi ha l'impellente bisogno di un freddo esame di coscienza; e noi abbiamo il dovere di valutare con la più rigida misura la morale politica dei partiti borghesi. Non è affatto un caso, se proprio gli aderenti a cotesto indirizzo si sono in ogni tempo riputati i più nobili e i migliori uomini della nazione; ma se volessero essere ciò che affermano di essere, non starebbero essi in mezzo ai partiti, ma al disopra dei partiti. Volete mantenere sulle classi medie il giudizio che, espresso una volta da Thierry, è passato come un domma nella dottrina liberale? È vero, che la borghesia mira solo a questo, cioè a far discendere fino a sé tutto ciò che le è sopra, e a far salire alla propria altezza tutto ciò che le è sotto? Senza dubbio il terzo stato in Francia ha infranto il dominio della nobiltà, ha conquistato i propri diritti in nome di tutti e ha dato la libertà sociale alle classi infime. Ma già durante la Rivoluzione non dissimulò all'indagatore acuto i segni dell'ambizione del potere e dell'egoismo. Il terzo stato è tutto, dichiarò il suo apostolo Sieyès, e Rabaud de Saint-Etienne rincalza: «Levate via la nobiltà e il clero, e vi rimane sempre la nazione!». Gli antichi privilegiati devono domandare la riammissione nel terzo stato, secondo la massima che suona in tutte le vie; giacché il terzo stato iniziò la grande Rivoluzione con una usurpazione. E quando nel luglio pervenne al governo, mostrò subito tutti i difetti di una casta dominante. Il principe di Metternich con grande verità osservò, parlando al conte di Maltzan, che il ceto medio dopo la caduta della nobiltà aveva cessato di essere il ceto medio. Per questi uomini non sono sacri né il trono né l'altare; è sacro solo il danaro. Tutto lo stato è avviato come una società per azioni: questo rimprovero, che è stato diretto cento volte a torto contro il sistema costituzionale, in questo caso coglie perfettamente al segno. Quasi tutti i diritti politici sono connessi alla proprietà e al pagamento delle imposte. Con la stessa gelosia, con cui un tempo la nobiltà s'impuntigliava sulle prerogative del sangue bleu, adesso la borghesia invigila sui privilegi della borsa. Una volta che tre milioni di francesi erano astretti alle armi nella guardia nazionale e appena duecentomila godevano il diritto di eleggere i deputati, col fatto la tribuna era diventata un monopolio, come lamentavano i radicali. La prima camera dei deputati del regime borghese, più ingenerosa del governo stesso, rifiuta ogni importante riduzione del censo, che è troppo alto e incompatibile con le condizioni economiche francesi: la stessa cultura non è ritenuta come un compenso rispetto al danaro; qualunque capacità in basso censo è respinta. In seguito, poiché la corrente democratica del tempo penetra lentamente fino alla camera, solo la minoranza si arrischia a domandare una riforma della legge elettorale; ma per gran parte dell'opposizione questo _desideratum_ è una pura manovra di partito, e solo per pochissimi deputati è la conseguenza di uno schietto riconoscimento dei diritti popolari. «Ogni sistema ha bisogno di una aristocrazia», esclamò trionfalmente il deputato Jaubert; «i feudatari del nostro regime sono i grandi commercianti e industriali». Fu mantenuto nel modo più rigido, come il politico anche il tramezzo sociale che divideva l'aristocrazia del danaro dai ceti inferiori. Il matrimonio di convenienza, sorgente di gravi mali morali e anche politici per gli alti stati della Francia dai tempi antichi fino oggigiorno, costituisce tuttora la regola in ogni caso: il borghese è fermo nell'idea, che la borsa non può sposare che la borsa. Come un tempo la nobiltà cortigiana nella sala dell'_oeil de boeuf_ motteggiava con cinico disprezzo umano sulla _roture_, così adesso il banchiere parlava con sdegnoso cipiglio del _bas peuple_, così il signor Thiers della «folla venale». E la folla non è disprezzata soltanto: cotesta borghesia senza cuore non vuol nemmeno saperne, che la folla ha bisogni ed esigenze, che non coincidono con gl'interessi di classe dei dominanti. I privilegi sono morti, ripetono incessantemente gli organi della borghesia: la legge non vieta a nessuno di costituirsi la possidenza necessaria al diritto elettorale: sotto le teocrazie o le monarchie militari il governo poteva derivare da una casta, ma non mai più sotto la _influence bourgeoise_. «Non vi sono più lotte di classe», esclamò Guizot tutto beato, «perché non vi sono più, ora, interessi profondamente diversi e nemici; e ciò nel mondo non è mai accaduto, prima di adesso». Sì, certamente: nel mondo non era mai accaduto, che il figlio di un evo benigno e umanitario, un coltissimo ministro monarchico, potesse dimenticare così colposamente la missione più bella della corona, la cura dei poveri e dei deboli. Sì, certamente: nel mondo non era mai accaduto, che un principe prudente e sperimentato, il quale aveva mangiato il pane dell'esilio e aveva fitti gli occhi nelle mani callose del lavoratore, adesso accettasse ciecamente tutti i pregiudizi di casta di una plutocrazia senza cuore. Quando guardiamo a cotesta borghesia la quale, imbozzolata nel suo egoismo e nella sua burbanza, nel vasto mondo non sa vedere che solo sé stessa, ci sovviene involontariamente di quelle nobili dame dell'antico regime, che si spogliavano ingenuamente in presenza dei loro lacché, tanto era lontana da loro l'idea, che la così detta canaglia fossero uomini. «Noi», proclamava Guizot ai suoi fedeli, «noi, i tre poteri, siamo i soli organi legittimi della sovranità popolare: fuori di noi non c'è che usurpazione e rivoluzione». Gridasse pure al soccorso la plebe, e si sollevasse pure in lotta disperata per vivere lavorando o morire combattendo: il _pays légal_, la camera e la plutocrazia elettorale, teneva sodo al sistema; e quindi il re borghese era fermo nella _pensée immuable_, che qualunque passo fuori dell'oligarchia costituita conducesse diviato al sovvertimento della società. L'amore dell'ordine delle classi dominanti salì al fanatismo del quieto vivere; la borghesia grassa escogitò pel povero popolo l'infame espressione: «le classi pericolose». Gli altri elementi sociali, che non erano legati a lei, furono trattati dall'oligarchia nello stesso modo come i lavoratori: con vilipendio perfetto. «Mi rimproverano», disse Guizot, «di prender gusto a bravare il disfavore dell'opinione pubblica. È un errore; non ne ho mai fatto caso». Da un tale orgoglio derivò la noncuranza della stampa; che per un governo costituzionale è cosa imperdonabile. Solo che i ministri, come usava allora in Francia ogni uomo politico in vista, avevano ciascuno il suo scudiero letterario; anzi una di queste penne compiacenti scrisse perfino nel 1847 la famosa monografia _La présidence du conseil de monsieur Guizot_, in cui la sconfinata vanagloria del sistema si gonfia fino alla follia. Del rimanente, si era sicuri del _pays légal_: che cosa importava, che il popolino si ubbriacasse ai prodotti della stampa sovversiva? Si giudicò che non francasse la spesa di dare un'adeguata confutazione al libro di Luigi Blanc, così agile, e tanto pericoloso quanto facilmente confutabile, che si chiamava la _Storia dei dieci anni_. Non è dubbio, che le accuse clamorose al _système corrompu et corrupteur_, al governo dei _cumulards_ e alla tariffa della coscienza dei ministri, erano esagerate in modo incredibile dalla parzialità dell'odio settario francese. Appetto alla corruttela del secondo impero, le tacche morali della monarchia di luglio sono un balocco. E se indaghiamo acutamente, troviamo che, in fondo, la Francia ha goduto solo una volta un'amministrazione strettamente onesta: sotto Napoleone I, il quale seppe frenare in patria l'avidità dei suoi impiegati, e allentò loro le redini sul collo nei paesi esteri assoggettati. Ma la corruzione c'era, e appariva tanto ripugnante, perché si presentava con quella volgare impudenza dello spirito piazzaiuolo borghese, che l'antica nobiltà cortigiana in tal forma non conosceva affatto; e soprattutto perché era ipocrita. Gli avventurieri del secondo impero, i Morny e i Magnan, non facevano mistero, che la loro vita era fondata sul mercato delle vanità, sulla tavola da gioco esigente spadaccini consumati; ma sotto Luigi Filippo la cupidigia rode tutte le ossa della classe dominante, mentre i suoi ministri predicano alla camera ligia i luoghi comuni della sapienza e della virtù. Le infernali bische parigine furono chiuse con untuosi discorsi penitenziali, e fu abolita la lotteria regia; ma tutta l'amministrazione era una traforelleria. Guizot si ritirò povero dal governo dello stato: per lo sporco mercato del matrimonio spagnuolo ricevé solamente un Murillo e i ritratti della coppia reale, che il Catone moderno naturalmente non mancò di descrivere minutamente ai lettori delle sue memorie. E questo stesso uomo dice ingenuamente ai propri elettori: «se io vi costruisco strade e canali, voi per questo ve ne sentite corrotti?». L'intero governo costituisce una schiacciante conferma dell'antica verità, che nello stato la piccola morale uccide la grande: una verità, che noi tedeschi abbiamo abbastanza provata sulla rettitudine civica e sulla corruttela politica dei nostri piccoli regni. La camera al grido: «la Carta deve diventare una verità», abolì a un dipresso tutte le disposizioni costituzionali che contraddicevano al dominio esclusivo della borghesia. Ne seguì una proporzionale dimissione dei vecchi impiegati; ma il governo non poté soddisfare affatto interamente le vendette e l'insaziabilità di posti della camera. In quelle prime settimane Lafayette procurò posti lucrativi a cento dei suoi seguaci. Presto si fu trascinati lontano dalla _fatalité gouvernementale_, e si accrebbero e suddivisero gl'impieghi. Secondo la relazione della commissione di finanza dell'assemblea nazionale repubblicana, il governo di luglio creò trentacinquemila nuovi impieghi, in generale quasi tutti posti subalterni per impiegati, che potevano essere congedati senz'altro. Un ministro, dopo avere accomodato un amico in un impiego, si lamentò disperatamente: «oggi ho creato un altro ingrato e dieci scontenti». A chi non può offrire un impiego, rimangono come ultimo scampo i fondi segreti, che pagano puntualmente i mandati per la parte assegnata al latore. La legge elettorale divise il regno in una moltitudine di ritagli; e il detto che Dupin fissò come divisa di una politica estera gretta, «_chacun pour soi, chacun chez soi!_» diventò presto il motto a cui si uniformò la condotta dei collegi. Dagli stalli di deputati ministeriali la via mena agl'impieghi e ai diritti lucrativi, ed è un dovere del padre di famiglia borghese avvalorare il proprio voto cedendolo al migliore dei parenti. Perciò ogni elezione riporta alla camera un fondo immutato di partito ministeriale, che segue qualunque governo; perciò il popolo si conferma nel vecchio disgraziato sospetto, che in ogni uomo di governo vede un corrotto. Il processo del ministro Teste, che, preso in sé, significa poco o nulla, perché siffatti scandali della corruzione possono sempre ripetersi nell'aria impura delle nostre grandi città, pure ha avuto un'importanza tanto decisiva, perché autorizzò il severo giudizio, che un governo come quello non sarebbe potuto esistere senza manutengoli di tal conio. Quando Alessio di Tocqueville, che fece così spesso la Cassandra della monarchia di luglio, considerava cotesta dissoluzione dei costumi politici, riconosceva che il suo paese era maturo pel dispotismo: «non vedo ancora nessuno», esclamò alla camera nel gennaio del 1842, «che sia abbastanza forte per diventare il nostro padrone; ma presto o tardi un padrone verrà». E siccome le forme della legge erano, non ostante tutto, osservate, Guizot rispose asciutto ai preopinanti: «ciò che voi chiamate corruzione è semplicemente l'attività dell'amministrazione!». II. È evidente, che un tale sistema doveva mantenere inalterata la burocrazia napoleonica. Di tanto in tanto i partiti alzarono la voce, sebbene a vuoto, pel decentramento, e già nel 1835 apparve un'opera che ha fatto epoca nella storia delle teorie politiche del continente: quella di Alessio di Tocqueville, il più grande pensatore politico che abbia avuto la Francia dopo Bodino e Montesquieu. Ma le idee della _Démocratie en Amerique_ camminavano ancora rozze ed estranee tra i costumi dispotici del paese: molto lette e molto ammirate, esse esigevano del tempo per essere comprese, e solo sotto il secondo impero raccolsero una considerevole schiera di seguaci intelligenti. Ciò che il governo intendeva per decentramento, splende non ambiguo in una circolare classica di Guizot ai prefetti dell'alta Saona: «il peggior pericolo per un popolo», egli declama animatamente, «è l'accentramento degli spiriti. È necessario che in ogni luogo del paese si formino piccoli nuclei di opinioni indipendenti; per la qual cosa è indispensabile deporre qualche centinaio di sindaci legittimisti». La _organisation paperassière_ tirava innanzi con la sua piatta attività abituale, e la carestia del 1847 doveva dimostrare, che questo governo di scrivani, nella tranquillità delle sue montagne di pratiche, non vedeva neppure i fenomeni più saltanti della vita commerciale; e non fu fatto nulla per liberare dalle sue terribili catene il commercio delle granaglie, perché i prefetti avevano concordemente informato Parigi, che non era da pensare a una carestia. A ogni modo furono introdotte alcune riforme, intese a tutelare i cittadini dall'arbitrio delle autorità. Le corti prevostali erano state abolite, e fu mutato l'articolo 14 della Carta, che era stato funesto ai Borboni. Il re da ora in poi può emanare solo i decreti necessari all'applicazione delle leggi e non oltrepassanti i limiti della legge. Ma qui purtroppo la camera, con le migliori intenzioni e dominata dalla dottrina dell'assoluta separazione dei poteri, aveva preteso l'impossibile. L'amministrazione non può mai fare a meno della guida del legislatore: l'articolo in tal senso era insostenibile, e non fu osservato. Come per l'innanzi, i decreti reali regolano mille rapporti a cui il legislatore non ha pensato; come per l'innanzi, l'amministrazione costituisce un ordine autonomo accanto alla giustizia e al parlamento. L'atto addizionale dei cento giorni aveva promesso, che una legge avrebbe corretto l'articolo 75 della costituzione consolare, secondo il quale ogni accusa giudiziaria a un funzionario amministrativo non aveva corso se non dietro decisione del consiglio di stato. La legge non era apparsa, e i dottrinari, fino a quando si tenevano all'opposizione, badavano, secondando l'iniziativa del loro maestro Beniamino Constant, a richiamare continuamente i Borboni alla promessa napoleonica. Il funzionario rimane imperseguibile dai tribunali civili, e l'anno 1832 porta ai governati soltanto una nuova garanzia: le sedute del consiglio di stato, quando funge da tribunale amministrativo, sono pubbliche. Parimente caddero sterili i tentativi di acquistare ai governati il diritto di autarchia in talune branche specifiche dell'amministrazione. Una serie di leggi lodevoli dal 1831 al 1838 stabilisce, che i _conseils_ dei dipartimenti, dei circondari e dei comuni siano eletti in avvenire dai contribuenti più alti, e non più nominati dal re; ma la sfera di attività di queste assemblee rimane l'antica, e, come finora, l'azione dell'amministrazione è esclusivamente nelle mani dei funzionari stipendiati di nomina. Nessun partito dell'epoca intravvede le cause ultime della illiberalità dello stato: s'incontrano tutti nella convinzione, che l'intera vita pubblica dello stato, l'intera attività politica deve essere esercitata dagl'impiegati stipendiati. Perciò il diritto d'iniziativa strappato dal parlamento nella rivoluzione di luglio, non fu esercitato quasi mai. Quando Lamartine magnifica ai repubblicani il governo come «la nazione operante», egli si accorda perfettamente con Guizot, il quale vede «rappresentata nel governo la compiuta unificazione dell'idea sociale». Era caduto l'ultimo potere autonomo, la camera dei pari, che attraversava la via a cotesta unificazione dell'idea sociale. La corona aveva, con furberia corta, volto a suo profitto il fanatismo di eguaglianza della nazione, e aveva istituito una camera alta nominata dal re, la quale agevolava il presente alla burocrazia, ma certo non garentiva in nessun modo l'avvenire. La camera dei deputati si eleggeva tra le minacce e le promesse della burocrazia, si empiva sempre più di funzionari, finché si arrivò a questo, che tra 459 deputati duecento erano impiegati. La macchina burocratica dell'imperatore soldato lavorava con sicurezza: guai alla mano che si fosse arrischiata a impigliarsi, per fermarlo, in cotesto ingranamento così ben calettato! Una espressione di Leone Faucher al tempo della repubblica rende eccellentemente, all'evidenza, lo spirito di questa amministrazione. Quando Cavour sviluppava al precursore e propugnatore del libero scambio le proprie idee libero-scambiste, Faucher secco secco opinò: «coteste idee si propugnano fintanto che si è fuori del governo; quando si diventa ministri, si buttano dalla finestra». Nessuno accuserà un uomo dell'ingegno di Leone Faucher di quell'angusto amor proprio, che moveva un tempo i politici dei nostri piccoli stati a deridere come non pratica ogni veduta politica profonda; e ciò sol perché egli non proveniva dalla direzione distrettuale del cantone di Zwickau o dall'ispettorato delle strade di Eschenheim. Lo statista francese riconosceva semplicemente il fatto, che nessun ministro può eseguire nulla contro le abitudini dispotiche di tutela, che sono radicate nell'anima e nell'organismo di cotesta amministrazione. La vita parlamentare, in tali condizioni, doveva dechinare precipitosamente. Laddove gli atti parlamentari della Restaurazione erano colmati dalla lotta straordinariamente significativa di due classi sociali, ora, invece, una sola classe domina le camere. La vita dello stato decade a un _jeu des institutions_, come dice la caratteristica espressione francese; nella pratica si rivela di gran lunga più formale e vuota di contenuto, che non nella teoria di Montesquieu. La corona e le due camere non valgono nulla per sé: sono semplicemente gli organi di una sola forza sociale, la borghesia, che governa lo stato; perciò i tre poteri si equilibrano tra loro. E se si fa astrazione dai legittimisti e dai deboli rudimenti della tendenza repubblicana, si può dire, che in questa camera non esistono partiti, perché gli uomini della borghesia sono concordi in tutte le questioni sostanziali della politica interna: tutti quanti vogliono che la macchina burocratica tiri innanzi, per sfruttarla a profitto della classe dominante. Quando il pretendente Luigi Bonaparte rimproverò a questo sistema lo sconcio di non vantare la presenza di un partito conservatore, col fatto il rimprovero colpiva direttamente il popolo fuori delle camere; perché il _pays légal_ nella sua maggioranza era composto di conservatori, ma non aveva animo, né era educato all'abnegazione e al sacrifizio. A tutte le elezioni della monarchia di luglio andava a segno la confessione, che Guizot fece una volta a proposito di una lotta elettorale: non si contende pei principii, ma per un caos di candidati che il governo appoggia o combatte. «La nostra intenzione è di rovesciare quanti più governi è possibile», riconobbe uno dei capi dell'opposizione. Perciò, quando le camere risonavano di lotte furenti, non si trattava di altro che dei _grands amours-propres_, come soleva dire il re, cioè dell'ambizione personale dei singoli uomini, la quale sollevava i putiferi. La camera si scisse in fine in sette partiti; ma intanto nessuno sapeva dire quale fosse il contrasto di opinioni che divideva cotesti gruppi: ognuno sapeva di certo soltanto questo, che Guizot e Thiers, Odilon Barrot e Molé non perdonavano affatto l'uno all'altro lo stallo di ministro. Per cui Lamartine lanciò sul viso al _tiers parti_ l'accusa: «Voi non rappresentate nessun principio, voi rappresentate solo _une tactique_». In Francia divenne letteralmente realtà la sciocca favola la quale afferma, che in Inghilterra un voto parlamentare sfavorevole al gabinetto conduca necessariamente al ritiro dei ministri. Un caso, un momento di malumore, una parola imprevidente sfuggita dal banco dei ministri bastano a rovesciare un gabinetto. Durante la caccia sfrontata ai portafogli, i capiparte smarriscono interamente ogni dignità e rispetto, e il re finisce col domandarsi se non gli convenga lasciare intenzionalmente i capi delle camere logorarsi in sempre nuove crisi ministeriali, per dimostrare da sua parte la propria indispensabilità. In effetto, l'astuto sovrano, come un tempo Giorgio III d'Inghilterra, cercò di attraversare con la propria politica personale i disegni dei ministri incomodi. Lo stesso Guizot, con tutta l'imperturbabile alterigia del suo puritanesimo, non riesce a nascondere un certo impaccio, quando nelle sue memorie narra della coalizione che concertò coi suoi nemici per buttare a terra l'incomodo rivale Molé. Questa smania d'intrigo arriva in Thiers alla maggiore indegnità. Egli come deputato di opposizione tuona con indignazione patriottica contro il diritto degl'incrociatori inglesi di visitare le navi sospette negriere; eppure il trattato del 1833, sul quale era fondato il diritto di visita, era stato conchiuso precisamente quando Thiers stesso era ministro del commercio! Per pregiudicare Guizot, egli attacca anche il re, con una astiosità che sulla bocca di un monarchico sembra grottesca perfino al repubblicano Lamartine; gabella cotesta roba per un _avertir la royauté_; ma avvertimenti di tal sorta possono seppellire affatto il rispetto, per altro assai debole, del popolo pel re borghese. L'antica colpa nazionale, l'invidia, era pericolosamente fomentata in questa lizza corsa per cattivarsi la maggioranza parlamentare. L'invidia, non altro che l'invidia, aveva un tempo, negli anni così detti innocenti della Rivoluzione, respinto Mirabeau dal posto direttivo di uomo di stato, che gli era dovuto; l'invidia, e non altro, si sollevava ora contro ogni governante semplicemente perché governava. A Guizot potevano perdonarsi tutte le colpe, ma non quest'una, che era rimasto per sette anni al governo. Siccome sulle questioni pratiche dell'amministrazione la borghesia si trovava d'accordo, l'opposizione scelse a preferenza, come campo ai suoi attacchi, le discussioni, la cui indeterminata generalità forniva esercitazione a tutti i vizi della rettorica ampollosa e a tutte le cavillosità dell'arte avvocatesca; e l'indagine sui fondi segreti; ossia quel _défilé des fonds secrets_, che è temuto da ogni governo, e in cui l'inimicizia personale può avvolgersi nel manto della indignazione morale. Ma il fianco più gradito agli assalti, il contenuto di tutte le grandi battaglie parlamentari, era offerto dalla politica estera, vale a dire da quella parte della vita pubblica, che meno di tutte si confà ai dibattiti parlamentari. Le astrazioni delle dispute parlamentari non diventano popolari facilmente; il pubblico non riesce a rendersi conto, che sovente l'accettazione di un emendamento di due linee o il frego a una particella decide di un grande principio politico. Perciò questa lotta parlamentare senza scopo e senza contenuto sembrò alle popolazioni una noiosa guerra di chiacchiere. Ed è vero anche troppo (e i lamenti sinceri di qualche scrittore del medio ceto non mutano nulla alla cosa), che la maggioranza dei francesi vide con perfetta indifferenza cadere il sistema parlamentare. La stessa borghesia principiò a stancarsi: le lotte elettorali non furono mai più combattute con la partecipazione passionata del tempo della Restaurazione. Il numero dei votanti oscilla tra il settantacinque e l'ottantatré per cento: che è una media modesta rispetto a una legge elettorale, che accorda il voto solamente a una piccola minoranza. Anzi i giornali liberali tedeschi, che non si decidevano a sconfessare la loro fede nello stato-tipo della libertà moderna, convennero alla fine, che la baracca non riusciva a nessun costrutto pratico, se ogni tanto, dopo una grande scena parlamentare, un altro nuovo ministro andava ad alloggiare per alcuni mesi nel magnifico _caravanserraglio_ del Boulevard dei Cappuccini. Il governo di partito, magnificato dalla dottrina costituzionale, rappresentava sotto i Borboni un pericolo per lo stato, perché il passaggio dei portafogli nelle mani degli ultramontani poteva condurre allo strappo della costituzione; e sotto gli Orléans era una rovina del prestigio della corona, una lorda sorgente di miserabili intrighi. Non è dubbio, che nell'accusa significata allora nella _Presse_ da Emilio Girardin parla anche la sofistica di un partigiano esasperato: «Niente strade, niente canali, le strade vicinali ridotte in uno stato miserando, niente per la proprietà, niente, sempre niente!». E non torna in nessun modo in onore della probità e della rispettabilità degli uomini di stato del secondo impero il fatto, che il ministro di stato Rouher abbia evocato la grossa parola di un'opposizione furente, e abbia qualificato sbrigativamente come _rien!_ il risultato della legislazione parlamentare. Qual giovamento veniva al popolo, che il bilancio si dividesse in 338 capitoli, e che la camera censurasse con una salamistreria da maestruolo ogni alterazione al numero intrasgredibile dei posti al pranzo dello stato? Che utile dava al piccolo borghese, che il ministero, tremando innanzi alla camera, si astenesse dai prestiti anche necessari, e riuscisse a nascondere la situazione sfavorevole delle finanze secondo l'uso dei governi deboli, cioè con l'illecito accrescimento del debito fluttuante? Il governo borghese non aveva cuore pei contadini, pei due terzi della nazione. Certo, anche l'onnipotenza di questo stato era impotente davanti al grave male inveterato dell'agricoltura, davanti all'assenteismo: solo un cambiamento radicale dei costumi avrebbe avuto virtù d'indurre i ricchi proprietari a preferire l'uniformità della vita di campagna al lusso delle grandi città. La penuria del capitale premeva più che mai i contadini con l'aggravamento del credito, che li costringeva a pagare sui prestiti dall'otto all'undici per cento. Effettivamente l'autorità dello stato poteva in questo caso venir loro in aiuto con una riforma della insensata legislazione ipotecaria; ma questa riforma cadde! Anche la Banca di Francia serbava il proprio monopolio: la borghesia di Parigi non volle percepire gli utili delle banche di provincia. Si aggiungano le mostruose tasse di bollo e di registro, che in media stavano come 4 a 5 sull'intero importo delle imposte indirette e gravavano smisuratamente sulla proprietà fondiaria. Il dazio protettore riusciva veramente rovinoso all'agricoltura. In effetto Guizot, che non si era mai occupato di economia, seppe trovare anche per questi problemi la frase politica sonora: una politica conservatrice ha la missione di proteggere efficacemente tutti gl'interessi sociali esistenti. Per contro, il re era libero-scambista; e anche in questo i francesi palesarono il loro talento impareggiabile nel diffondere nel mondo nuove idee sociali. Il movimento inglese del libero scambio traversò il canale; sorse il _Journal des économistes_, e la scuola di Bastiat presentò la teoria della libera concorrenza come un bene generale dell'Europa. Tanto più incomprensibile riesce la progressiva degenerazione della politica commerciale, che si accompagna a un tale raffinamento delle teorie. L'egoismo degl'industriali si solleva senza ritegno, e trova eloquenti difensori nella società per la protezione del lavoro nazionale, in Odier e in Lebeuf. Il governo non osa opporsi agl'interessi di classe della borghesia. Tronca le trattative con l'Inghilterra sui reciproci alleggerimenti commerciali, perché teme l'insinuazione di essersi posto al soldo degl'inglesi. Offre agli stati confinanti tedeschi una riduzione sul dazio del bestiame e della lana; ma subito i consigli generali lanciano l'allarme, e il gabinetto si ferma. Accarezza l'idea ardita di una lega doganale col Belgio, ma non trova il coraggio di menare a fine il disegno in onta all'opposizione della Russia e dell'Inghilterra, né alla previdente ombrosità del re Leopoldo. Guizot cede, e nello stesso tempo prega premurosamente il conte Appony di non parlargli più della questione, affinché sia in grado di assicurare la camera che non è trattenuto dalla riluttanza straniera! E tanto per fare qualche cosa, la Francia accorda le tariffe differenziali di favore ad alcuni prodotti belgi, ma anche questa concessione rimane limitata al solo Belgio, affinché i filatori nazionali non si sentano minacciati. Anche più che sotto la Restaurazione, le camere erano contrarie alla libertà del commercio, all'opposto del governo; e quando questo arrischiò un modesto tentativo inteso a moderare alcune voci della tariffa, finì poi, intimidito, con l'accordarsi, a discapito della sua stessa proposta. Non prima del 1847 fu presentato un disegno di riforma doganale completa, ma i deputati rappresentanti l'industria seppellirono la legge agli atti. Durante questi tentativi di saggio, l'antico sistema proibitivo perdurò inalterato, aggravato anzi in molti casi, e in un caso solo fu positivamente alleviato, cioè con l'abolizione dei diritti di transito. Fu proibita specificamente l'importazione dei tessuti di lana e di cotone; al che l'Inghilterra rispose con l'inasprimento sui vini francesi: talché il contadino patì un danno doppio; vide cioè rincarare le stoffe per coprirsi, e restringere il mercato del suo prodotto preferito. Lo stato-tipo costituzionale guardava con infinito disprezzo la barbarie tedesca: «le agitazioni sul Reno», scriveva al tempo della festa di Hambach il ministro dell'interno ai prefetti dei dipartimenti di frontiera, «derivano solamente da questo, che i tedeschi paragonano le condizioni del loro paese col felice stato della Francia». Non fu poca vergogna, quando in quello stesso torno di tempo la Prussia, alla proposta della Francia per alcune reciproche riduzioni doganali, rispose con un rifiuto motivato dalla notevole osservazione, che, dato lo sviluppo più alto della legislazione dell'Unione doganale tedesca (_Zollverein_), la Francia non si trovava in condizione di negoziare punto per punto; che prima avrebbe dovuto farla finita col sistema proibitivo, e riconoscere il principio del liberalismo che la Prussia aveva accolto fin dal 1818¹. ¹ Nota del ministero degli esteri del 7 febbraio 1834 all'ambasciatore von Arnim a Darmstadt (di pugno di Eichhorn). Per la potente unità statale della Francia riuscì anche più vergognoso il paragone con la sbocconcellata Germania in fatto di comunicazioni. È vero che sotto Luigi Filippo il bilancio dei lavori pubblici salì da 33 a 69 milioni: furono costruite alcune grandi strade regie, alcuni porti furono ingranditi, e fu ampliata con nuove vie d'acqua l'invidiabile canalizzazione, che non ha l'eguale nel continente. Ma quando furono introdotte le ferrovie, e nella stessa Germania, più povera della Francia, l'industria privata s'impadronì con successo del nuovo mezzo di comunicazione commerciale, la monarchia di luglio palesò una inettitudine desolante, che Cavour ha flagellato in uno scritto magistrale. La Francia per anni non ebbe che una sola ferrovia, la ferrovia di diletto che conduceva i parigini ai passatempi di Versailles. Ostacoli aveva subito frapposto la furia partigiana delle camere, che non intendevano di dimostrare alcuna fiducia al ministero di allora; ostacoli l'egoismo dei grandi banchieri, che miravano a riservare a sé la grossa speculazione. Quando finalmente fu approvato il grandioso disegno di una rete ferroviaria ben distribuita, si fece avanti il gretto interesse di campanile, che il sistema in massima aveva stimolato: nessuna delle città grandi volle cedere l'una all'altra la priorità, e perciò nessun tronco tra i più importanti fu menato rapidamente a termine, ma furono tutti principiati contemporaneamente, fino a che, per concludere, il presidente della repubblica non ebbe solennemente inaugurate con vanagloria napoleonica tutte le strade ferrate già in progetto sotto la monarchia di luglio. Il quale scioperato regime non seppe condurre all'approvazione neppure alcune modeste riforme amministrative, come, per esempio, la trasformazione delle Poste, della quale Rolando Hill aveva da lungo tempo indicato il modo. Non era affatto da pensare, dunque, a un'iniziativa ardita, per estirpare i mali economici profondamente radicati, il contadino del mezzogiorno occidentale implorava invano il dissodamento dei latifondi deserti, delle _landes_, che soltanto lo stato avrebbe potuto intraprendere. Precisamente a questo sistema è pochissimo perdonabile una siffatta improduttività nella politica economica. Non era certo un regime mondo di ciarlataneria e di fantasticheria, come raccontano gli apologisti; ma era pure un governo di freddo intelletto, prosaico, come la classe a cui serviva. La monarchia di luglio ha compiaciuto un po' meno dei predecessori al solito vizio nazionale della vanagloria: non poteva far pompa della santità divina dei gigli, né della gloria imperiale; doveva contentarsi di cercare i suoi puntelli nel savio promovimento degl'interessi materiali. La prodigiosa rivoluzione del commercio e dell'industria aveva spinto sul proscenio della vita europea tutte le più primitive e gravi questioni sociali; e come mai la corsa sarebbe stata più fermata dalla fame e dall'amore? Ma la monarchia borghese barcolla come colpita da cecità davanti ai segni dei tempi. Quando lo stomaco digiuno e l'invidia furibonda sollevarono alla _Croix rousse_ la spaventosa sommossa operaia, alle Tuileries, dopo il primo spavento, si tornò a respirare con sollievo: si era temuta una cospirazione repubblicana, e, il Cielo sia lodato! si trattava semplicemente di una guerra sociale! Si vedeva con terrore l'accorrere in folla delle popolazioni campagnuole nelle officine industriali, e si proibivano per principio o si aggravavano i prestiti alle grandi città, affinché con l'erezione dei quartieri operai non venisse rinforzato l'esercito volontario dei demagoghi. A Rouen e a Lilla nella _Rue de la bassesse_ e nella _Impasse des cloaques_ la miseria ringhia atroce come il nome delle strade; il vizio, l'indigenza e l'infermità si stringono ammucchiati nelle viuzze tetre dietro il Pantheon. Ma la città crede di avere adempiuto ai propri doveri, quando ha vigilato sui reietti e addestrato i suoi soldati alla battaglia per le vie. Ogni associazione operaia è legata al placito della polizia, che di regola è rifiutato dalla borghesia sospettosa; la lega aperta dei deboli contro i forti, lo sciopero, è rigorosamente proibito. Data una tale pienezza di compressione, ben poco importa che le casse di risparmio da tredici siano salite a cinquecentodiciannove. I bisogni del contadino privo del credito non sono punto alleviati, l'antica tradizionale propensione romana alla vita in città è tanto più rinforzata dall'attrattiva del gioco d'azzardo dell'industria moderna. La capitale è ampliata con un enorme sobborgo industriale, e anche in altre grandi città la popolazione cresce rapidamente; ma l'accrescimento degli abitanti si ferma subito in campagna, anzi alcuni dipartimenti delle Alpi e del Giura scemano di continuo. Gli statistici previdenti avrebbero potuto fin da allora calcolare il momento, in cui la piccola Prussia sarebbe cresciuta appetto al potente vicino anche nel numero degli abitanti. Il sistema dei due figli diventa una regola ampiamente diffusa nelle sfere della società; e non già che si appoggi su un prudente dominio dei sensi; si accompagna invece passo per passo con un aumento orribile della prostituzione, con le più selvagge aberrazioni dell'istinto animale. La semplicità sennata dell'antichità si atteneva al principio aristotelico, che la metà dello stato si sarebbe rimbarbarita, se la condizione delle donne fosse mal regolata. Ma in Francia l'emancipazione delle donne e la glorificazione della carne erano predicate ed esercitate ad ogni canto di strada; e il re invecchiando era fermo più che mai e impassibile nella sua _pensée immuable_, come era Guizot nel suo _toryisme bourgeois_. I tre poteri del _pays légal_ discutevano sui dazi protettori e si disputavano i portafogli di ministri, come se tutto fosse in regola. E a quel mondo di miseria, che dovunque faceva ressa pregando, minacciando, delinquendo, si pensavano essi di aver pensato abbastanza, quando avevano mitigato qualche rigido articolo del codice penale. In alcuni casi particolari la monarchia di luglio mostrò cure premurose e zelanti per la povera gente; e fu al tempo del miglior Guizot, quando egli dirigeva il ministero più popolare e più rispondente al suo ingegno, quello dell'istruzione. Anche allora non si smentì menomamente l'uomo, che aveva ricevuto le impressioni decisive della vita dalle scene del terrore sotto il dominio della Convenzione: per lui il più gran problema della società moderna era la dominazione delle anime, che bisogna raggiungere per opera dell'autorità dello stato. Grande e duraturo merito fu quello del ministro, il quale di proprio moto spontaneo, e non già sospinto dalla stampa, che era quasi indifferente a questioni di tanta importanza, trasformò le scuole popolari fino allora vergognosamente neglette, e conquistò al paese quasi un altro milione di scolari. Fu ripristinata la sezione accademica delle scienze politiche e morali soppressa dall'imperatore soldato, l'indagine storica fu largamente sovvenuta, e in generale fu dimostrato, che a capo del governo borghese erano intenditori della scienza. Certo, non fu raggiunto il successo completo; perché all'introduzione della scuola obbligatoria resistevano l'odio del clero, l'egoismo della borghesia, che avrebbe volentieri interdetto agli operai il lusso della cultura, e infine quella disposizione di ostilità allo stato e necessariamente rigogliosa, che si nasconde sotto il manto della tutela burocratica; disposizione, che solo di malavoglia si sobbarca a nuovi doveri verso il pubblico; umori tutti di tal natura, che si suol rendere con la bella locuzione: lo spirito d'indipendenza della nazione. Maggiore interesse suscitò la lotta per la libertà d'insegnamento; il cui corso mostrò apertamente come era penetrata a fondo nei costumi della nazione l'idea dell'onnipotenza dello stato. L'università napoleonica aveva eccellentemente risposto allo scopo del fondatore. Tutto il corpo insegnante dei licei era un docile strumento nelle mani del ministro. Gli era espressamente proibito «il vano piacere di una seducente improvvisazione»; l'insegnamento era disceso a un precettismo affatto meccanico. Anche adesso la più parte dei francesi colti ripensano con odio al tempo della scuola, e non già, come i tedeschi e gl'inglesi, con affettuosa gaiezza. Persino Ernesto Renan confessa che l'insegnamento nei seminari teologici sia meno comprimente dell'istruzione dei licei, e Bastiat prova tanta nausea del metodismo del falso classicismo, che ne è trasportato a lottare contro tutta la cultura classica. Ma non appena la Chiesa dichiara la guerra all'università, e, sia in nome della fede, sia in nome della libertà, domanda la fine del monopolio di stato, subito tutti gli organi della pubblica opinione prendono le parti dell'università: alla mentalità comune burocratica la libertà della Chiesa appare come dominio della Chiesa; pel liberalismo volgare s'intende per libertà solo la violenza ai propri nemici. In realtà Guizot finì col comprovare, che egli stesso per libertà d'insegnamento non intendeva punto la libera gara di tutti, ma la prerogativa della Chiesa. I gesuiti riaprirono i loro istituti d'insegnamento in onta alla costituzione; ma il governo assisté al disprezzo della legge con debolezza insieme e doppiezza, perché stimò l'avviamento ultramontano come un sostegno della politica conservatrice, e salutò con gioia, lo confessa Guizot in persona, ogni rinvigorimento dello spirito cattolico. Alla Chiesa toccò di sopportare un'altra esplosione di odio religioso, accumulato sotto i Borboni, nelle giornate selvagge in cui fu rovinato il palazzo dell'arcivescovo di Parigi e l'iconoclastia guastò gli atri di San Germano d'Auxerre. In seguito essa parve ritirarsi dalla vita pubblica, rinunziare alle pretese di Chiesa di stato, e conservare di fronte alla legge soltanto l'autorità di religione della maggioranza dei francesi. I preti, sospettati fin da principio come nemici della dinastia di luglio, non arrivarono mai, neppure nel tempo appresso, al dominio delle Tuileries. Proprio ora apparve palese, che le moltitudini erano rimaste così fedelmente legate alla loro fede cattolica, come al tempo in cui i contadini avevano impugnate le armi contro le leggi anticlericali della Costituente. Sotto la Restaurazione l'ostilità dei liberali non aveva avuto di mira la Chiesa, ma propriamente la Chiesa dominatrice dello stato. Sotto il re borghese l'antico odio alla fede non si risveglia, se non quando lo stato fa mostra di favorire la Chiesa. La stampa schiamazza contro i preti non appena un colonnello manda il suo reggimento alla messa, e l'ira delle giornate borboniche riavvampa in grandi fiamme, ma per breve tempo, quando Guizot appoggia il _Sonderbund_ e assicura ai gesuiti un'indulgenza contraria alla legge. Ma come lo stato ritorna al suo contegno indifferente, anche la stampa non porge più alcuna attenzione alla vita ecclesiastica. In questo modo, in un raccoglimento che ebbe maggiori conseguenze che non sotto la Restaurazione, furono buttate le basi di quel rinnovamento della potenza ultramontana, la cui estensione sotto la repubblica doveva poi sorprendere il mondo. Roma si chiuse più inflessibilmente che mai contro ogni idea moderna, respinse il tentativo dell'_Avenir_, di riconciliare la Chiesa con la democrazia, e condannò la libertà di coscienza come un _deliramentum_. I giornali ultramontani crescono a tutto spiano, e annunziano con fiducia sempre maggiore le teorie di un illimitato dominio, dopo che lo spirito neoromano ha riportato il suo primo grande trionfo nella controversia col vescovo di Colonia. Lo zelo bigotto risorse vivamente non solo in quelle contrade legittimiste della Bretagna, dove il contadino considera un re non incoronato e benedetto dal papa quasi tanto empio quanto un prete non consacrato, ma anche nelle regioni più colte del paese. Migliaia di fedeli si affollavano sotto il pulpito del padre Lacordaire, e il mite abbate Coeur seppe conquistare completamente il gran mondo, stanco d'ironie e canzonature, assicurandolo che la Chiesa non combatteva affatto ciò che era di sano nelle idee della Rivoluzione. Stato, comuni e privati edificavano a gara nuove chiese; ogni giorno apportava donazioni e legati alle pie fondazioni, e d'ogn'intorno nel paese sorgevano grandi confraternite laiche. Tutto quanto il sesso debole, che non trovava alcuna soddisfazione nella piatta insensibilità dell'illuminismo volteriano, era a poco a poco sempre più riconquistato alla dottrina rigorosamente cattolica. E siccome nei matrimoni francesi chi regna è la donna, sorse a poco a poco nelle case per bene quella falsa situazione, che non è l'ultimo tra i sintomi morbosi della moderna civiltà francese: donne, ligie al confessore, uomini, liberi pensatori al circolo, e in casa bigotti e ipocriti. Che cosa significava per lo stato francese cotesto eccessivo innalzamento della potenza della Chiesa? È chiaro, che la Chiesa romana poteva diventare l'alleata di un Bonaparte, di un Borbone, di una repubblica; che poteva aiutare ogni governo che soddisfacesse le classi credenti, nobiltà o popolo; ma che rimaneva la nemica naturale della monarchia di luglio, la quale, malgrado delle debolezze ultramontane del suo ministro protestante, aveva trovato i suoi puntelli solo tra i volteriani della borghesia. III. In un tempo di grandi trasformazioni economiche e di un immenso aumento di pretese a carico dello stato, il governo borghese non seppe far nulla di durevole pel benessere del popolo. Non trovò nel mondo un alleato, fuori della classe dominante, di cui la potenza e il prestigio scadevano per altro giorno per giorno, né trovò fiducia nella sua vitalità. La ragione ultima della debolezza di questo stato fu a poco a poco intravvista anche da avversari per partito preso. In un dispaccio diretto allo czar del 21 marzo 1837, il principe di Metternich scriveva: _Louis XVIII a inoculé des institutions parlementaires à une administration toute centrale_. Una parte della classe dominante si buttò alla fine contro la monarchia di luglio a causa della sua meschina politica estera. Per via della sua stessa origine, questa monarchia fin dal principio aveva solamente l'alternativa tra la propaganda rivoluzionaria e il tentativo indecoroso, e sempre vano, di cattivarsi con la propria debolezza il condono delle corti legittime. Ha amoreggiato occasionalmente con la Rivoluzione, avviandosi poi definitivamente per una china rigida conservatrice, vale a dire per la china di una politica di gelosia, che opponeva grettezza e sospetto a ogni segno di rinvigorimento nazionale dei popoli vicini. La nuova dinastia rappresentava per sé stessa una viva protesta contro gli aborriti trattati del 1815. Il paese era penetrato da un alto e legittimo senso di orgoglio nazionale; ed era questa la prova espressa, che la Francia si era emancipata dalla tutela straniera. «Se l'Europa tenesse presentemente, come ai cento giorni, settecentomila uomini sotto le armi», confessò il principe di Metternich all'ambasciatore piemontese Pralormo, «io mi deciderei sull'istante a marciare su Parigi». Se ad onta di tali umori le potenze orientali si sentirono costrette a riconoscere il nuovo regime, questo, dunque, era un sintomo della potenza della Francia. Ma questa giusta soddisfazione non appagò il sentimento patriottico eccitato. Poco prima la nazione aveva respinto con lodevole moderazione gli arditi disegni di conquista di Polignac; adesso i vinti di Waterloo avevano riportato la vittoria sulle barricate, e subito mille e mille voci levarono il grido: «vendichiamo Waterloo!» quasi che la battaglia della Belle-Alliance non fosse stata essa stessa la vendetta di un nefando assassinio! Soltanto l'odio può negare, che l'istinto propagandistico dei francesi non era fatto solamente e sempre di fatua vanagloria, ma che in fondo era mosso da un generoso idealismo: un senso di magnanimità, attraverso a mille intorbidazioni, emanava innegabilmente dalle imprese di conquista della Convenzione, dalla campagna italiana di Napoleone III e, soprattutto, dalla guerra più moralmente pura della Francia moderna: la lotta per l'indipendenza dell'America del Nord. Anche in questo caso venivano a intrecciarsi tra loro le passioni nobili e le riprovevoli, vaghezza di gloria e cupidigia, orgoglio e fantasticherie di felicitamento di popoli, ma soprattutto, nel modo più acuto, la smania incontentabile di novità, che attraeva a una grande guerra per la libertà questa generazione nervosamente sovreccitata. Per diciotto anni il motto di prammatica della stampa guerrafondaia fu: _la France s'ennuie!_ Quanto poi al calcolo del possibile e delle alleanze europee, quelle teste esaltate non se ne erano mai date pensiero. «La Francia isolata», braveggiava un foglio radicale durante le faccende egiziane, «vuol dire la Francia alla testa delle nazioni!». E, mentre la gioventù riscaldata svillaneggiava a gola aperta la tirannide del re borghese, ciò non ostante bramava, che questo popolo gabbato e frodato della libertà propria portasse la libertà agli altri popoli; per la ragione, che di quanto il cielo è alto sulla terra, di tanto il francese sta sul tedesco, il quale, secondo i crudi versi di De Musset, lava nel libero Reno la sua giacchetta di servitore. «Il conquistatore gallico», assicura Luigi Blanc, «lascia dovunque sul suo passaggio i benefizi dell'incivilimento, come il Nilo ricomponendosi nel suo letto lascia il limo fecondo». Cotesta passione propagandistica accendeva la testa alla gioventù; tra i devoti era annoverato anche il giovine duca di Orléans. Ma la maggioranza sensata della nazione propendeva verso le idee liberali dell'economia moderna; solo che si riserbava la prerogativa di biasimare ogni giorno come un'ingiustizia inaudita la divisione dell'Europa fatta dai trattati del 1815. Anche la stampa dei partiti moderati ripeteva con amarezza dolorosa la vecchia favola, che la Francia era troppo gravemente danneggiata, e che la Prussia cresceva minacciosa: la Prussia lacerata dal congresso di Vienna! E in questa conformità attizzava incessantemente l'apprensione dei vicini e la foga bellica della gioventù. Tra quelli che si presumevano politici consumati dominava l'idea, che l'Europa fosse divisa in due zone nemiche; e che intorno alle due cittadelle della libertà, la Francia e l'Inghilterra, bisognasse stringere una valida cortina di piccoli stati costituzionali, come baluardo contro la servitù dei paesi orientali. Avvaloravano una tale opinione non solo gli umori ostili delle corti di Vienna e di Pietroburgo, ma anche lo spirito niente patriottico dei radicali tedeschi, i quali, in quei primi anni d'inebriamento, erano molto proclivi a salutare il tricolore come il riscattatore che li avrebbe sciolti dalle catene della confederazione. Era questa la vecchia illusione dei dilettanti politici, i quali non hanno mai capito, che la natura complessa dell'associazione dei nostri stati tedeschi consente a mala pena una pura politica di tendenza; che le supreme questioni di dominio internazionale non cadono affatto sotto i modi di vedere delle teorie dei partiti; e che le passioni e gl'interessi del momento hanno in generale nella politica estera maggiore importanza, che non ne abbiano nella politica interna i contrasti durevoli. Come pel passato il vincitore degli ugonotti, Richelieu, aveva appoggiato i protestanti tedeschi e la democrazia degli Orange gli Stuart, così anche adesso sarebbe venuto il tempo, in cui l'Inghilterra parlamentare si sarebbe alleata con le corone assolute dell'oriente contro la Francia costituzionale. Il re e i suoi dottrinari non erano disposti a secondare la rumorosa corrente bramosa di guerra. Erano troppo chiaroveggenti per non discernere, che un'impresa di conquista sul Reno avrebbe sommerso la stessa corona borghese: «la guerra è la rivoluzione», soleva dire Luigi Filippo: ed erano troppo freddi e pedanti calcolatori, per avvertire e intendere in qualche modo il movente generoso, che si nascondeva indubitabilmente nel delirio della brama di guerra. Si chiarì, purtroppo, anche rispetto alle questioni estere, quanto fossero insostenibili le dotte comparazioni tra il 1688 e il 1830. Laddove la gloriosa rivoluzione inglese era maturata in virtù del favore datole dall'Europa settentrionale tutta protestante, la quale aveva ricondotto quasi spontaneamente lo stato, da una condizione malsana di vassallo, entro la cerchia dei suoi alleati naturali, all'opposto la Francia moderna all'estero era del tutto isolata. Il governo si ostinava sconsigliatamente a tenere una situazione mediana fra i trattati del 1815, che non poteva annullare, e la Rivoluzione, che non poteva interamente rinnegare quale suo terreno originario. In una situazione siffatta, il regno continuò, come sotto i Borboni, a non godere di alcuna autorità: la Francia aveva perduto in Europa il suo antico posto egemonico. Solo una volta la monarchia di luglio toccò un successo notevole sulle potenze orientali. La rivoluzione belga aveva incontrato rapidamente il favore di tutti i partiti in Francia. Era vantata come liberale insieme e cattolica; e lo scopo che si era prefisso, era di rompere quella compattezza degli stati olandesi, la cui esistenza era un affronto per la Francia. Questa volta il re seppe profittare destramente della lentezza delle potenze orientali, distratte dagli affari della Polonia. Le sue truppe entrarono due volte nel Belgio; e quando alla fine fu strappato alle corti tedesche renitenti il riconoscimento del nuovo stato, e lo czar Nicola non poté altrimenti sfogare il suo impotente malumore per la vittoria della rivoluzione, che rifiutando le relazioni diplomatiche col giovine regno, allora le penne del gabinetto magnificarono _la brillante solution française_ della questione belga. Se non che, un giudizio posato non può consentire a tale millanteria. Senza dubbio, con lo stabilimento dello stato belga il necessario era fatto, il rimedio eroico del momento era riuscito; ma il merito maggiore non era da ascriversi alle armi francesi, bensì all'assistenza perseverante e meno ambigua dell'Inghilterra. Ben a ragione lord Palmerston chiamava il Belgio suo figlio. La sete di gloria della nazione era così poco soddisfatta dei facili trionfi nelle trincee di Anversa, come il piacere della Francia rivoluzionaria della guerra contro Stein ed Erz: i fogli radicali menarono gran lamento, quando il comandante francese sul campo della Belle-Alliance proibì alle sue truppe di condurre a fine la distruzione già iniziata del monumento prussiano di Planchenois e del leone del Mont-Saint-Jean. Il re pacifico non raggiunse una sola delle cupide e dissimulate mire che lo avevano indotto all'intervento. Con quanta dolcezza il vecchio Talleyrand aveva proposto a Londra di elevare Anversa a città libera! Con quanta premura aveva sollecitato da lord Palmerston il Lussemburgo e dall'ambasciatore prussiano una fetta di territorio renano! Si sarebbe ripreso l'affare sassone, sepolto da un bel pezzo: quello di assegnare la Sassonia alla Prussia e il Belgio al re di Sassonia. Ebbe risposte evasive, nient'altro. Anche la speranza di fare del piccolo paese di confine un baluardo per la Francia, si rivelò presto essere un sogno. I forti di frontiera costruiti verso la Francia non furono demoliti; e la totalità dei Paesi Bassi dilaniata dai partiti era stata in sostanza un vicino più debole o, per dirla secondo l'intendimento della piccineria orleanistica, meno pericoloso dei due nuovi stati centrali, abbastanza solidi. Il popolo belga aveva ricevuto con malavoglia non dissimulata i francesi, la seconda volta che erano entrati nel loro territorio. Questa disposizione non migliorò, dopo che quel savio principe si fu insediato sul nuovo trono. E molto, troppo spesso toccò a Luigi Filippo di mandare a Brusselle l'accorta sorella Adelaide, a calmare le apprensioni della corte belga, la quale da un pezzo meditava seriamente di entrare nell'Unione doganale tedesca. La diffidenza delle grandi potenze non ha consentito mai e poi mai alla corte francese, e lo abbiamo visto su a proposito del disegno di unione doganale franco-belga, di esercitare nel Belgio un'influenza predominante. Ma se qui fu raggiunto un mezzo successo, per contro nelle vicende polacche la nazione fu pienamente offesa in tutti i suoi sentimenti più cari. Beniamina dei francesi, perché del pari cattolica e rivoluzionaria, legata alla Francia dal contegno cavalieresco, dall'antica fratellanza di armi, dai mille legami dell'affinità morale e ideale, la Polonia si sollevò contro quello czar, che l'opinione pubblica con la sicurezza del suo istinto detestava come capo della nuova santa alleanza. Un giubilo immenso accompagnava dalla Senna ogni colpo di fucile nelle pianure polacche. Lafayette con l'intera democrazia propugnava la guerra in pro dei polacchi: era arrivato il tempo di riparare a quell'antico misfatto dei gabinetti, che gli storici francesi amano di presentare come il più orribile di tutti i delitti. Per mascherare, beninteso, le colpe consimili del loro proprio popolo. Torna a onore dell'intelligenza del governo l'avere respinto, sdegnando quelle vuote fantasie, una guerra senza costrutto, da condursi per un interesse straniero. Ma quando Sebastiani esaltò i brutali successi militari della Russia con le parole: «_l'ordre règne à Varsovie_», allora il governo si fece nemica per sempre l'opinione pubblica, né si cattivò per questo la fiducia delle potenze orientali; perché i fuggiaschi polacchi furono accolti in Francia a braccia aperte, i poveri furono soccorsi dai fondi segreti, e il comitato parigino degli emigrati mandò da allora in poi i suoi affiliati a combattere su tutte le barricate del mondo. Il lamento patetico sulla fine della Polonia diventò l'inevitabile pezzo di forza di ogni carica a fondo: ma il governo persisté nel suo contegno ambiguo. Quando poi si accumularono in Polonia violenze su violenze, e quando il principe di Metternich lacerò di propria mano la sua stessa opera, il trattato di Vienna, e la repubblica di Cracovia fu disfatta in piena pace, il conte Molé diresse a Vienna una nota vibrata, dicendo in sostanza che il cancelliere desse schiarimenti in segreto, dovendo egli risponderne al parlamento. La monarchia di luglio mostrò, come in questa, in tutte le complicazioni estere lo stesso carattere d'indecisione e di falsità. Nello stesso tempo che i ministri dichiaravano solennemente alla camera: «noi abominiamo l'assolutismo e deploriamo i popoli tanto deboli da tollerarlo», Luigi Filippo con lettere poco conferenti a un re dei francesi aveva subito dopo la settimana di luglio impetrato il riconoscimento, per non dire il perdono, delle potenze orientali. La prima ansia era sparita, l'innocua timidità del nuovo regime non tardò a palesarsi, e i conservatori intelligenti finirono con l'accordarsi sulla verità espressa da Wellington, che il nostro sistema di stati non può fare a meno di nessuno dei grandi stati che lo costituiscono, e che in Europa non può compiersi nulla di duraturo sulla via della pace senza la cooperazione della Francia. L'affiatamento delle grandi potenze tedesche diveniva evidentemente più stretto; e principiò tra Luigi Filippo e il cancelliere quel vivo e accurato carteggio, che la diplomazia conobbe come _le commérage politique_ dei due vecchi. Il re assicurava incessantemente della propria gratitudine indelebile le corti tedesche, protestava il suo odio a quelle idee americane che avvelenavano il continente, lamentava: «le nostre istituzioni dànno buona garanzia contro, non a favore del potere governativo». Pregava che si distinguesse nettamente tra lui e la rivoluzione, e sollecitava premurosamente l'assistenza dei tre gabinetti orientali: «in tal caso potrei fare di più per l'ordine». Per ringraziamento, il principe di Metternich oberava il docile allievo con una lunga sequela di quelle disputazioni politiche infinitamente istruttive che gli erano care, lo esortava a perseverare sulla via della sana politica ad onta della debole maggioranza parlamentare, e via dicendo. Il ministro Ancillon, che ebbe visione di queste lettere per mezzo dell'ambasciata di Vienna, ne andava in gongolo: «il cuore del re non potrà resistere a un predicatore politico di tal forza». E Gentz, la cui pigrizia si adattava volentieri a fare di necessità virtù, adesso ripigliava fiato e opinava, che legittimità e sovranità popolare non sono assoluti opposti, e che anzi possono intendersela tra loro come cattolicismo e protestantismo: «giacché ormai la sovranità popolare è interpretata in modo, che travalica impercettibilmente in una nuova legittimità». Per contro, lo czar era inesorabile. Fin dall'estate del 1830 aveva proibito ai russi l'aria appestata della Francia, e non passò anno che egli all'odiato re borghese non desse una prova di quella rudezza destituita di qualunque riguardo, che in quei tempi in cui la potenza russa era al colmo, era ammirata dai nostri piccoli re come una geniale forza di carattere. Non ci fu via di dissuaderlo, che quel ladro di corone sarebbe stato a capo della rivoluzione europea: a sentirlo, cotesti borghesi non si sarebbero intrusi mai più nella parentela delle corti legittime. «Lo czar», si lagnò Luigi Filippo con l'ambasciatore d'Austria, «vuol condannare la mia famiglia alla castrazione». In effetto, era uno spettacolo assai umiliante per l'orgogliosa Francia vedere il principe ereditario piatire vanamente la mano di qualche principessa delle maggiori case regnanti. Perfino la corte dello Schwerin non stimò conveniente il parentado con la casa del re borghese, e soltanto la benevolenza personale del re di Prussia procurò alla fine al duca d'Orléans la principessa Elena: _une princesse anodine_, motteggiò Metternich tra i suoi intimi. D'altra parte, chi mai avrebbe serbato stima di un gabinetto, di cui ogni giorno che passava adduceva nuove prove di menzogna? Il governo, anche nel novembre del 1833, respinse con altezzose espressioni l'invito delle potenze orientali alla stretta osservanza delle misure sui fuorusciti; mentre, proprio nello stesso tempo, la polizia segreta parigina teneva regolarmente informate le corti legittime sulle mene dei rivoluzionari. Si dava appoggio ai malcontenti tedeschi sparpagliati in Alsazia dalla caccia alla demagogia, e si permetteva segretamente ai pedoni loro emissari di mantenere i rapporti di là delle frontiere; né si vedeva malvolentieri che la democrazia tedesca si affratellasse con la francese e inventasse una carmagnola alemanna sul glorioso modello gallico. In tutte le corti tedesche si aveva cognizione della circolare segreta ministeriale del settembre 1833, nella quale si ordinava agli agenti francesi di produrre una lista dei francofili e dei capi dell'opposizione, particolarmente dei paesi della riva sinistra del Reno. E lo stesso gabinetto, che esercitava in quel modo la propaganda rivoluzionaria, qualche anno dopo minacciò di guerra la Svizzera, perché questa si rifiutava di espellere il cittadino svizzero Luigi Bonaparte. In tutti i piccoli stati costituzionali gli ambasciatori francesi si atteggiavano come se toccasse a loro il carico di governare lo stato, e diventarono dovunque intollerabili con la loro amicizia inframmettente e saccente; beninteso, però, che cotesti magnanimi protettori della libertà tedesca mostravano per ogni parola pungente della nostra stampa una suscettibilità nervosa, quale nemmeno il principe di Metternich in persona. Si trattava la dieta con aperto dileggio. Siccome la Francia teneva a mandare in lungo l'affare del Lussemburgo, fu espressa la speranza, «che la dieta sia per iniziare le misure, che intende di adottare, con la lentezza e la prudente moderazione che distinguono i suoi atti, e usi e anche reiteri i differimenti possibili! Tale longanimità risponde al carattere della dieta»¹. La Francia e l'Inghilterra risposero con una protesta sgarbata alle famose decisioni dietali del 1832, e diedero così alla dieta, che rigettò recisamente l'inframmettenza straniera, la gradita occasione di cattivarsi una volta tanto il plauso dei patrioti. La corte francese, non rinsavita ancora, tentò, dopo il colpo di stato dello Hannover, d'indurre il governo inglese a movere a Francoforte una protesta collettiva; e dopo il rifiuto dell'Inghilterra, negò recisamente agli ambasciatori tedeschi cotesta sua intenzione. ¹ Dispaccio circolare del ministero degli esteri francese agli ambasciatori francesi in Germania del 30 dicembre 1830. Siamo giusti. Vi sono tempi sterili e senza energia, che non consentono ampiezza alla politica estera. In Italia e in Oriente le cose non erano mature per le grandi risoluzioni e comandavano una politica di attesa e di sospensiva. Ma, mentre altrove si osò anche in questo tempo meschino una creazione sana, piena di avvenire, di politica nazionale, invece la monarchia di luglio non rivelò che paura e miserabile invidia. La nostra giovine unione commerciale non ebbe, fuori dell'Austria, un nemico più velenoso di questi borghesi. Le corti di Parigi e di Vienna discussero nel 1833 il disegno di staccare la Baviera e il Würtemberg dall'Unione doganale prussiana, accordando una riduzione di tariffe alle frontiere tedesche meridionali; ma l'idea abortì per l'incapacità dei due gabinetti in materia economica. Frattanto l'ambasciatore a Berlino Bresson, l'ambasciatore a Francoforte D'Alleye e soprattutto l'abilissimo Engelhardt, console a Mainz, visitavano le piccole corti, scongiuravano il commercio locale di non cedere alle lusinghe dell'ambizione soperchiatrice prussiana; ma il fanatismo settario dei liberali del nostro mezzogiorno non porse altro che troppo benevolo ascolto a siffatte esortazioni. La questione dell'unità nazionale trionfò alla fine di tutte le aberrazioni dello spirito partigiano, e gl'intrighi stranieri ebbero una fine vergognosa. La monarchia di luglio annunziò il proprio avvento alle grandi potenze con un ribocco di espressioni pateticamente liberali: il diritto di disporre di sé, del quale la Francia si era fatta ragione, appartiene anche a tutte le altre nazioni. Cotesto principio del non intervento, che rispondeva evidentemente a un concetto fondamentale giusto, ma che nella sua sterilità dottrinale calzava tanto poco alla complicatissima rete dei nostri stati confederati quanto le teorie dell'intervento della Santa Alleanza, gittò al suo apparire un terrore enorme nelle corti conservatrici. Il principe di Metternich lamentò «questo nuovo e inaudito diritto dei popoli, questo sovvertimento di tutte le regole che hanno governato finora la politica degli stati europei». La corte di Vienna, però, ebbe presto motivo di tranquillarsi; perché, quando l'Austria soffocò la rivoluzione nell'Italia centrale facendo marciare due volte le proprie truppe negli stati pontifici, e affermò imperturbabilmente la propria sovranità sulla Penisola non ostante il disordine delle sue forze militari palese a tutti gl'intenditori, il re borghese spedì ad Ancona un debole corpo francese e fece dichiarare segretamente all'ambasciatore austriaco, che questa occupazione era seguita per pura ragion di forma, per puro riguardo all'orgoglio nazionale francese! Per altro, un equo giudizio riconosce, che le dichiarazioni sleali del governo alle camere erano spesso imposte dalla necessità: le interpellanze incessanti sugli affari in corso della politica estera, costituivano un abuso innaturale, penoso anche pel più abile ministro. Il corpo di spedizione ad Ancona fu richiamato ingloriosamente come era stato mandato; e di questa mortificazione non riuscì a consolare il paese l'espressione patetica: «il sangue dei francesi appartiene solo alla Francia». La Francia arrischiò soltanto alcune deboli esortazioni per mitigare l'intollerabile sgoverno di Roma, e sopportò longanimemente, che Carlo Alberto di Sardegna, il quale a quei tempi era tuttora un rigido legittimista, proibisse nel suo stato la legion d'onore e dimostrasse il più rude disprezzo alla monarchia borghese. In questo modo, stando all'atto pratico di questo sistema, il non intervento significava per la Francia il diritto d'intervenire consecutivamente, non appena un'altra grande potenza si fosse immischiata negli affari di un terzo stato. Vale a dire, era un legare le mani solo a sé stessi, come ebbe subito a riconoscere con soddisfazione il principe di Metternich; era un rinunciare alla iniziativa propria, senza punto impedire l'ingerenza alle altre nazioni. In Ispagna la monarchia di luglio riportò successi parimente infelici. All'antica parentela delle corti borboniche si sarebbe potuto sostituire un legame più nobile, l'affinità delle istituzioni nei due stati del pari illegittimi e costituzionali: «per la Francia i migliori alleati sono i popoli liberi», dichiarò il gabinetto di Parigi. E la lega dell'occidente liberale parve davvero un fatto compiuto, quando la Francia e l'Inghilterra ebbero conchiusa la quadruplice alleanza con le due regine degli stati iberici. Laddove però l'Inghilterra consolidò nel Portogallo, suo antico baluardo avanzato, la propria supremazia, il re borghese invece non riuscì ad acquistare un'influenza duratura sul gabinetto di Madrid. Aveva fondate ragioni di temere la suscettibilità dell'orgoglio nazionale degli spagnuoli; onde si restrinse a disarmare sul suolo francese le bande carliste e a rinforzare i cristini con munizioni e con una legione straniera: quanto bastava per cadere in sospetto dell'Austria, e quanto non bastava per farsi indispensabile agli spagnuoli! Gl'intrighi che corsero un intero decennio per le sale dell'Escuriale tra l'ambasciatore francese e l'inglese, provarono a sufficienza su quali deboli basi si reggesse la celebrata _entente cordiale_ delle potenze occidentali. L'odio contro la perfida Albione ricorse nel popolo francese con la stessa passione che al tempo del primo impero, e l'amicizia dei gabinetti ebbe presto a soffrire una grave scossa dall'opposizione dei rispettivi interessi in Oriente. Luigi XIV, fin da allora, aveva compreso l'importanza dell'Egitto rispetto al dominio del Mediterraneo e al commercio con l'India, e aveva porto ascolto alle geniali fantasie egiziane del nostro Leibnitz. La spedizione compiuta dal genio di Bonaparte aveva, in seguito, fatto più caro il paese a ogni cuore di Francia. Il disegno napoleonico di sottrarre all'Inghilterra, mercé il taglio dell'istmo di Suez, il comando delle comunicazioni con l'India, divenne il tema preferito della stampa francese, specialmente da quando l'Inghilterra, facendosi delle rocce di Aden una Gibilterra orientale, si era apprestata una nuova stazione di tappa sulla propria linea oceanica. Proprio allora, sotto l'energica signoria di Mohammed Alì, si era iniziato quel tale sistema di far felici i popoli dall'alto, di stile napoleonico: tutta la Francia andava in visibilio pel despota illuminato, nel quale la tradizionale predilezione dell'Oriente pei costumi francesi si era incarnata con un vigore più forte del consueto. Il governo di luglio non voleva combattere la Porta, ma nemmeno riuscì a far argine all'aberrazione della fantasia nazionale; né gli bastò l'animo all'idea ardita di condurre Mohammed Alì a Stambul, e di rinvigorire e rinnovare l'impero vacillante degli Osmani con un maestro di palazzo illuminato ed abile. Si smarrì quindi per una via ripida, in cui la Russia in agguato si proponeva di attirarlo da tempo: esso indebolì la Porta e s'inimicò con l'Inghilterra, dal momento che sosteneva i vassalli sediziosi contro il loro sultano, e con mezzi, per giunta, sleali, degni di siffatti uomini di stato; e infine rimase di botto isolato di fronte all'unanime coalizione delle quattro potenze. Nei momenti critici della monarchia di luglio emerse adunque nel modo più vivo, che il governo parlamentare non aveva potuto, durante il corso di una generazione, coltivare saldamente su questo suolo la sana moderazione dei popoli liberi. Tutto il paese rintronava di nuovo di selvagge grida di guerra, il ministro Thiers lanciava rumorosamente le frasi grosse del club dei giacobini, perfino il re nei momenti d'ira minacciava di mettersi in capo il berretto rosso, e la diplomazia tedesca esclamava corrucciata: «il 1830 è di nuovo al governo!». Questo popolo prese sul serio l'inanità delle sue fantasticherie egiziane, tanto che gli parvero una ragione legittima sufficiente ad autorizzare una scorreria sul Reno. Alla fine l'amore del quieto vivere del regime borghese riebbe il sopravvento: Guizot mostrò il coraggio morale, raro in lui, di fronteggiare la passione traviata della nazione. Ma la remissività verso l'estero, per quanto in sé ragionevole, pure, dopo le burbanzose minacce degli ultimi mesi, prese l'aspetto di una disfatta vergognosa. L'influenza della Francia in Oriente ne fu annullata per tutto un decennio. L'Inghilterra spadronava in Oriente, osteggiata dagl'intrighi russi; e nell'Asia interna erano parimente sole Inghilterra e Russia a condurre la lotta storica del mondo pel dominio del Levante. Le furie del partito bellicoso di Francia ottennero in Germania gli effetti, che non avevano conseguito le ragioni sennate dei nostri più prudenti patrioti: i nostri liberali principiarono a stornarsi dagl'idoli gallici, e lo spirito del 1813 risorse anche fuori del regno di Prussia. La superba Inghilterra seppe così poco dissimulare il disprezzo per la vicina umiliata, che l'anno appresso lord Palmerston marchiò con parole inauditamente prive di ogni riguardo un affare d'interesse strettamente francese, la politica coloniale ad Algeri; d'altronde erano troppe le prove dell'ardente ambizione della Francia, perché il senso della fiducia potesse comunque ritornare nella _entente cordiale_ delle potenze occidentali, rappattumate per forza di necessità. Il perturbamento della pace interna divenne inevitabile. Si era troppo fondato sulla speranza, che l'Inghilterra non avrebbe mai rotto, non avrebbe mai abbandonato l'alleanza con lo stato costituzionale. Avvenuta la disfatta diplomatica, perciò stesso il nuovo «ministero degli esteri», allora istituito, era privo di ogni autorità morale. «L'Inghilterra ci comanda, la congiura delle potenze ci preclude l'Oriente, la politica del gabinetto ci butta in viso la vergogna», erano le frasi d'effetto che empivano le colonne della stampa, anche di quella moderata. Ogni avvenimento all'estero suscitava nella nazione una irritabilità morbosa. Perfino Pomara, la paradisiaca regina del mare australe, diventò per l'opposizione una sacra reliquia nazionale. La pura pratica amministrativa, a chi spettasse il diritto di visita sui negrieri, sollevò tale tempesta, che nel 1842 gli elettori concorsero alle urne al grido _pas de droit de visite!_ e bisognò ritirare il trattato già conchiuso, che accordava quel diritto agl'incrociatori inglesi. Effettivamente questa sfiducia non era del tutto infondata. Il gabinetto cadeva sempre più giù nei maneggi reazionari, e sempre più calorosamente Guizot protestava al cancelliere il carattere rigidamente conservatore della sua politica, mentre nello stesso tempo i giornali ministeriali annunziavano ai parigini, che l'avvenire del liberalismo poggiava sull'alleanza delle potenze occidentali. Ogni volta che in questi quarant'anni sorgeva in vista qualche nuova costituzione di stato a libertà, la Francia, piccina e invida, pigliava le parti dell'antico sgoverno. Principiava in Italia quel gran movimento, che doveva condurla infallibilmente alla lotta contro il dominio forestiero. Ma Guizot incoraggia, sì, il papa alle riforme liberali, e manda fucili alla guardia nazionale romana; contemporaneamente, però, raccoglie nel Mezzogiorno della Francia, a tutela del papato temporale quell'esercito, che poi effettivamente sotto la repubblica va a combattere sul Gianicolo. Egli scongiura il partito riformatore di serbare al movimento un carattere romano, toscano, piemontese, perché una quistione italiana sarebbe la rivoluzione! Avesse almeno accettato le idee federalistiche del suo ambasciatore Rossi, l'inconsistenza delle quali a quel tempo non era ancora provata! Mai più: l'austero conservatore consentiva invece nell'opinione di Mazzini, che all'Italia rimanesse soltanto la scelta tra l'Austria e l'anarchia. I suoi fogli ufficiosi usavano il linguaggio più ignobile verso Carlo Alberto di Sardegna, insospettivano le corti sulle ambizioni del Piemonte, esaltavano Ferdinando di Napoli come il re nazionale della Penisola. L'ambasciatore a Torino dichiarò, che lo scritto moderatissimo di Cesare Balbo le _Speranze d'Italia_, era un'offesa alla Francia; e il ministro in persona fu sferzato dall'annichilante ironia di Cavour, perché la mattina esprimeva al principe Brignole il compiacimento del re borghese per le riforme albertine, e la sera si lagnava col conte Appony della politica di avventure dei piemontesi! Nel 1848 Guizot dichiarò, che a Napoli la costituzione era possibile al più presto fra dieci anni, e proprio allora i Borboni impauriti l'avevano già proclamata. Tale essendo la grettezza mentale delle Tuileries, la corte di Torino fu costretta a imprendere il programma idealistico _l'Italia farà da sé_, e a dichiarare da sola, con forze impari, la guerra all'Austria. La forza vivificatrice di siffatta politica era anche in questo caso l'invidia, l'antica disgraziata predilezione francese per le piccole nazionalità dei bückeburghesi e dei parmensi, la perfetta incapacità di comprendere i segni di un grande tempo. Il che si chiarì anche meglio, quando la Svizzera si dispose a porre un termine all'anarchia della confederazione, ai perturbamenti degli ultramontani. Guizot sapeva, che l'Austria cercava di stornare l'attenzione del gabinetto di Parigi dall'Italia sulla Svizzera, e conosceva la parzialità delle relazioni del suo ambasciatore ultramontano. Nulladimeno, vide nei gesuiti di Lucerna i difensori dell'ordine. Aveva orrore della barbarie inevitabilmente congiunta alle spedizioni di volontari dei radicali svizzeri, più orrore della _grande république unitaire_ che sarebbe risultata da questo movimento; quasi che quella grande Francia avesse qualcosa a temere dalla Svizzera! Prese senza riserva il partito del _Sonderbund_, esigendo dai confederati, che portassero le controversie religiose davanti al papa e le politiche davanti alle grandi potenze. Si mise in condizione di sentirsi dire da lord Palmerston, che cotesto era un voler polonizzare la Svizzera; e alla fine si fece giocare nel modo più ridicolo dal rivale, che differì la propria adesione all'intervento delle grandi potenze, fino a quando il _Sonderbund_, non si fu disperso ai quattro venti. E il cieco uomo tenne duro in tutte queste vecchie sciocchezze, con vergognosa incapacità d'imparar nulla, fino al 1867, dopo che la rivoluzione svizzera aveva già dato frutti tanto benefici, e dopo che l'esperienza di due decenni aveva dimostrato, che un partito unitario in Isvizzera non esisteva! La monarchia di luglio aveva fatto cadere pietosamente il principio del non intervento annunziato con tanta pompa, e altrettanto sbagliava Guizot nel pensarsi di rappresentare in Oriente il difensore della politica conservatrice. Quando il conflitto delle Chiese a Colonia svelò il profondo dissidio d'interessi tra l'Austria e la Prussia, la sollecitudine più grave di Metternich era che la Prussia non avesse a collegarsi col liberalismo e con la corte di Parigi; onde egli si affrettò a preoccupare le Tuileries del protestantismo combattente del gabinetto di Berlino. Anche in questi ultimi anni reazionari di Luigi Filippo, il cancelliere tornò all'opinione espressa altra volta all'ambasciatore von Canitz: «quel governo non può essere affatto forte, quando gli tocca di combattere la rivoluzione: esso non può collocarsi sulla stessa linea dove ci troviamo noi; ciò sarebbe contro natura». Che il re borghese, con tutta la sua officiosità, non avesse menomamente rinunziato ai segreti disegni dell'ambizione francese, era trapelato anche durante le turbolenze svizzere da piccole furberie di ogni specie, come, per esempio, dall'ingenua proposta di Guizot di trasferire a Ginevra la sede delle cinque ambasciate, e con queste il centro della politica federale. «La Francia è amata e temuta dovunque», proclamavano vittoriosamente i difensori di Guizot. Questa _politique calme et préponderante de la France_ si rivelò nel desiderio ripetuto continuamente, e invano, di convocare a Parigi un congresso, in cui il re borghese sarebbe dovuto apparire l'arbitro dell'Europa! La Spagna ridiventò la terra del destino per una dinastia francese. Per via di una parentela priva di qualsiasi valore politico, la buona reputazione del gabinetto fu irreparabilmente danneggiata da brutte menzogne; talché in un momento d'ira lord Palmerston ebbe ad esclamare, che dal tempo dell'impero l'ambizione francese non si era mai mostrata così arrogante. Le vanterie della stampa ministeriale confermavano, purtroppo, la penosa verità di fatto, che questo regime rivoluzionario era ricaduto nelle idee della vecchia politica borbonica di famiglia. Quando il re Federico Guglielmo IV sul principio del 1848 salutò il re borghese come la spada e il braccio della legittimità, e il conte Nesselrode durante la rivoluzione di febbraio scrisse a Parigi che la Francia era divenuta più forte in pace che in guerra, perché riparata da un argine di stati costituzionali viventi del suo spirito, ciò significava che l'acuto contrasto di questi elogi interessati ribadiva ancora una volta la verità, che la politica di un «Napoleone della pace» sarebbe stata altrettanto contraddittoria quanto il suo stesso nome. L'annessione di Cracovia tornò ad offrire nuovamente l'inestimabile opportunità di riannodare l'alleanza infranta delle potenze occidentali; ma questo favore della sorte cadde pure senza profitto. Anche l'unico acquisto territoriale, che toccò al re pacifico, si palesò per un guadagno ambiguo. La nazione vide con soddisfazione, che per la prima volta da un millennio a questa parte capitava all'occidente di strappare un pezzo di terra africana alla civiltà orientale; anzi le teste infiammabili ravvisarono in questo fatto un passo avanti pel dominio del Mediterraneo. L'esito, in verità, fu meschino. Su quel suolo, dove era solamente possibile promovere il più libero sviluppo delle energie economiche, l'amministrazione militare e di polizia divenne anche più perniciosa che nella madrepatria. La vecchia Francia aveva mostrato attitudini colonizzatrici soltanto sul suolo del Canadà, la moderna non ancora in nessun luogo. Senza dubbio, la dura scuola di queste lotte africane plasmò la più parte dei rinomati generali della repubblica e del secondo impero, ma suscitò anche quello spirito sanguinario di lanzichenecchi, che ebbe in Bugeaud il maestro e in Pelissier il più crudo rappresentante. La strage della via Transnonain provò, che la ferocia dei soldati poteva volgersi anche contro i cittadini; e fin dal tempo dell'attentato di Strasburgo, Tocqueville manifestò l'apprensione, se in un tale esercito non si annidasse il più gran pericolo per la Francia. Il regime di luglio accrebbe l'esercito di altri centomila uomini, istituì le armi speciali dei cacciatori e degli zuavi. Eccellenti ingegneri, come il maresciallo Niel, si dedicarono alle nuove e numerose fortificazioni. Ogni iniziato sapeva, che più di tutto stava a cuore al re il rinvigorimento e perfezionamento dell'esercito, e che solo per questo erano state intraprese le vendite in massa dei boschi. Ciò non ostante, solo nella marina si riuscì ad infondere il sentimento dinastico, e ciò fu dovuto all'influenza personale del cavalieresco duca di Joinville. La maggioranza dell'esercito e del popolo guardava con freddezza o impazienza l'esistenza non militare di questo governo; e come nella crisi del 1840, la brama insaziata di gloria guerresca sempre spuntava di nuovo in mille piccole occasioni. Quando un ufficiale, il cui occhiello vagheggiava il nastrino rosso, ebbe inventata la favola della grande vittoria di Masagran, il colpevole, dopo che l'inganno fu scoperto, certamente fu rimosso in segreto e punito, ma nessun grande giornale ebbe il coraggio di riconoscere l'impostura. La _gloire de Masagran_ rimase acquisita al capitale di gloria della nazione, le vie di Masagran a Parigi e a Nancy esistono tuttora, e pochi anni or sono Napoleone III ricordava ancora all'armata d'Africa gli eroi di Isly e di Masagran! Le persone dei capi di governo, come il sistema di governo per sé stesso, non poterono entrare nel cuore di questo popolo soldato. Per quanto gli adulatori del re celebrassero l'eroe di Jemappes, questa _âme toute française_, che non aveva mai portato la spada contro la Francia, stava però il fatto, che il duca di Chartres non aveva trascorso i giorni più gloriosi del suo paese in comunione col suo popolo. Accadeva, come se l'istinto delle moltitudini subodorasse qualcosa della realtà da tempo dimenticata, che cotesto discepolo di Dumouriez più di una volta durante l'impero si era offerto di condurre un'impresa contro la patria. Anche sugli Orléans cadeva un poco dell'esecrazione ai Borboni, e pel popolo Luigi Filippo rimase uno straniero. Esaurite le variazioni del motteggio sull'ombrello reale, la stampa si mise a rosolare la persona del re e la sua testa a pera con una ironia amara, con una impertinenza che nessuno aveva mai arrisicato nemmeno contro Carlo X. La diffidenza dell'opinione pubblica seguiva ogni suo passo, faceva di lui l'uomo meno libero del suo popolo: egli non si risolse mai a sostenere neppure una volta un'impresa teatrale, per tema che la nazione non avesse a fiutarvi la speculazione e la cupidigia. Ma bisogna, del resto, biasimare la ferocia di una febbrile lotta di partito: che non era affatto un vero francese cotesto re, l'astuto mercante, che non era mai stato giovine, che aveva strisciato sulla via del trono attraverso piccoli intrighi codardi, che anche da re esercitava l'antico mestiere di droghiere indecoroso anche per un principe, che non ostante tutta la sua esperienza del mondo non aveva mai conosciuto la potenza vivificatrice delle idee, che con tutta la sua clemenza non aveva mai compreso il più bel dovere della regalità, la protezione degli oppressi, e che non ostante la sua «rispettabilità» borghese era pronto alla birbonata, come quando aveva rotto la fede al prigioniero Abdel Kader. Anche le virtù della sua vita domestica borghesemente semplice rimasero incomprese a questo popolo cavalleresco. Davanti alla nazione il suo Guizot era quasi più straniero ancora. Ai francesi riusciva simpatica e tollerabile la fatua vanità, ma non mai e in nessun modo l'arida noia di quella sofisticheria implacabilmente pedante. Anche noi lettori tedeschi dimentichiamo la considerazione dovuta al magnifico valore scientifico e a qualche incontestabile merito politico dell'uomo, quando sotto le sonore massime morali delle sue memorie scopriamo la malafede, l'ipocrisia del silenzio; quando in ogni pagina di questi otto volumi leggiamo nelle o tra le righe sempre la stessa ed unica conclusione: «io avevo sempre ragione». Prima aveva visto cadere sotto la ghigliottina il capo del padre, poi lamentato le carneficine dell'impero; e dalle esperienze della giovinezza aveva cavato la persuasione di essere destinato a condurre la lotta della virtù contro tutte le selvagge passioni. Ora gli amici rievocano per lui le parole che un tempo padre Giuseppe rivolse a Richelieu: _l'oeuvre de V. Exc. est de rétablir le fort Estat de cette monarchie et de couper court aux mauvaises entreprises qui troublent l'esprit des hommes_. Chi può ascoltare con pazienza questo sapientissimo dei sapienti, quando spiega la politica dei dottrinari come «un misto di elevatezza filosofica e di moderazione politica, la considerazione razionale dei diritti e dei vari dati di fatto, una dottrina rinnovatrice insieme e conservatrice, antirivoluzionaria senza essere reazionaria, modesta in fondo, sebbene sovente superba nelle parole»? O quando il ministro vanta alla camera questo modello di politica come _une politique un peu grande seulement_, e dichiara all'opposizione, che i suoi rimproveri non raggiungerebbero mai l'altezza del suo dispregio, ed esprime al re lo stupore per la somiglianza della politica di Washington con la sua propria? Dopo i giorni di febbraio, quando s'incontrò a Londra con Metternich profugo, e questi secondo il suo solito osservò: «l'errore non ha rasentato mai la mia mente», Guizot rispose: «io sono stato più fortunato, perché ho notato spesso nella mia vita, che mi ero ingannato». Noi però indoviniamo facilmente chi dei due era il più prosuntuoso; e nel corso complessivo della storia francese riscontriamo solo un'altra volta una compiacenza di sé, una sufficienza così smisurata e pedante: in quel Necker, che, come Guizot, fu l'autore principale di una terribile rivoluzione, e, come costui, non si batté mai contrito il petto per domandarsi, se il giudizio divino della storia non pesasse anche le colpe sue. C'è a stupire, se la nazione sempre amabile in tutte le sue stravaganze accolse soltanto di contraggenio le esose teorie della pace e dell'ordine dalla bocca che mai sorrise di questo arido maestro di scuola, di questo ambizioso e imperioso speculatore di virtù? IV. Come doveva riuscire incomoda l'ombra dell'imperatore a questo governo non legittimo, né glorioso, né libero! Il re d'altronde, almeno lui, non partecipava menomamente la prosuntuosa confidenza di Guizot, il quale nel bonapartismo vedeva soltanto una grande memoria, «che non aveva più nulla da offrire alla Francia soddisfatta». Sopra abbiamo descritto in che modo la istituzione di questo regime di ripiego fosse stata accelerata dalla paura delle mene imperiali e repubblicane. Col fatto, durante la settimana di luglio un pugno di partigiani e di veterani aveva arrisicato per due volte il tentativo di proclamare l'impero. Subito dopo, nel settembre, Giuseppe Bonaparte elevò pubblica protesta contro la nuova dinastia: ricordò alla camera di luglio che Napoleone II era stato formalmente elevato al trono, e fece appello contro la decisione del parlamento al suffragio universale come al giudice supremo delle rivoluzioni. Da allora le dimostrazioni bonapartiste, invece della rivoluzione, si susseguirono da per tutto; e la stampa di opposizione si abbandonò al gusto fazioso di dipingere il sovrano pacifico come un vincitore di battaglie. Le uniformi imperiali fecero la loro apparizione in via Varsavia e il genetliaco di Napoleone fu celebrato solennemente. Una petizione domandò al parlamento che l'imperatore fosse ricollocato sopra la colonna Vendôme; e subito Giuseppe Bonaparte prese da ciò animo ad annunziare sui giornali inglesi, che l'imperatore aveva sempre voluto la libertà, salvo che ne aveva differito il completo adempimento al tempo della pace. Per quanto siffatte manifestazioni rimanessero deboli ed isolate, pure il re borghese non si liberò mai della paura del grande morto. Egli stava di fronte ai napoleonidi come prima l'imperatore di fronte ai Borboni. La sua condotta sospettosa nella rivoluzione di Romagna non gli era stata imposta puramente dal suo amore dell'inerte quieto vivere, ma anche dalla paura dei giovani principi Bonaparte, che associavano alla sedizione «il loro nome conquistatore». Quando Ortensia col figlio salvo passò per Parigi, il re permise non altro che una visita alla principessa, la quale in altri tempi sotto l'impero aveva benevolmente interceduto per lui; ma il colloquio fu tenuto segreto alla stessa diplomazia francese; e non appena si udirono presso la colonna Vendôme alcune grida sospette, subito i pericolosi ospiti doverono abbandonare il paese. Una nuova legge di espulsione inibì ai Bonaparte insieme e ai Borboni il suolo della Francia, non però sotto pena capitale. Il re volle sottoporre a una medesima legge le due dinastie detronizzate con l'intenzione, che il popolo considerasse l'una e l'altra come forze della reazione dirette contro la libera corona borghese. Non appena sorse nel Belgio il disegno di chiamare al nuovo trono un Leuchtenberg, il re fu spinto dal timore a un passo ardito: fece propalare a Brusselle la voce, che egli avrebbe visto volentieri l'esaltazione del figlio, il duca di Nemours. Scansata con questa mossa la candidatura del napoleonide, la politica borghese ricadde nella sua consueta sterilità, e rinunziò magnanimamente all'elevazione del proprio principe. Abbiamo già ricordato, che l'apprensione ispirata dall'esule Luigi Bonaparte, protettore dei profughi polacchi, aveva provocato una minaccia di guerra alla Svizzera. È meno noto, che anche la politica interna del re moveva da timori somiglianti. Il conte Molé con sorprendente diligenza aveva fatto fin dal settembre 1830 dichiarare a Vienna, che il suo re avrebbe mantenuto l'espulsione dei napoleonidi; e il nuovo ambasciatore conte Belliard, appena arrivato sul Danubio, manifestò l'intenzione di un abboccamento con Maria Luisa e il duca di Reichstadt: «desiderio abbastanza indiscreto, che naturalmente gli fu rifiutato». Da allora il principe di Metternich capì i punti deboli del governo di luglio. Troppo aveva egli tremato davanti al giovine Napoleone; e adesso volle «farsene un'arma per ridurre in Francia taluni partiti alla ragione¹». S'intende da sé, che il tremebondo statista non si propose mai, sul serio, di condurre a Parigi con le baionette austriache il giovine despota. Ma la minaccia ebbe effetto; e il ministero Périer curò con santo zelo il ristabilimento dell'«ordine». ¹ Metternich manifestò tale intenzione all'ambasciatore prussiano barone von Maltzahn (la cui relazione è datata del 5 settembre 1830). Che la minaccia fosse effettivamente espressa, è rapportato dall'ambasciatore piemontese conte Pralormo (di cui vedi la relazione del 13 marzo 1831 presso BIANCHI, _Storia documentata della diplomazia europea in Italia_, III, 345). Il re sentiva quanto poco il suo posato regime fosse atto a offrire al popolo quell'entusiasmo, di cui abbisogna qualunque governo. In tale imbarazzo, andò a dar di capo in un rimedio singolare che, triviale come è, non si descrive se non con frasi ironiche: egli spiegò una premura particolare pei ricordi napoleonici, e tentò di guarire con la cura omeopatica l'ambizione guerresca della nazione. Ma come prima i Borboni con la loro febbre di persecuzione erano riusciti soltanto a rinfocolare la leggenda napoleonica, così ora la conclusione fu, che era impossibile cacciare il diavolo con Belzebù. La colonna Vendôme fu di nuovo adorna della statua dell'imperatore, e a Boulogne fu terminato il monumento alla grande armata. L'arco di trionfo sulla piazza del Carosello ebbe i bassorilievi commemoranti la campagna più gloriosa dell'imperatore. Fu compiuto ai Campi Elisi l'arco dell'Étoile, e coperto con quelle sculture che presentano al riguardante un mondo guerriero. Più tardi il bonapartismo chiamò _les actes réparateurs_ cotesto giocare col fuoco. Anche quando il re cercava di mostrarsi equanime con tutti i partiti, il suo mecenatismo però stimolava unicamente l'orgoglio guerresco del popolo. _À toutes les gloires de la France!_ dice l'iscrizione su quella pinacoteca storica a Versailles, che il regale storiofilo raccolse con bello zelo. Ma chi percorre queste sale interminabili, e col capo in tumulto ripensa ai turbini di polvere e di fumo, al lampeggiare delle spade, ai battaglioni lanciati alla carica, alle mischie, ai corpi laceri, alle unghie scalpitanti dei cavalli, che da mille cornici ci abbarbagliano gli occhi, finisce col domandare a sé stesso, se in Francia non esista che solo un'unica gloria: la gloria del guerriero. La beniamina dell'arte è la guerra. Le noiose solennità ufficiali delle incoronazioni e delle proclamazioni di statuti scompaiono quasi, appetto all'ardore di vita e di verità di quelle immagini di battaglie di Orazio Vernet, che trascinano lo spettatore come una marsigliese dipinta. Guardate un po' i soldati francesi, quando la domenica discutono e si esaltano davanti ai quadri algerini! Certo, l'istinto borghese del quieto vivere, di cui aveva bisogno la monarchia di luglio, fu tutt'altro che fomentato da codesto museo di battaglie. Il re, messosi a fare l'ammiratore dell'impero, si vide costretto, in onta all'odio che a quello portavano i Borboni, a favorire gli uomini del tempo imperiale. Chiamò nel suo consiglio Montalivet, il figlio del ministro napoleonico, Molé, il grande dignitario napoleonico che non aveva mai cessato di ammirare l'impero come il trionfo delle idee dell'89, e anche Soult, per la ragione che _il me faut une grande épée!_ Perfino il cattivo vecchio Savary, il gran birro aulico di Napoleone, fu gratificato di un'alta carica dal re della libertà. E allo stesso maresciallo Clauzel, nel quale si era personificato a pennello lo spirito lanzichenecco senza legge dei tempi napoleonici, toccò di rappresentare la sua parte nei panni di un ministro parlamentare. Gérard e Lobau ebbero il bastone di maresciallo, perché il prigioniero di Sant'Elena aveva pensato a loro; Gourgaud ed Heymes divennero aiutanti del re. Pareva come se l'intero esercito della Belle-Alliance fosse per rivivere. In principio, prima che la debolezza della monarchia di luglio fosse intravveduta, cotesta risurrezione vittoriosa del nome napoleonico accrebbe l'apprensione delle corti orientali. Per chi conosce da vicino la vita familiare degli uomini di Sant'Elena, e sa che le loro mogli pregavano addirittura davanti all'effigie dell'imperatore, e che le loro figlie si vantavano senza ritegno alcuno di essere sue figlie, ebbene, riesce incomprensibile, come mai un Orléans abbia potuto sperare di cattivarsi proprio in quella cerchia seguaci fedeli. Allibì Guizot stesso, e l'astuto Palmerston non seppe reprimere un sorriso, quando il re fece officiare il gabinetto inglese per la consegna del cadavere dell'imperatore. Il nipote di Filippo Égalité riconduceva le ceneri dell'imperatore alle rive della Senna, dove l'esule aveva bramato di riposare. Centomila persone coprivano in silenzio, serrate le une alle altre dal rigore invernale, l'ampia strada da Neuilly a Parigi, e ancora una volta risorse dalla tomba lo splendore di un giorno unico. Allato alla bara dell'imperatore procedevano gli uomini di Sant'Elena, i Gourgaud, Bertrand, Las Casas; i cappotti chiusi dei veterani ecclissavano gli abiti dorati dei potenti del piccolo oggi, e i cannoni delle batterie napoleoniche, trofei del nemico, salutavano col loro rimbombo l'imperatore che entrava tra i suoi invalidi. La stessa sera Guizot soddisfatto scrisse al conte Mounier: «è stata una pura teatralità!». E già prima il ministro Du Chatel aveva compendiato il terribile accecamento del governo nelle parole: «A questa nuova monarchia, che per la prima ha assembrato e soddisfatto tutta la potenza e tutti i desiderii della Rivoluzione, incombe in verità l'obbligo di erigere il monumento e il sepolcro di un eroe nazionale, e di onorarlo senza tema alcuna. Perché solo una cosa esiste, una unica cosa, la quale non ha nulla a temere dal paragone con la gloria; ed è la libertà». Oh, senza dubbio: solo la libertà non aveva nulla a temere da quell'ombra! Frattanto il duca di Reichstadt era morto. Dopo le giornate di luglio Giuseppe Bonaparte aveva invano tempestato di lettere l'imperatore Francesco, Maria Luisa, Metternich e in fine anche il giovine Napoleone, per domandar loro il ristabilimento dell'impero. E invano la marchesa Napoleona Camerata fece nello stesso torno di tempo un viaggio a Vienna, a scongiurare il figlio dell'imperatore di erigersi a condottiero della Francia rivoluzionaria «con la mente volta a quella lotta mortale, con cui i sovrani dell'Europa avevano fatto espiare al padre il delitto di essere stato con loro troppo magnanimo». Il gabinetto di Vienna congedò l'esaltata, la quale non ricevé più udienza dal giovine legittimista della casa Bonaparte. Perché fra le tante notizie terrifiche di quei giorni agitati, nessuna lo aveva così profondamente scosso come l'annunzio, che sua madre era dovuta fuggire da Parma, cacciata dalla rivoluzione. Egli apparve in lacrime davanti al nonno; voleva marciare, correre a riconquistare con le truppe austriache l'ultima zolla di terra, che era rimasta di Napoleone al nome napoleonico. L'imperatore lo respinse, il principe finì in affanno e dolore; e il libro del legittimista Montbel descrisse ai francesi la straziante infelicità di quella giovine esistenza. Ma nello stesso tempo in cui Napoleone II voleva combattere per sua madre, i figli di Ortensia alzarono la bandiera del tricolore italiano. Per loro Maria Luisa era puramente la perfida austriaca. Il principe Napoleone invitò il papa a rinunziare al potere temporale; e fu questa l'occasione in cui il destino del suo minor fratello Luigi s'incontrò per la prima volta con quello di Pio IX: il giovine vescovo Mastai Ferretti tenne arditamente testa ai volontari. Il movimento fu domato, il principe Napoleone fu portato via da una improvvisa malattia. L'altro fratello era fuggito; e si affrettava a correre in aiuto della rivoluzione polacca, quando sulla via lo raggiunse la nuova della caduta di Varsavia. In seguito, morti il fratello e il cugino, rimase pei bonapartisti il legittimo erede del trono imperiale. Assunse il nome di Napoleone: «un grave peso», confessa egli medesimo; «ma io saprò portarlo!». La sua ambizione è ricondotta sulla Francia per le vie del radicalismo cosmopolita; perciò egli si guarda bene di assumere il contegno dispotico del cugino. Ormai per lo spazio di sedici anni il bonapartismo agita l'arma demagogica, ed esercita la sua influenza come alleato della rivoluzione. V. Il principe Luigi attraverso gli ultimi anni dell'impero aveva acquistato una coscienza alquanto più chiara che non il suo disgraziato cugino: egli sedeva con sua madre dietro l'imperatore quando nei cento giorni fu pomposamente celebrata sul campo di maggio l'ultima grande solennità dell'impero. In seguito, la vita provvisoria del profugo lo indurò alle difficoltà finanziarie, alla strategia dei debiti. Il giovine che da fanciullo aveva visto i genitori divisi dall'infedeltà e dall'incompatibilità, era necessariamente portato a farsi un'opinione cinica degli uomini. Non per questo, però, la vita di questo giovine era del tutto nuda di sentimento; giacché sul fanciullo vegliava la tenerezza di una madre piena d'ingegno, dotata di animo gagliardo sebbene priva di senso morale, agitata da un ardente entusiasmo per l'impero. Come la più parte degli uomini notevoli, egli doveva a sua madre la sostanza migliore della vita. Questo principe, in contrasto reciso con l'impetuosità del duca di Reichstadt, palesò di buon'ora un temperamento flemmatico, quasi che nelle vene gli fluisse sangue olandese; e appunto cotesta indole non francese, la quale non esclude menomamente passioni vigorose e tenaci, lo fece atto a osservare spregiudicatamente la nazione francese, come se gli fosse straniera. Conobbe nella dotta scuola di Augusta l'idealismo della nostra educazione classica, a Roma la maestà del mondo antico; ma alla sua natura fredda era affatto ignota la fantasia rovente, che un tempo incatenò irresistibilmente lo zio agli eroi di Plutarco. Egli apprese a conoscere l'antichità nel modo come apprendeva ogni altra cosa, vale a dire con intelligenza lenta, ma forte e sicura; e negli anni maturi compose da dilettante alcuni scritti di storia antica, in cui il culto dei Cesari costituisce il domma del suo sistema politico. Solo che non gli è mai riuscito di penetrare veracemente nello spirito dell'antichità, e di comprendere a fondo le forze divine operanti nella storia. Fin dal principio egli è stato un uomo unilateralmente moderno, una testa savia ma senza impeti geniali, avendo dedicato la facoltà migliore del suo ingegno alle scienze esatte, all'osservazione del presente. Ogni rapporto con un giovine così chiuso tornava un po' imbarazzante alle nature semplici, graduali, come per esempio il bravo vescovo Wessenberg. Chi guardava più sotto, come il generale Dufour, ravvisava, dietro il riserbo tranquillo e dolce, una perseveranza ferrea; e non tardava a sperimentare, che il principe era effettivamente quello che lo zio chiamava _un homme carré_, e che l'arditezza dei suoi disegni faceva equilibrio con la tenacia della sua volontà. Aveva imparato per tempo ad ascoltare tranquillamente consigli da ogni parte e in fine a seguire il proprio. Quando la madre perplessa tentò di stornarlo dai suoi disegni, il figlio amorosissimo si rivelò come il _doux entêté_. La madre lo richiamava invano a non principiare come un avventuriero, ma ad attendere l'appello della volontà popolare, come lo zio, e a ristabilire l'ordine con la forza del suo nome magico. Una credenza fatalistica nella sua stella, potente come un'idea fissa, si era impadronita di quella testa fredda. L'impazienza dell'ambizione lo buttò capofitto nella rivoluzione di Romagna: il giovine soldato vi apparve in atteggiamento abbastanza guascone, su un destriero in gualdrappa bianca, rossa e verde; mentre suo fratello parlava minaccioso della forza invincibile che li seguiva. La conseguenza naturale di questa levata di scudi fu l'espulsione di tutti i Bonaparte da Roma. Seguì il misterioso soggiorno a Parigi, durante il quale il principe iniziò la trama di una congiura, almeno a quanto afferma solennemente il duca d'Aumale; e ne prese conoscenza e animo per avere a vile la debolezza del nuovo regime. La madre si rifiutò di comprare con la rinunzia al suo gran nome la libera dimora del figlio in Francia. Talché, dopo una breve fermata a Boulogne e una visita al monumento di Napoleone sui campi dove un giorno si era adunato l'esercito di Austerlitz, si ritornò allo spatriamento. Ma le fila della propaganda democratica arrivavano anche alla quieta Arenenberg. Il principe si teneva in relazione coi profughi polacchi, tra le cui fila aveva testé combattuto il suo parente Walewski. Egli era «superbo di essere annoverato tra gli sbanditi, perché oggi l'esilio è la sorte di tutte le anime nobili». S'illuse ai sogni filellenici, e plaudì a ogni moto che minacciò di lacerare il trattato del 1815. Di tanto in tanto arrivava da Parigi qualche malcontento, e recava al napoleonide il promettente saluto gridatogli dal vecchio Chateaubriand: «il passato ritorna, per salutare il futuro». Il principe aveva sempre curato di procurarsi amici fedeli e di legare a sé l'_entourage_ in cieca sommissione: la fortuna ora gli conduceva l'amico più fido e più devoto, Fialin Persigny. Per dare ai lettori un'idea dello stile seguito dal bonapartismo nella fabbricazione delle sue favole, nella sua mitificazione, menzioniamo l'edificante istoria, la quale racconta il come cotesto Saulo si convertì in napoleonico Paulo. Il signor Giuseppe de la Roa nella sua officiosa biografia del duca di Persigny ci ha dato pel primo il racconto meraviglioso, e poi il signor Véron ce lo ha particolareggiato con doverosa commozione. Il giovine scapigliato, che nell'armata di pace del re borghese non poteva stare alle mosse, conobbe in un suo viaggio nella Svevia una dama, e fissò con lei un appuntamento a Ludwigsburg. Il giorno stabilito, mentre ebbro di amore faceva sferzare i cavalli che lo portavano al convegno, tutt'a un tratto il suo cocchiere svevo con gioia improvvisa agitò in aria il cappello e gridò, in francese, s'intende: _Vive Napoléon!_ Rasente, in vettura, era passato un giovine cadetto wurtemberghese, dalla fisonomia napoleonica: uno dei figli di Gerolamo. Il grido colpì come un fulmine il giovine immerso nei suoi sogni. «Come?» si domandò: «questi barbari svevi vanno in visibilio al nome dell'imperatore, e noi francesi...?!». Il convegno e l'ora felice sono dimenticati: egli passa tutta la notte all'aria aperta, tra meditando e sognando. Come spuntò il giorno, la sua decisione era presa: egli doveva essere il Loyola della religione napoleonica. Di follia ne aveva abbastanza. È fuori dubbio però, che d'allora in poi il giovine lavorò al ristabilimento dell'impero con la passione e la pertinacia di un fanatico. Fondò una rassegna bonapartista, di cui potè portare a termine un solo numero, presentò al re Giuseppe una memoria sul rinnovamento del partito bonapartista, che presso di lui trovò tepido consenso; per contro ebbe ardita diffusione da Luigi d'Olanda. Alla fine si affrettò a recarsi ad Arenenberg, dove capitò proprio quando la casa principesca era piena di preparativi nuziali. Il pretendente voleva sposare sua cugina, la vezzosa e poco morale principessa Matilde, e intanto si affaticava nel cómpito ingrato di educare il suo futuro cognato, il principe Napoleone. Ma dopo l'arrivo di Persigny abbandonò il suo disegno di matrimonio: i due compagni di fede s'intesero immediatamente, e si misero insieme a covare la pazza idea del colpo di mano di Strasburgo. Il nipote aveva volentieri alle labbra l'insegnamento dello zio: «in ogni intrapresa bisogna assegnare un terzo al caso e due terzi al calcolo»; ma non seppe applicarlo. Presentiva forse il principe, che a Parigi meno che altrove avrebbe potuto sperare partigiani e contarvi? O lo accecava l'evento abbagliante, ma purtroppo eccezionale, dei cento giorni? Comunque sia, egli in un paese del tutto accentrato si arrisicò a principiare proprio dalla provincia il cambiamento rivoluzionario del regime. Un tempo, a Tolone, il quarto reggimento di artiglieria aveva cooperato alla gloria incipiente del suo capitano Bonaparte, e durante i cento giorni fu dato a Grenoble il segnale della diffalta dell'esercito dai Borboni. Il principe non dubitava che questi vecchi ricordi vivessero cocenti nell'anima dell'esercito come nella sua; credeva che il suo solo apparire in divisa imperiale avrebbe trascinato i cannonieri a venir meno al giuramento. Il colpo pazzamente temerario finì in modo ridicolo, ma le corti di Parigi e di Vienna ebbero un tremito di angoscioso terrore. Giacché nello stesso tempo fu scoperta tra gli ussari a Vendôme una congiura repubblicana, di cui probabilmente il principe aveva avuto prenozione; e poi, per giunta, i giurati alsaziani pronunziarono tra gli applausi scroscianti del pubblico l'assoluzione dei complici del pretendente. Il fanatismo di eguaglianza di questo popolo stimò lodevole lo spergiuro della giuria, perché il reo principale era stato graziato. Del rimanente, la popolazione guardò l'attentato con una indifferenza, che, se il principe vi avesse riflettuto più scaltramente, avrebbe dovuto incorarlo piuttosto che scoraggiarlo: giacché una congiura siffattamente frivola e scapigliata, sotto un altro governo, sotto un governo radicato nel popolo, avrebbe sollevato un uragano d'indignazione. In un momento di debolezza il prigioniero mandò a Luigi Filippo una lettera dimessa; e nella solitudine del carcere gli risorse una reminiscenza sentimentale degli anni di scuola in terra tedesca. Egli tradusse l'_Ideale_ di Schiller: «io vidi le sacre ghirlande della gloria profanate da una fronte volgare», vale a dire, quella di Luigi Filippo. E non si convertì affatto: «resto fermo nella mia fede», scrisse alla madre, «e non mi curo dei clamori plebei». Persigny, poi, proclamò baldanzosamente, che la Francia un giorno si sarebbe pentita di essere rimasta sorda al grido di un Napoleone. Il principe fu rilasciato, a condizione che emigrasse in America. Ciò non ostante, dopo un breve intervallo ritornò in Isvizzera. E siccome il governo di luglio esigeva il suo allontanamento e minacciava, egli s'intertenne a tutt'agio fino a quando la sconsigliata paura dei borghesi non ebbe restituito un po' di lustro al suo nome; e infine dichiarò pateticamente ai confederati, che non intendeva con un più largo indugio mettere a repentaglio la sicurezza della sua seconda patria. Si volse quindi all'Inghilterra, dove divise il suo tempo tra il lavoro serio e i facili godimenti, e corse rischio di sommergersi nella inanità, della comune vita di avventura. A teatro i suoi fidi parlavano in palco con impertinenti vanterie del grande avvenire del principe. Il piacevole conversatore era bene accolto dalla nobiltà inglese, che però alzava le spalle sul _dreamer of dreams_. Ma destava maggiore interesse nella cerchia di quei cavalieri d'industria ed esimi cavalieri di ventura, i quali, gittati sulle spiagge ospitali dalle lotte di partito del continente, trovavano uno zelante protettore nel bizzarro e aristocratico radicale Tommaso Duncombe, lo sportmann felicitatore di popoli. Una disgraziata intesa venne avviata anche col pazzo Carlo di Braunschweig; e nel torneo della nobiltà tory ad Eglinton il pretendente fece la sua comparsa nel costume molto significativo di Guglielmo III di Orange. Quando gli Orléans fecero la traslazione delle ceneri dell'imperatore, il principe e lo zio Giuseppe elevarono pubblica protesta: a chi doveva a Waterloo la sua fortuna, non si addiceva di prendere in mano la spada del vinto. L'entusiasmo napoleonico che percorse il paese, incoraggiò il principe a un nuovo tentativo. Arrischiò lo sbarco di Boulogne; e questa volta parve davvero che dovesse sparire sotto le risa del mondo. Ma che farsa! l'aquila viva, ingegnosamente ammaestrata in altri tempi a librarsi nelle ore solenni sul capo dell'imperatore, adesso era legata sulla prora del vascello imperiale! E quale contrasto superlativamente comico! l'erede di Napoleone ripescato in molle dall'acqua, e dichiarato in arresto dalla guardia nazionale nello stesso momento in cui la Belle Poule portava attraverso l'Oceano il duca di Joinville con le ceneri dell'imperatore! Ma anche questa maledizione del ridicolo, che in Francia più che in qualsiasi altro luogo riesce disastrosa, non poté in alcun modo scorare il pretendente, che davanti ai pari dichiarò: «Io rappresento innanzi a voi un principio, una istituzione e una disfatta. Il principio è la sovranità popolare, l'istituzione è l'impero, la disfatta è Waterloo. Il principio voi lo avete riconosciuto, l'impero voi lo avete servito, la disfatta noi vogliamo vendicarla. Non esiste alcun contrasto tra voi e me». Il re fece tradurre ad Ham l'incorreggibile cospiratore; e fu questo un espediente per la propria sicurezza, ma non era né un atto di magnanimità né un segno di forza, come osservò scaltramente Berryer nella sua difesa. Il benefizio della legge francese non era punto goduto da chi senza sua colpa era fin dalla fanciullezza tra gli esiliati; ne portava, all'opposto, soltanto il rigore. Gli Orléans avevano condotto nuovamente gli sguardi del mondo sul pretendente. Durante il tempo di tranquillo raccoglimento nella prigione, che egli stesso celebrò come il suo corso di noviziato nella università di Ham, il principe non aveva punto abbandonato la lotta; scrisse anzi articoli violenti nel nuovo _Journal de l'empire_, il _Progrès du Pas de Calais_. Mantenne le relazioni con gli amici inglesi, e conchiuse infine con Carlo di Braunschweig un patto solenne, in forza del quale i due principi legittimi si garantivano a vicenda il trono dei rispettivi padri e si promettevano mutua assistenza¹. Solo che, siccome il patrimonio del prigioniero consisteva puramente in una massa cospicua di debiti, laddove invece il guelfo possedeva la più ricca collezione di diamanti del mondo, evidentemente il patto leonino non significava altro, se non che il danaro guelfo doveva essere a disposizione degl'intrighi bonapartisti. Certo, l'avaro Braunschweig si mostrò cattivo pagatore; ma anche il suo debitore, fedele alla rispettabilità ereditaria dei Bonaparte, non seppe risovvenirsi dell'antico patto nei giorni della fortuna. Frattanto la stampa di opposizione utilizzò il pretendente pei suoi attacchi faziosi: incisioni sentimentali rappresentavano la pallida figura del sofferente dietro le inferriate. La liberazione del cospiratore fu chiesta ripetutamente, e da Emilio Girardin nel modo più strepitoso; finché Duncombe e il fido medico Conneau menarono a termine il colpo lungamente meditato, e una fuga avventurosa rimise su tutte le bocche il nome del principe. ¹ Stampato in _The life and correspondence of Thomas Slingsby Duncombe_, London, 1868, II, 10. Solo che far parlare di sé in un modo siffatto, è certamente un ambiguo guadagno. In sostanza, nell'opinione pubblica il principe acquistò la riputazione di matto. Chi tentava e ritentava con una così imperturbabile pertinacia un disegno pazzesco, non poteva essere che uno sciocco, oppure un carattere fuori del comune: comunque, l'indolenza del mondo in ogni caso trova più comodo sbrigarsi delle cose enigmatiche col motteggio. Il nome così pretensioso del napoleonide era in troppo comica sproporzione con le sue intraprese; e le lettere querule che il vecchio re Luigi mandava a Luigi Filippo per iscusare il _jeune étourdi_, certamente non rialzavano la riputazione del principe. Gli scritti del quale erano ignoti ai più; e chi li aveva alle mani, se ne distoglieva immediatamente, perché, laddove tutta la pubblicistica agitava unicamente i problemi dello stato parlamentare, quelli invece consideravano e sostenevano un modo di vedere che era fuori di tutti i partiti. E una siffatta insubordinazione alla cultura media del momento, viene punita regolarmente nel mondo moderno col disprezzo tacito. A noi, che oggi scorriamo più spassionatamente gli scritti del principe, riesce incomprensibile come mai un tale autore non abbia incontrato nessuna considerazione. Giacché questi scritti non solo non rispondono punto a ciò che comunemente si aspetta dai peccati letterari di un principe, ma meritano semplicemente un posto onorevole nella storia della pubblicistica. Essi non sono il prodotto di una mente geniale, ma di un'intelligenza eminentemente pratica, sensata e sicura nell'osservazione, ferma e indipendente nel giudizio. Anche l'esposizione è chiara e serrata, con _netteté_ schiettamente francese: il principe sa istradare prontamente i suoi lettori e dare un rilievo pratico a tutte le sue tesi. La ricchezza delle idee, il pathos della veridicità, la potenza della fantasia, che fanno lo storico, a lui sono negati; ma nella sua esposizione discussiva egli con destrezza e senza esitazioni di coscienza sa servirsi, in modo eccellente ai propri fini, delle presunzioni storiche del presente. In una parola, egli ci si rivela per un giornalista provetto; e chi ammette che questi scritti non avevano importanza scientifica e letteraria, ma costituivano esclusivamente il programma di una politica pratica, deve anche usare un po' d'imparzialità e riconoscere, che siasi in essi rivelato un singolare talento di uomo di stato. Quando Luigi Bonaparte salì allo stallo presidenziale, il signor Thiers e compagni si fecero un dovere d'inondarlo di pressanti consigli, come quello che non conoscesse punto la Francia. Mirabile fatuità! Il profugo nel suo soggiorno all'estero aveva studiato il proprio paese di gran lunga più acutamente e giustamente, che non in patria gl'intellettuali della borghesia. Laddove la stampa, forte delle opinioni del momento, consentiva solo per pietà cristiana a tollerare provvisoriamente la monarchia come un'ultima concessione a pregiudizi inveterati, all'opposto il principe affermò sicuro e reciso: «una monarchia di otto secoli non viene commutata in repubblica per la burrasca di pochi anni». Come un tempo Mirabeau, ficcando nelle cose il suo sguardo penetrante, aveva pensato che la gioia di un Richelieu sarebbe stata la soppressione del feudalismo, parimente anche il napoleonide comprese, che il livellamento della società favoriva ed esigeva un solido potere monarchico. La repubblica richiede un'aristocrazia, la nostra società democratica vuole una corona. Col tracollo degli antichi stati, egli vede la nazione sfarinarsi in granelli di sabbia; granelli di sabbia che, cementati insieme da un gagliardo potere statale, costituiscono una roccia irremovibile, ma disuniti fanno solo polvere. Così dice la tesi preferita del napoleonide, vale a dire una metafora, che, parafrasata le mille volte, ritorna in tutti gli scritti del bonapartismo con la stessa frequenza e la stessa significazione, con cui nelle lettere di Metternich ritorna l'immagine della casa del vicino in fiamme, che io devo spegnere se non voglio andare in fuoco anche io. Mentre la dottrina del parlamentarismo unica beatificatrice occupava tutte le teste, il principe riconobbe subito, che i progressi compiuti dalla Francia negli ultimi cinquant'anni si erano ottenuti in virtù delle istituzioni che l'imperatore le aveva date. Il sistema parlamentare non trovò in Francia il sostegno di un forte senso della legalità, di un irremovibile amore della libertà personale: si getti pure arbitrariamente in carcere un cittadino francese: la voce pubblica se ne starà tranquilla, fino a quando le passioni faziose del giorno non se ne saranno prese. Pel francese il supremo bene politico è l'eguaglianza: e in tempi tumultuosi la nazione è presto racquietata dallo strepito delle armi e della gloria guerresca. Come si vede, questo uomo di stato pensa della sua nazione meschinamente, in modo quasi cinicamente basso; ma egli ha scorto chiaramente i punti neri della mentalità nazionale. Il principe si fece avanti in questa società scomposta, bramosa di ordine, con l'irremovibile fede, che soltanto la tirannide popolare poteva giovarle, e questa soltanto fosse legittima. Come un tempo l'imperatore appena eletto s'impose ai suoi deputati dicendo: «io ho un titolo di diritto, voi non ne avete alcuno!» così ora il nipote parafrasò: «l'erede di un governo eletto da quattro milioni di cittadini non può inchinarsi a un re eletto da duecento deputati». In mezzo a un mondo afflitto da mille dubbi scettici il napoleonide camminava con la sicurezza di un sonnambulo. Aveva fede in sé stesso e nell'assolutismo militare al quale attribuiva la rinomanza dell'idea napoleonica. Questa idea risorgerebbe dalle ceneri in conformità di un divino esempio: la fede politica, come la religiosa, ha avuto i suoi martiri; egli, come in quella, sarebbe l'apostolo e avrebbe il suo regno. Egli direbbe ai francesi come san Remigio disse al re dei Franchi: «giù il capo, o Sicambro! Brucia ciò che adori, e adora ciò che hai bruciato!». Il principe viveva e respirava in questo cerchio d'idee; quando riportava il discorso sull'imperatore, pareva sovente che un'allucinazione s'impadronisse di quel cervello freddo. Nei giorni del trasporto funebre da Neuilly a Parigi, il nipote indirizzò una lettera allo zio. Gli parla come a un vivo, gli dà del _Sire_ e del _Voi_; e dipinge i potenti del giorno atteggiati in palese ad onorare l'eroe e in segreto a pregare: «O Dio, non lo svegliare!», a raccogliere la giovine armata, ma a dirle: «Incrociate le braccia!», a rinnovare il tricolore ma non le aquile, a rispettare il morto ma a gittarne in carcere l'erede; e vede infine l'imperatore chinarsi sul nipote a confortarlo: «Tu soffri per me, io son contento di te!». La sua speciale situazione indusse il pretendente ad assumere l'attitudine di consumarsi in cieca e incondizionata ammirazione davanti all'imperatore. Le più stupide fole della leggenda napoleonica furono fedelmente rimesse in voga, giacché questo cinico sapeva, che qualunque bugia ostinatamente ripetuta finisce con l'essere creduta dalle moltitudini irriflessive. Si rivolge primieramente ai popoli del Danubio e della Sprea e dice loro, che avrebbero adorato il benefattore già ripagato d'ingratitudine, e che tutte le nazioni libere avrebbero ripristinata l'opera dell'imperatore. Tutto ciò non è menomamente più disonesto della grande maggioranza degli scritti di partito francesi; il principe, anzi, parla più lealmente di Guizot, perché a suo vantaggio torna la stessa duplicità di aspetto del bonapartismo: egli può o vuole vedere soltanto un lato dell'azione napoleonica. La Francia ringiovanita dalla Rivoluzione e organizzata dall'imperatore; Napoleone, vero rappresentante, esecutore testamentario della Rivoluzione, mediatore tra due secoli, tra la monarchia e la democrazia; l'eroe che ha disciplinato e perciò compiuta l'eguaglianza, che ha preparata la libertà; il soldato plebeo che ha fondato un regime difenditivo e democratico: son questi i principii fondamentali universalmente noti della dottrina neonapoleonica, e ognuno contiene una mezza verità. Chi legge tra le righe si avvede subito, che il principe conosce gli errori che portarono lo zio a rovina, ma che non li riconosce. Di un rinnovamento della monarchia universale non si parla affatto. Anche nella vita interna dello stato il pretendente ripudia la cruda forma di dispotismo che si manifestò nell'impero, e vuol tornare al suo ideale, che è la costituzione consolare. Egli concede, che Napoleone ha portato a termine soltanto la rivoluzione sociale, non la politica, ed evita puramente la questione, se sul terreno della dittatura consolare sia possibile in generale la formazione progressiva della libertà politica. Il principe Luigi non ha menomamente disdegnato le male arti usate da tutti i pretendenti, e il rumore, che va connesso con quel mestiere; nulladimeno non si può affermare, che egli in sostanza abbia illuso il suo popolo con fragorose promesse. La costituzione che diede ai francesi il 14 gennaio 1852 è effettivamente un calco della costituzione consolare; nella prefazione, che vi è preposta, le tesi principali sostenute negli scritti del pretendente ritornano quasi a parola. Una siffatta coerenza è rara nella vita di uno statista duramente incalzato dalla spinta delle cose. Anche noi avversari dobbiamo stimare la sicurezza di coscienza, che mosse l'imperatore a ripubblicare inalterati i suoi scritti giovanili. S'intende, che qualche punto nero è tralasciato; per esempio, l'umile lettera a Luigi Filippo. Ma in complesso l'imperatore può vantarsi, che l'uomo mantiene ciò che il giovine promise. Il principe non dispensa mai, nemmeno negli articoli di gazzetta fatti per accarezzare il favore delle moltitudini, mai una parola di lode alle idee parlamentaristiche del suo tempo. Come lo zio lascia al mondo la scelta tra i cosacchi e la repubblica, così il nipote fra i governi di oggigiorno esalta, come coerenti e coscienti, solo la Russia e l'America del Nord. Egli vuole alla cima dello stato un capo personalmente responsabile, che diriga l'amministrazione per mezzo di tecnici, di specialisti, e non già di capiparte. Il parlamentarismo è deriso come il dominio dei retori; le sue lotte di partito sono altrettanto vuote di contenuto, quanto furono un tempo le dispute dommatiche del medioevo; e non porta la libertà, ma il governo di una oligarchia privilegiata, alla maniera inglese. Quest'abile argomentazione sofistica non poteva fallire il colpo sul lettore francese; e trovava un sostegno solido nelle condizioni del paese sotto il dominio della borghesia. Non meno recisamente il principe si volse, con odio napoleonico, contro le vedute aristocratiche del mondo feudale: ché, anzi, nella sua storia dell'artiglieria non si tiene dal flagellare l'antica nobiltà francese, che un tempo aveva messo in burla la nuova arma borghese e l'aveva buttata via dal campo. Non rimane dubbio, dunque, che il suo scopo sia la monarchia rivoluzionaria, eletta dal popolo sovrano, sollecita della sorte degli umili, sempre pronta a gittare nella bilancia la spada di Brenno in ogni causa della civiltà. Quanto ai mezzi per stabilire cotesta corona democratica, egli si esprime con perspicua chiarezza: un colpo di stato come quello del 18 brumaio non può essere elevato a principio (ma chi mai in tutto il mondo aveva riguardato come principio le brutalità del brumaio?); ma in determinati casi può essere necessario. Quando il principe tratteggia all'occasione l'immagine seducente della libertà, noi siamo indotti a confessare francamente, che egli sospinge cotesto coronamento dell'edifizio a una lontananza indefinita e vaporosa. Nei suoi primi scritti già aveva detto: è dolce sognare un dominio della virtù; se il Reno fosse semplicemente un mare; e così via. E più tardi egli afferma, che la libertà allora sarebbe possibile, quando i partiti fossero finiti, consolidati l'ordine e l'eguaglianza, rieducato a nuovo lo spirito pubblico, rinvigorito il sentimento religioso e nati nuovi costumi! E così anche questo cervello freddo cade nell'eterna velleità di tutti gli assolutisti, quasi che l'educazione alla libertà fosse possibile altrimenti che mercé la stessa libertà. Per contro, rispetto ai problemi dell'amministrazione mostra una rara imparzialità. Nello stesso modo come, giovane appena di venticinque anni, in un acuto saggio sulla Svizzera fece, contro il fanatismo allora in voga per la repubblica, l'ardita osservazione: «la repubblica non è un principio, è una forma di stato come le altre, e non offre per sé stessa nessuna garanzia per la libertà»; così pure sa apprezzare spassionatamente i vantaggi degli altri stati, quando non si movono in senso direttamente opposto al proprio sistema. Egli loda in Inghilterra la libertà personale, il movimento in nulla intralciato delle associazioni, la sicurezza della legge. Ammira in Prussia l'autonomia dei comuni, la schietta istruzione popolare e sopra tutto, esaltato a parole anche dallo zio, quel servizio militare obbligatorio e generale, che un giorno avrebbe scacciato via da dovunque nel mondo il commercio di schiavi bianchi chiamato cambio. Riprova la molteplice attività dello stato, come nella sua patria; è una stoltezza, che lo stato faccia ciò a cui può o deve attendere il privato. Arrivato al trono, il pretendente rimandò tutte queste riforme a miglior tempo, oppure le fece cadere dopo alcune prove di assaggio: e ciò che attraversò la via alle migliori intenzioni fu un po' il destino di tutti i dominii violenti, un po' la natura stessa dello stato francese. Solamente gl'irriflessivi e i leggieri accusano anche d'ipocrisia uno statista, che offre tanti lati deboli ai rimproveri giusti, sol perché non ha reso possibile l'impossibile. Nelle sue contraddizioni si tradisce l'incapacità intellettuale, non già il calcolo furbo. Acuto osservatore e non povero di buone idee, il principe si era inviluppato troppo a fondo nelle marce abitudini mentali del cospiratore, nelle sottilizzazioni premeditate, nel fucinare disegni. Egli non possedeva più la forza mentale di elaborare un'idea importante fino a cavarne le estreme conclusioni, e non si pose il quesito, come mai i vantaggi dello stato inglese e del prussiano potessero conciliarsi con la tirannide popolare. Il pretendente esercita con piacere la comoda professione della critica politica alla monarchia di luglio, principalmente a riguardo della sua politica europea. Per lui nessuna esagerazione e nessun travisamento è troppo volgare al suo scopo; indaga anzi con ingegnosa malizia tutte le debolezze del sistema, e ci offre così un modello del genere, che oggigiorno è stato ricalcato, ma con meno talento, dal duca d'Aumale. Egli tratteggia vivacemente il modo come il governo butta nel fuoco la gloria e i tesori del paese per venderne le ceneri! Se quello richiama in auge i beniamini dell'imperatore, si adorna con le penne altrui; se decora il generale Dupont, che un tempo capitolò a Baylen, esso premia il tradimento; e così via. Cotesta polemica demagogica appare soprattutto odiosissima, quando vien meno al rispetto dovuto alla gravità della storia, come, per esempio, nel famoso parallelo «1688 e 1830». Il principe illustra eccellentemente la nullità di ogni dotta comparazione; ma quando vi scambia le carte, e v'istituisce il paragone tra il re borghese e Giacomo II, allora scoprite l'agitatore coscientemente menzognero. Attraverso tutte queste deformazioni rimane però indiscutibile, che il critico affronta con una mentalità superiore gli uomini di stato della borghesia. In uno dei suoi più celebri aforismi domanda all'uomo politico di camminare a capo delle idee del suo tempo se non vuol rimanerne sommerso; ma a questo proposito è innegabile, che l'imperatore ha soddisfatto a cotesta esigenza solo per metà. Le forze dell'idealismo, che non mancano neppure alla nostra arida età, rimasero estranee ai napoleonidi: questo insegna oggi lo stato del secondo impero, in cui la senescenza già invade un corpo finora gagliardo. Ma è certo, del resto, che il pretendente ha apprezzato in modo incomparabilmente più giusto che non il re borghese alcuni sintomi nuovi e significantissimi nel presente moto degli spiriti. Principalmente la importanza del quarto stato e della questione sociale. Il principe se ne fa zelatore con la frase ampollosa: l'idea napoleonica penetra nei tuguri non già a portarvi la dichiarazione dei diritti dell'uomo, ma a calmare la fame e a sollevare i dolori. Cerca, mercé un lavoro intenso, di capire la vita economica. Nei suoi saggi, però, si riscontra ben poca scienza economica: egli è tuttora compreso delle idee protettrici dello zio. Esalta con parole quasi ditirambiche la barbabietola e non degna di un motto i sacrifici, che il perfezionamento tecnico dell'industria dello zucchero di barbabietola ha imposto ai consumatori. Anche il suo disegno di curare dall'alto, per mezzo di un'organizzazione di lavoro, la miseria popolare, e di elevare la società dei poveri alla più ricca associazione della Francia, attesta la sua scarsa esperienza. Ciò non ostante, era non poco notevole, che il pretendente prendesse parte così viva alle sofferenze delle popolazioni; e ciò tanto più in un tempo, in cui fra tutta l'alta nobiltà europea solamente il principe Oscar di Svezia e il principe Alberto d'Inghilterra intendevano la profonda gravità di siffatte questioni. L'amico del quarto stato poteva con pieno diritto gridare alla corona del re borghese: «Voi siete condannati alla sterilità, perché avete intelligenza, ma non avete cuore!». Frattanto la leggenda napoleonica aveva raggiunto il fastigio. Gli stessi uomini dell'estrema sinistra deliravano per Napoleone, e Luigi Blanc esclamava: «l'imperatore sarebbe stato un semidio senza la sua famiglia!». Le donne irrequiete dei napoleonidi ordivano incessantemente nuove congiure: i principi di Canino, i discendenti ferocemente radicali di Luciano, entrarono nelle società segrete italiane. La legge di espulsione dei Bonaparte offrì all'opposizione alla camera gradita materia a pompose esercitazioni oratorie. Il repubblicano Cremieux comparve come patrono degli esiliati, e Victor Hugo vantò: «Io ho difeso la causa dell'esilio, la causa della gloria!». Thiers e gli altri orleanisti scontenti mantenevano con la maggior franchezza i loro rapporti in Italia coi Bonaparte. I quali rappresentavano infaticabilmente la vecchia parte, mandavano in una lettera d'effetto gli ordini e le disposizioni dell'imperatore per la tomba nella chiesa degl'Invalidi, alimentavano con piccoli doni il buon animo delle città devote della Corsica. Quando nel 1840 si minacciò la guerra, Gerolamo si offrì di snudare per la Francia la sua nota spada valorosa, con la gradita espettativa, che nessuno avrebbe messo alla prova il suo eroismo. Finalmente il re concesse al vecchio Gerolamo il permesso di un soggiorno passeggiero. Vennero col vecchio l'infaticabile agente Pietri e il giovine principe Napoleone, il quale dall'esercito wurtemberghese portò in patria un fiero odio radicale contro la Germania mezzo gotica e reazionaria. Gl'invalidi andarono in visibilio, e il vecchio generale Petit si disfece in lagrime un giorno che il giovine, il quale rassomigliava allo zio in modo sorprendente, s'inginocchiò a pregare presso il sarcofago di marmo scuro. Subito Persigny nel segreto del carcere si diede da fare, perché il giovine Las Casas come deputato facesse già qualche cosa in pubblico pel ristabilimento dell'impero. I maneggi segreti di Walewski e del signor di Morny passarono affatto inosservati. Questo fratellastro di Luigi Bonaparte era riguardato alla corte semplicemente come un fanatico allevatore di cavalli; col fatto teneva in mano tutte le fila della cospirazione. Tutto ciò importava poco. Ma un pretendente accorto, che fondava sull'incosciente forza di volontà di Morny, aspettava la propria ora e volgeva a un fine costante l'ambizione della casa. E quest'uomo conosceva la Francia, conosceva i sentimenti cattolici e l'attaccamento ai ricordi militari della popolazione delle campagne, ed era risoluto a conquistarsi l'ubbidienza tacita della borghesia, e a prendere la difesa delle moltitudini e legarle alla propria casa coi benefizi del lavoro. VI. Per intendere l'importanza di queste moltitudini e le loro ascendenti pretese, occorre gettare un'occhiata al movimento intellettuale del tempo. Laddove l'istruzione casalinga e il tremacuore poliziesco del buon tempo antico propendevano ad attribuire alla potenza rivoluzionaria dell'idea un'importanza maggiore della vera, oggigiorno l'indagine storica mondiale ha già da un pezzo compreso, che le grandi rivoluzioni sono di regola provocate dal conflitto degl'interessi sociali, e, lieta di tale scoperta, è molto incline a tenere in mediocre conto l'efficacia del pensiero politico. Solo che anche nella vita dei popoli il corpo e l'anima non sono separabili; e la connessione storica non ci si rivela, se non quando consideriamo l'opera delle idee nella sua azione di reciprocità con le istituzioni dello stato, con le condizioni della società. Proprio al tempo della monarchia di luglio l'efficacia immediatamente pratica delle idee si dimostra palmare. Le penose condizioni dei lavoratori non avrebbero potuto da sole condurre alla caduta del regime, se un'abbondante letteratura sempre più ribelle e febbrile non avesse abituato il popolo a queste due idee: che il godimento dei beni, che è il supremo bene, è destinato in misura illimitata a ogni mortale; e che lo stato è esso solo responsabile dei mali della società e esso solo ha il dovere di risanarli. L'una e l'altra idea, che fornivano indubitabilmente le forze animatrici agli scritti clamorosi del giorno, si spiegano a loro volta con le condizioni sociali e politiche. Per un popolo dominato da una plutocrazia senza cuore, il necessario concetto del mondo e della vita non può essere che il grossolano materialismo: il tipo ideale di uno stato onnipotente, governante per volere delle moltitudini e per le moltitudini, era il figlio ingrato ma legittimo della burocrazia napoleonica. Poche parole basteranno. Anche noi, purtroppo, abbiamo una copia fedele, se pure sbiadita, di questo movimento francese nel nostro radicalismo degli ultimi trenta o quarant'anni; giacché mai prima di ora, nemmeno al tempo di Luigi XIV o della presa della Bastiglia, l'avviamento della civiltà francese aveva esercitato sulla nostra nazionalità un'influenza così profonda e così perniciosa. In seguito Napoleone III ha mandato capovolto il nostro entusiasmo per la Francia; tanto che ora corriamo, invece, il pericolo di spaccar sovente sentenze sulla lascivia dei costumi e degli scritti dei nostri vicini, e con un'albagia farisaica, che mal si addice alla modestia valorosa dei tedeschi. In verità, di quegli onesti giudizi dei critici ideali sui vizi reali della Francia odierna, giudizi che ogni tanto si pavoneggiano solennemente nelle appendici delle nostre gazzette, noi faremmo volentieri a meno, tanto più che cadrebbero sotto il dileggio e il riso universale, se nulla nulla gli anonimi redattori si decidessero a rivelare il proprio immacolato nome. Il salmo di condannazione della nuova Babilonia francese è intonato nel modo più fragoroso dai giornali di Vienna: proprio Vienna, che non si trova a un livello morale molto più alto di Parigi; perché, se sul Danubio si pecca meno, vi si lavora però di gran lunga anche meno che sulla Senna. Gli autori di siffatti quaresimali a buon mercato dimenticano fino a qual segno noi stessi, al tempo della giovine Germania, c'intrigammo a fondo nelle reti della sirena parigina. Dimenticano, che il giudizio sui più delicati problemi morali dev'essere e deve rimanere diverso secondo le varie nazionalità, non ostante il cristianesimo e il continuo e vivo scambio mondiale. Il sangue tumultuoso della nostra gioventù ama sedarsi tra i bicchieri e i duelli, l'ardore dei giovani francesi nelle avventure galanti; e alla domanda, quale di queste due debolezze nazionali riesca più rovinosa al temperamento e al carattere non ancora formati dei giovani, non si può a ogni caso rispondere in un modo unico, che valga egualmente per tutti gli uomini. Comunque, noi siamo in ogni senso un popolo più austero dei nostri vicini. Il carattere di Manon Lescaut, da quando il vecchio abate Prévost lo modellò con incantevole grazia, è rimasto l'immortale figura prediletta della poesia francese; e chi, non ostante qualsiasi avversione, può misconoscere l'amabilità trasportante, l'indistruttibile freschezza di cotesta donna? Parimente, la gioventù radicale della monarchia di luglio, che si è accesa la testa a idee cupide e il cuore a immagini lascive, mostra nulladimeno alcuni tratti di sacrificio magnanimo, di eroica bravura, che fanno più difficoltoso al moralista il suo malinconico mestiere. Ma anche il giudizio più benevolo, che attribuisce il giusto peso alla peculiarità del genio nazionale, è obbligato però a confessare, che la letteratura di quel tempo, sensuale, torbida, effeminata nella sua incontentabilità messa _coquettement_ in mostra, offre uno spettacolo desolatamente scostante. Tanto ardore sensuale e nudità sfacciata, e così poca vera e forte passione! Tante minacce sanguinose, e pure tanto terrore nell'animo! Querimonie tanto rumorose contro ogni istituzione, e neppure un accenno di quella seria coscienza riformatrice, che può sostenere il mondo vacillante e raddirizzarlo a buon fine! Chi giudicasse la nazione da tali scritti, dovrebbe disperare di lei. Tuttavia, come nelle opere dei giovani tedeschi si specchiavano solo i sentimenti di una parte della nostra nazione, parimente gli scritti del radicalismo francese non ritraggono punto per intero la vita nazionale. E nemmeno la vita letteraria; giacché, allato agli strepitosi agitatori d'idee del momento, procedeva silenzioso e diligente, se pure meno importante che in Germania, lo schietto e solido lavoro scientifico. Il carattere prosaico del nuovo regime addusse una depressione precipitosa della vita artistica. I saloni intellettuali del vecchio tempo chiusero le porte l'uno dietro l'altro; l'aria in cui respira lo spirito diventò sempre più rarefatta in quella società tiranneggiata dall'industria e dal commercio e dalle passioni della vita pubblica. Il mondo turbolento non lascia più spazio alcuno alla produzione schiettamente artistica; la tendenza, la lotta del giorno trascina fuori della via della pace tutti i poeti, anche l'unica tempra di gran poeta, che apparve in quei giorni: Giorgio Sand. Era passato il tempo, che Béranger dava la soia al Marquis de Carabas e cantava a scherno della nobiltà il ritornello _je suis vilain et très-vilain_. Adesso la lotta della gioventù era volta contro le classi medie, e coscriveva i combattenti sia nei palazzi della parrocchia di Santa Clotilde, sia nei trivi del sobborgo Sant'Antonio. La recente amicizia tra Chateaubriand e Béranger fu a ragione presentata come il segno dei tempi mutati: i sognamenti radicali di Lamartine sono suscitati la più parte dalla ripugnanza del gentiluomo pei bottegai. Pareva come se nella società i più alti e i più bassi volessero ribellarsi di conserva; e perciò gl'irriflessivi ne cavarono la precipitosa conclusione, che la monarchia di luglio fosse davvero un regime del giusto mezzo. Cotesti elementi variamente misti dell'opposizione s'impadronirono prontamente dell'assoluto dominio della letteratura; e ogni legge repressiva dello stato rinvigorì la loro forza e la loro rabbia. La lotta contro le istituzioni divenne una moda; _cela posait dans le monde_. Certo, soltanto l'antico regime sotto Luigi XVI ha durato assalti in così gran numero e trovato difensori così scarsi, come la monarchia di luglio; e l'opposizione, ora, si lanciava al sovvertimento dello stato con una consapevolezza impareggiabilmente più chiara che non ai tempi di Beaumarchais. Considera la ribellione come un sacro diritto; una rivoluzione della coscienza, del disprezzo seguirà le rivoluzioni della libertà e della gloria. Chi è in rapporto col governo, incorre nella taccia di corruzione; perfino Rossi, il patriota italiano, un martire della libertà, non fu risparmiato dall'ira delle gazzette né dalla grossolanità degli studenti, perché era stato chiamato alla cattedra da Guizot. Dilettanti e naturalisti dànno alla stampa l'intonazione: in questo stato la classe dirigente è solo la burocrazia. Chi ne è fuori e paga le imposte, non sa e non vuol sapere come appare il mondo visto dall'alto. L'opposizione non cercò mai di considerare le cose mettendosi dal posto del governo, e di ponderare le condizioni che rendono possibile l'azione del governare; e perciò le mancava il primo presupposto di ogni pubblicistica feconda. Non appena un liberale faceva da ministro le esperienze che solo da quel posto gli era dato raccogliere, e moderava in conseguenza le sue opinioni di partito, lì per lì veniva battezzato traditore. E nella storia degli stati monarchici è semplicemente senza esempio lo sterminio di vituperii, che fu rovesciato sulla persona del re. Quando il re con atto non da sovrano, e contro le antiche tradizioni legittime della corona, condusse le pratiche per apparire di aver donato i propri beni ai figli, ebbene, non fu meno ignobile il castigo che gliene diede Timone Cormenin coi suoi scritti velenosi e incendiari. Il monarca non deve mai badare ai suoi privati diritti: quando il re, per proteggere la moglie da qualche nuovo tentativo d'irruzione di plebe, fece fare la cancellata di fianco al giardino delle Tuileries, Béranger gli lanciò la canzone: _Pauvre ouvrier, on n'est plus sous l'empire, on n'entre pas dans le palais des rois._ Non è facile rifruscolare di sotto a un tal cumulo di negazione e di passione i principii positivi della democrazia moderata. Stando però all'azione della maggioranza dei seguaci del partito nazionale e della riforma, ci è dato stabilire, che essi erano animati nello stesso tempo da due ideali: che lo stato fosse mantenuto gagliardo da un accentramento potente il quale abbracciasse anche gl'interessi spirituali; che l'individuo godesse di una libertà illimitata, conducente in fine alla perfezione dello stato, all'anarchia. Le due teorie si escludono a vicenda. In ogni popolo costituito soltanto da impiegati e contribuenti, i partiti estremi oscillano necessariamente tra l'idea dell'individualismo e quella dell'onnipotenza statale. E forse che la costituzione del 1791 non aveva già fatto il memorabile esperimento di fondere in uno questo fuoco e quest'acqua? Le nature fantastiche come Lamartine vanno più lungi e chiedono, come prima condizione della democrazia, che tutti i poteri dello stato emanino dal suffragio popolare e siano conferiti solamente a tempo. Se non che, chi dalla stessa bocca sente dire, che l'accentramento dev'essere tanto più forte quanto maggiore la libertà, non può pensare senza un brivido a cotesta onnipotenza statale democratica. Tutte le frazioni della democrazia s'incontravano però nel desiderio del suffragio universale: il _suffrage universel_ è la patente di nobiltà del popolo, e bisogna cercarla a ogni costo anche tra i rottami del trono. Più di queste brame riusciva funesta allo stato la fantastica venerazione per lo spettro insanguinato della Rivoluzione, che dal campo democratico allungava la sua ombra sulla nazione. Conosciamo già il torbido fanatismo per la Rivoluzione e, insieme, pel suo domatore; solo che, laddove prima l'entusiasmo per la Rivoluzione si restringeva ai primi anni in cui essa principiò, adesso, invece, cominciò a sparire nella nuova generazione il profondo disgusto, che la rabbia sanguinaria dei devoti della ghigliottina aveva lasciato nell'animo dei testimoni oculari. L'opposizione diventava di giorno in giorno più esosa, e finì con l'inebbriarsi, prima ancora che la nuova rivoluzione principiasse, di quegli spettacoli atroci coi quali si era chiusa degenerando la prima rivoluzione. Il detto classico del tempo del terrore: «rovini pure il paese, i principii restano», rispondeva altrettanto a capello al sentimento della dottrina radicale ora in voga. L'immagine di Robespierre troneggiava in un'aureola sul frontespizio del calendario repubblicano, e cento scritti incendiari glorificavano la ghigliottina e celebravano il giorno in cui Filippo avrebbe lasciato il capo su questo altare della libertà. Apparve in quel torno, e segnò un'êra nella storia dell'opinione pubblica, l'infelice libro che rese familiare il culto del terrore fra tutte le persone colte: la _Storia dei Girondini_ di Lamartine. «Commisera gli uomini, compiange le donne, deifica la filosofia e la libertà», così l'autore stesso descrive la propria sentimentale concezione storica. L'incontestabile verità, che in tali tempi di eccitazione convulsa nessun singolo cittadino si trova più al caso di portare la completa responsabilità dei propri misfatti, è esagerata a tal segno da una deplorabile felicità di tocco, che la voce della coscienza tace, e cade ogni accusa. I fanatici della Montagna, e singolarmente le mogli entusiaste dei giacobini, compaiono pomposamente drappeggiati nella toga della libertà: che è un vero incanto per la vanità nazionale. I lettori apprendono con piacevole stupore, che la terribile prosa di quelle ecatombi sia stata, in fondo, altamente romantica. Perfino quel duro lanzichenecco di Saint-Arnaud confessa nelle sue lettere di non aver saputo resistere al fascino di questo libro: le persone colte si abituarono a giocare a un gioco voluttuoso con lo spavento. Ma il poeta, che pel primo agitava il turibolo davanti a cotesti falsi idoli, era un democratico moderato; e perciò avrebbe dovuto opporsi con onorevole coraggio al primo tentativo di un ritorno del dominio del terrore. Tanto era cieca l'ingenuità di una generazione cresciuta nella pace, la quale aveva dimenticato fino a che punto è facile scatenare nell'uomo la belva; tanto insanabile era la confusione mentale di una democrazia, che riceveva tutti gl'impulsi soltanto dalla fantasia! Alcuni deliravano per la Convenzione, altri per l'America; mentre in effetto nessuno di loro voleva sul serio le condizioni e limitazioni della libertà americana. Per contro, altri, come occasionalmente Emilio Girardin, ponevano l'ideale della democrazia in un supremo magistrato responsabile, volontà popolare fatta carne. Tutte queste dottrine contraddittorie erano esposte con durezza e intolleranza giacobine. Quando un partito così confuso e inconsistente cercava tuttora l'alleanza coi comunisti, esso veniva a fare l'esperienza, che una lega col fanatismo si risolve in ogni tempo in una società leonina. È un ricordo profondamente vergognoso, che i nostri possidenti non si siano indotti prima a riflettere seriamente sulla situazione delle classi lavoratrici trasformata dalla libera concorrenza, se non davanti allo strepito minaccioso dei comunisti, se non davanti allo spettro rosso. Quando Saint-Simon sferza il vile egoismo dei legisti, come chiama i liberali, e afferma che la loro divisa è _ôte-toi de là que je m'y mette_; quando Rouher nella sua invettiva contro la monarchia di luglio dichiara che il popolo è stato scoperto la prima volta nel 1848; non si può negare che in siffatte esagerazioni si nasconda una grave verità. La dottrina economica ufficiale predicava beatamente il servizio di Mammona, sia pure senza la cinica franchezza, che in Inghilterra ha procacciato al dottor Ure una trista immortalità. Col fatto, la Francia ufficiale forniva qualche somiglianza con quella Roma di Polibio, dove nessuno dava, se non vi era obbligato; almeno per quanto è possibile paragonare genericamente un'età cristiana con la durezza di cuore dell'antichità. Dimenticate dalla borghesia, abituate alle forme burocratiche, senza nemmeno il diritto, come in Inghilterra, di far noti al parlamento i propri desiderii per mezzo di comizi e di petizioni popolari, le moltitudini caddero in preda alla loro disperazione e ai maneggi dei demagoghi. Ignare del soccorso della previdenza il quale si rinnova ogni giorno, sognavano un precipitoso sovvertimento dell'ordine sociale. E il povero lavoratore abbandonato come mai avrebbe potuto ritrovarsi, tra quei fenomeni affatto strani e inauditi, che la nuova grande industria portava nella vita commerciale? Le energie del lavoro e del capitale, invano invocate dall'agricoltura, affluivano in massa alle fabbriche. Una divisione del lavoro accuratamente perfezionata permette agl'intraprenditori di guadagnare grandi somme con un tratto di penna, e tutta quanta la distribuzione dei beni si presenta al lavoratore ignaro come una frode o un gioco d'azzardo. Donde le crisi commerciali che, incomprensibili al lavoratore, scoppiano improvvise e portano via il guadagno a mille e mille; e, insieme, la mostruosa supremazia dei grandi capitalisti, che nel diritto positivo trovano le armi più che sufficienti per assoggettarsi gli operai. Sebbene l'aumento della media proprietà immobiliare, in quel tempo, fosse facile a dimostrarsi, e fosse evidentissimo quello della media proprietà mobile, pure nel seno della grande industria risultò innegabilmente acuta e amareggiante la sproporzione nella ripartizione dei profitti. E questa enorme trasmutazione gravava sopra un quarto stato, il cui orgoglioso amor proprio non aveva l'eguale nel mondo; perché non era possibile dimenticare, che un tempo i possidenti avevano tremato per cinque anni di seguito davanti agli uomini delle picche del quartiere operaio. Posto che lo stato, come suonano le teorie democratiche di moda, posa unicamente sull'arbitrio del singolo, anche la ripartizione dei beni non deve dunque rispondere ai bisogni del singolo? Se lo stato è onnipotente, come in fondo ammettevano tutti i partiti, non deve esso rimovere di un colpo lo sfruttamento del lavoro da parte del capitale? Dove ogni diritto politico è legato alla proprietà, una logica inesorabile guida l'opposizione alla lotta contro la proprietà stessa. Al tempo dei tumulti operai senza scopo determinato e della distruzione delle macchine, segue il tempo della lotta pei fondamenti della società. Il socialismo e il comunismo, notati appena sotto i Borboni, trovarono ora un'eco strepitosa nell'innominata miseria delle regioni manifatturiere, e si presentarono con l'audace pretesa di portare qualcosa di schiettamente nuovo, una dottrina non mai udita di salvazione degli oppressi; e per quanto comica dovesse comparire una pretensione siffatta in un paese che già un tempo aveva sanguinato sotto la dominazione del comunismo pratico, ciò non ostante la paura dei possidenti le prestò fede. Non dimentichiamo, noi tedeschi, che in coteste lotte sociali la Francia ha combattuto e sofferto per l'Europa intera. Infatti, perché mai le dottrine del comunismo trovarono allora poca o nessuna rispondenza sul nostro suolo? Una ragione di tale fenomeno consiste senza dubbio nello spirito germanico d'indipendenza dei nostri operai, i quali si volgono più volonterosamente dei francesi ai sistemi di previdenza regolata. Un'altra ragione consiste nel carattere meno egoistico delle nostre classi medie. Il nome tedesco _Bürgerthum_ è un nome onorifico; talmente che quando il comunista da noi intende d'ingiuriare i borghesi, è costretto a pigliare in prestito dai francesi l'espressione _bourgeoisie_, che si confà alle condizioni nostre come il pugno nell'occhio. Se raffrontiamo il poeta prediletto della nostra borghesia moderna, Gustavo Freytag, con lo Scribe, fido cantore della _bourgeoisie_, possiamo senza vanità ma francamente domandare, quale di queste due classi medie sia meglio dotata di forza, di chiarezza, di umanità. Tuttavia la recisa differenza era determinata dal fatto, che a quel tempo l'industria tedesca era meno sviluppata della francese. Solo alcune regioni industriali, specialmente sul basso Reno, conoscevano già la miseria delle turbe, che ricordava Lilla o Lione; e anche lì le teorie comunistiche trovarono la porta aperta. Quando poi negli ultimi cinquant'anni ebbero anche da noi incremento le industrie in grande stile, allora gli operai avevano già davanti agli occhi le dure esperienze raccolte nelle lotte sociali dei francesi. Si deve alle dottrine sociali rivoluzionarie la gloria di avere spinto senza reticenze e in tutta la sua asprezza sotto gli occhi del mondo sonnecchiante la crudele parzialità del sistema della libera concorrenza: il nome stesso dell'opera di Proudhon «Contraddizioni economiche o Filosofia della miseria» era possibile soltanto in un tempo di gravi mali sociali. La domanda, a cui riescono tutti i comunisti: a che mi giova il diritto di acquistare beni, se non ne ho la potenza? una volta posta sul tappeto nella sua violenta banalità, non si poteva più levar via, doveva invece condurre necessariamente alle riforme sociali. Col fatto, in mezzo alle utopie, spuntava qualche singola idea di riforma possibile: la rivista operaia _l'Atelier_ propugnava il suffragio universale, l'istruzione popolare effettiva e le libere associazioni dei lavoratori. Coteste idee, però, erano senza dubbio un granellino di verità in un mare di assurdità: una siffatta letteratura sociale apriva un'ampia lizza a tutte le riprovevoli inclinazioni del tempo. Il gusto dei paradossi piccanti elevò in fine a sistema il pervertimento di tutte le idee: la proprietà è un furto, la donna è il piacere, Dio è il peccato. Quando Fourier con profonda sensatezza designò il lavoro stesso come felicità, i suoi insensati pedissequi ne cavarono subito la conseguenza, che se vuole il lavoro essere grato e piacevole, deve fissare il salario secondo i bisogni del lavoratore. La nozione dell'immanenza di Dio, questo frutto prezioso della moderna speculazione filosofica, fu manomesso dalla più sfrontata sensualità per fondare il «ripristinamento della carne» e accordare a ogni ghiottone il diritto a un consumo illimitato. La forma rozzissima delle teorie sociali riduceva al minimo il pericolo della loro durevolezza. Quando Barbès, Bernard e Blanqui dichiararono la guerra all'infame proprietà, a questa origine di tutti i mali, a questo ultimo rimasto dei privilegi, il delirio di cotesti così detti comunisti materialisti ricondusse di botto alla ragione la democrazia più moderata, e allo scioglimento dell'alleanza col comunismo. Ma agl'ingegni più fini, come Considérant e Cabet, riuscì presto di rinnovellare l'alleanza del radicalismo politico e del sociale, e lo stesso Lamartine aderendo esclamò: il partito sociale è un'idea! Luigi Blanc con un atteggiamento non troppo da statista domandava che lo stato, come quello che era l'industriale più grande di tutti, schiacciasse la prepotenza dei capitalisti; Pietro Leroux seppe con la sua mistica teosofia far breccia nel mondo della mezza cultura filosofica; e Lamennais edificava gli ascoltatori cattolici con una risacca di frasi cristiane, che giravano sempre intorno a una sola immagine: «il popolo grida: ho sete! I ricchi rispondono: bevi le tue lacrime!» I catechismi della _École sociétaire_ allagavano il paese, proponendosi un poco di minacciare, un poco di commovere; oggi di svegliare l'orgoglio nazionale con la descrizione del vetusto _socialisme gaulois_; domani di persuadere dolcemente i timidi, che si domandava un semplice esperimento in un solo comune, una semplice imposta ereditaria progressiva come un mezzo blando di transizione. Chi considera separatamente coteste improntitudini insensate, è quasi indotto a stupirsi, che il dispotismo in Francia non sia trionfato molto prima. Non era in siffatte dottrine un sol principio, che non combattesse la coscienza del valore personale, che è la pietra angolare di ogni libertà; non un sol principio, che non eccitasse la licenza delle folle e la comune paura dei possidenti. Proprio così: alcuni pensatori conseguenti tra i comunisti già professano la loro indifferenza verso qualsiasi forma di stato. Il motto delle più ardite associazioni segrete suona in generale: «eguaglianza, fraternità e industria»: la libertà è dimenticata. Arrivati a quel punto, il padrone non poteva mancare; perché nell'arte di promettere ai bramosi la cosa più grande, il dispotismo non è stato mai superato. Sebbene anche in queste dottrine sociali avesse la sua parte quell'idealismo traviato, che s'inserisce in ogni movimento sociale, pure il tono morale fondamentale della scuola si mantenne grossolanamente materialistico: l'immagine della _edénisation du monde_, della vita di ozio infingarda e sazia, mostrava dovunque il suo aspetto seducente di sotto alla maschera sentimentale. Perciò il comunismo trovò nel romanzo sociale la sua arma migliore. Fu un avvenimento nella storia della cultura moderna, quando Emilio Girardin, fondando il magnifico giornale _La Presse_ e perfezionando la pubblicità, assicurò alla stampa quotidiana una enorme diffusione, e col piccante romanzo di appendice seppe rispondere al gusto dei lettori di ogni specie. Un tempo profondamente infelice, nemico a Dio e a sé stesso, si esprime dalle opere della nuova poesia, che alla passione sostituisce sostanzialmente l'oscenità e l'atrocità. Dovunque, accanto a pretese e accuse smodate, si sente l'intima coscienza della propria aridità, del proprio epigonismo; accanto alle forme depravate di una sensualità odiosa, una nostalgia sconsolata, un desiderio non mai appagato. Alcune poesie di Alfredo De Musset ritraggono con toccante verità la desolata stanchezza di cotesti vecchi nati la vigilia, la disperazione di una gioventù che conosce soltanto lo spettro dell'amore e non ha mai conosciuto l'amore, che sente la benedizione della poesia come una maledizione, la forza della passione come una malattia. Sentimenti terribili, schiettamente moderni, che ogni giovine d'ingegno nelle ore cattive ha una volta assaporati, per imparare da uomo a superarli. In fondo, anche nelle opere migliori della poesia del dolore universale si trova molto sentimento affettato, inconsistente; perché i giovani dello _Sturm und Drang_ non lottavano contro una tirannide morale insopportabile, ma contro una società la quale, indiscutibilmente malata di gravi menzogne convenzionali, malsicura del proprio giudizio morale, è presa di tanto in tanto da accessi di suscettibilità ipocrita, sebbene di regola conceda un'indulgenza molto longanime al sangue ardente della gioventù. Tutta quanta la cultura del tempo si convelle nelle esagerazioni. Chi vuole scrivere efficacemente, cade nell'iperbole: quando Lamartine nella sua Marsigliese della Pace predica agli _chauvinistes_ la moderazione, trasmoda egli stesso oltre ogni misura, e afferma, che soltanto l'odio e l'egoismo hanno una patria. Se non che, non sono cotesti pochi, che determinano il sentimento del tempo: non la poesia del dolore universale; non Giorgio Sand, che sa con potenza creatrice trasfigurare lo stesso socialismo e presentarlo come la lotta del genio contro la grettezza bottegaia; non Balzac, che per la finezza della sua analisi psicologica ci fa con infinito godimento quasi dimenticare il suo banale evangelo dei diritti dell'uomo. Il dominio sulla fantasia delle moltitudini toccò piuttosto alla comune mediocrità di quei cavalieri d'industria della letteratura, i quali, come Eugenio Sue, sanno esasperare l'invidia e la cupidigia con descrizioni a colori taglienti, non illuminate mai dal raggio di un'idea. Chi leggendo qualcuno di questi romanzi sociali, ha conosciuto da vicino le figure tipiche dell'onesto scannatore, del crudo strozzino e della beltà da bordello angelicamente pura, conosce anche l'intero andazzo, ed è al caso di misurare quale tremenda efficacia pervertitrice abbia dovuto avere una siffatta letteratura, gittata a piene mani in mezzo al popolo mormoratore. E tanto più irresistibilmente si diffuse, in quanto era necessariamente scoppiata fuori dalle idee morali fondamentali dell'intera società. Giacché, quale era il tipo ideale dei ceti più alti? Il conte di Montecristo, il beniamino della musa dell'innocente _fanfaron_ Alessandro Dumas: l'uomo perfetto, che per spiccioli porta sempre un milione nel taschino del panciotto! Tutti gli organi del radicalismo gareggiavano nel vizio dell'adulazione al popolo. Uno dei principii della società dei diritti dell'uomo dice: ogni legge deve partire dalla premessa, che il popolo è buono e il governo è esposto alla tentazione! Se viene repressa una sedizione operaia, i fogli radicali arrischiano solo di rado e timidamente una parola di riprensione all'imprudenza commessa, ma non rifinano più di lodare l'eroismo delle mani callose e delle braccia nerborute. Il popolo vero e proprio è il quarto stato, _peuple-roi, peuple tout-puissant, peuple-idée_: stando a Victor Hugo, il monello di Parigi con l'aria della città universale respira l'innocenza; la vera aristocrazia sono gli operai. Qualunque scandalo del bel mondo, l'assassinio della duchessa di Praslin, la grande truffa della Compagnia delle Ferrovie del Nord, viene destramente adoperato a istituire il confronto tra l'innocenza dei bistrattati iloti e la scelleratezza dei sibariti crapulanti. Sovente anche la classe media intimidita non osa più difendere a viso aperto l'ordine dello stato contro l'innocente popolo. Generalmente l'ingiustizia dei giurati è elevata a regola in tutti i processi politici. Ad onta della paura per la borsa, la sazietà splenica dei ricchi saluta ogni attentato e ogni sommossa popolare come un felice diversivo alla monotonia del godimento. Dopo l'attentato di Fieschi, che tra i saggi del genere riportò senza dubbio il vanto della brutalità suprema, Nina Lassave si espose a un tanto l'entrata, e il gran mondo le sfilò a schiere davanti, accorso a vedere da vicino la fantesca butterata del bandito Fieschi! Qual meraviglia, se i demagoghi stimavano molto bassa, troppo bassa la forza di resistenza di cotesta società _blasée_, barcollante tra un'eccitazione nervosa e l'altra? * * * * * Ma conoscevano poi davvero il «popolo» che divinizzavano? Una gran parte degli operai delle città era a ogni modo sdrucciolata nel comunismo: la gioventù in camiciotto sognava le barricate e nelle sue canzoni da trivio vezzeggiava la ghigliottina con teneri appellativi. Sorti i capi che avessero saputo indirizzare il punto d'onore gagliardo e personale di queste classi, ci sarebbe stato da aspettarsi qualcosa di grande dalle valorose e audaci falangi. Ma il contrasto, mutuato alla vita della città, di _popolo grasso_ e _popolo minuto_ non soddisfa più davanti alla società multiforme di una nazione moderna. I demagoghi del giorno, come già un tempo Marat ed Hébert, non avevano alcuna comprensione della grande metà del quarto stato. Il loro _peuple_ viveva unicamente in città. Per contro, i contadini guardavano l'ingordigia del fisco con non minore odio degli operai, e, comunque, cercavano di disturbare con rude resistenza il censimento, perché ne temevano un inasprimento delle imposte: per loro, però, la proprietà era sacra, e ancora più sacra la Chiesa. Sarebbe venuto il tempo, che ai demagoghi stupefatti i contadini avrebbero dimostrata di formare essi la maggioranza della nazione. Rappresentandoci di nuovo nella mente la tregenda di coteste forze rivoluzionarie, ci rammentiamo del giudizio pronunziato da Napoleone sulle _Nozze di Figaro: c'est la révolution déjà en action!_ I seguaci dell'ordine costituito apparivano sempre più scoraggiati: la più parte dei realisti accettavano la permanenza del trono puramente come un male necessario, e solo pochi giornali, antesignano fra tutti per coraggio e disinteresse il _Journal des débats_, sostenevano ancora apertamente il monarchismo positivo. Una siffatta prudenza appariva poco incoraggiante appetto alla baldanza di ora in ora crescente dei radicali. Nel mondo che invecchia noi soli siamo giovani! sonava il loro grido di battaglia. «Anche Cristo», dichiarava Luigi Blanc, «fu urlato pazzo come noi comunisti». Proudhon profetava il giorno, che gl'improduttivi avrebbero implorato grazia ai piedi dei produttivi. Lamartine designava pubblicamente Marras come il Camillo Desmoulins della futura repubblica, e poco prima di febbraio Béranger cantava con compassione: _On bat monnaie avec l'or des couronnes, ces pauvres rois, ils seront tous noyés!_ Per giunta, il partito della sovversione era organizzato e ben addestrato alla lotta per le vie, e ognuno sentiva che il possesso delle Tuileries avrebbe deciso del presente regime. Né mancarono le voci ammonitrici. Sul principio di febbraio Montalembert dichiarò con piena rispondenza: Ninive fu distrutta in quattro giorni! Anche il bizzarro marchese di Boissy previde li catastrofe, e il signor di Morny intercede insistentemente presso il ministro per qualche condiscendenza, avanti che il movimento trovasse presa in quel mondo in fermentazione, come i chiacchieroni qualificavano il popolo. Fin dall'autunno del 1847 Tocqueville coi suoi amici aveva presentato un programma per salvare la monarchia: allargamento del suffragio, complesse concessioni al movimento sociale: da ora in poi il fine principale del governo doveva essere il miglioramento economico e morale delle classi umili. Il 27 gennaio pronunziò alla camera le parole profetiche: «Non vedete dunque, che le passioni politiche sono diventate sociali? Noi dormiamo su un vulcano!» Ma Guizot non una sola volta degnò di attenzione gli avvertimenti di Tocqueville; espresse freddamente l'avviso, che la credenza nella rivalità del terzo e quarto stato aveva sconcertato molte teste. Che questo contrasto di classi esistesse, che fosse una terribile realtà, ebbene, al ministro della borghesia non lo aveva insegnato nemmeno la storica battaglia di giugno: perfino nei suoi ultimi scritti egli si aspetta ancora la salute della Francia dalla riconciliazione del la borghesia con la nobiltà! Un regime straniato a tal segno dai tempi, doveva cadere. Su questo suolo il sistema parlamentare evidentemente era ormai consunto. La giovine generazione pensava troppo di sua testa per tollerare l'ordine antico, troppo confusamente per erigere un nuovo edifizio saldo. Le cose erano mature per una rivoluzione senza meta determinata, vale a dire pel dispotismo. FINE DEL PRIMO VOLUME. INDICE DEL VOLUME PRIMO Parte I. Il Primo Impero. I. La vittoria dell'Unità e dell'Eguaglianza p. 3 II. La Politica europea » 42 III. Il carattere di Napoleone » 66 IV. Gli effetti duraturi della sua opera » 74 V. Napoleone e Cesare » 79 Parte II. Le vecchie e nuove Classi abbienti. I. La Restaurazione fu una dominazione straniera » 101 II. I contrasti sociali » 118 III. Persistenza dell'Amministrazione napoleonica » 126 IV. La Leggenda napoleonica » 140 V. I Napoleonidi » 158 Parte III. L'età dell'oro della Borghesia. I. Dominio della Borghesia » 169 II. Sterilità e decadenza del Sistema parlamentare » 184 III. La Politica estera » 201 IV. Consacrazione ufficiale del Culto napoleonico » 225 V. Luigi Bonaparte » 232 VI. Radicalismo e Comunismo » 251 NOTA DEL TRASCRITTORE Sono stati corretti i seguenti refusi: ancora nella distruzione di quanto aveva allora allora[ripetuto] e i whigs[wighs] profittarono degli orrori di Sant'Elena corona funebre al côrso[córso], e vi aggiunse l'idolatria pei originale dell'incompletezza e della falsità[falsita], che si manifestava fu trascinati lontano dalla _fatalité gouvernementale_ [gouvernamentale], e si scambio traversò il canale; sorse il _Journal des économistes_ [economistes], commérage[commèrage] politique_ dei due vecchi. Il re assicurava --- Provided by LoyalBooks.com ---